Londra, New York, Chicago, Parigi, Milano, Cairo, Birmingham, Philadelphia, Berlino, Manila, Amsterdam, Stoccolma, Bagdad, Amman, Lagos, Zurigo, Santiago del Chile, Barcellona, Atene, Edimburgo, Melbourne, Dublino e Quito sono solo alcune delle piazze in cui il 21 ottobre 2023 si sono riversate centinaia di migliaia di persone di nazionalità diverse che hanno manifestato insieme contro l’escalation della violenza e il genocidio del popolo palestinese, contro l’occupazione Israeliana dei territori palestinesi e per un “cessate il fuoco” immediato ma vincolato al fatto che senza giustizia non c’è pace: una verità apparentemente scomoda di cui siamo tutt* testimoni da decenni.
Tuttavia, pochissimi media hanno coperto questa notizia. In Italia, ad esempio, nessuna delle principali testate giornalistiche ha raccontato i cortei che hanno riempito le città di tutto il mondo allo scadere della seconda settimana di bombardamenti incessanti sulla striscia di Gaza. Ma c’è un altro aspetto che va evidenziato delle enormi mobilitazioni di questi ultimi giorni.
Nonostante le omissioni e i silenzi assordanti dei media occidentali sugli eventi in corso, nonostante le “verità” gridate a reti unificate sui massacri prima di ogni credibile e possibile indagine, nonostante i licenziamenti e le numerose censure di programmi, persone e tentativi di approfondimento, sappiamo che in tantissime piazze centinaia di migliaia di corpi, collettivi, comunità, famiglie, studenti, persone credenti e non credenti si sono unite per urlare insieme: “Free free Palestine”.
Non stupisce la posizione della stampa occidentale in questa fase: se da una parte non rappresenta nulla di nuovo, dall’altra non fa che trasmettere il posizionamento dei governi che rappresenta. Possiamo leggere questa posizione come attualità dell’Imperialismo, come espressione dei rapporti post-coloniali tra l’Occidente e “il resto” del mondo, come ipocrita senso di colpa per la seconda guerra mondiale, e anche come elaborato sistema di “manufactured consensus” di cui abbiamo a lungo analizzato le forme in questi ultimi anni.
Eppure, alla luce di ciò che sta accadendo, vale forse la pena provare a ribaltare la narrazione e leggere questa posizione anche come espressione di una profonda paura che oggi i governi e i media occidentali esprimono. Ovvero, la paura di aver perso quasi del tutto la propria influenza sull’opinione pubblica – quel potere persuasivo che per anni è stato necessario a trasformare ogni guerra di dominio in una “guerra di civiltà”.
“La prima fake-news è arrivata con le caravelle di Cristoforo Colombo!”, mi ha detto quest’estate ridendo Helena Silvestre, un’attivista e cara amica brasiliana. In questi giorni, trovandomi a diffondere notizie di giornalisti, professionisti e persone palestinesi e israeliane che i media occidentali non riportano, non riesco a smettere di ripensare a quelle sue parole.
La paura che l’Occidente dimostra in questa fase è direttamente proporzionale al tentativo di rendere invisibili la forza e le inedite forme di lotta che si stanno producendo nelle piazze in questi giorni. E sebbene sia troppo presto per qualsiasi tipo di definizione, condivido l’entusiasmo di chi legge in queste mobilitazioni il primo tentativo di sciopero internazionalista decoloniale del XXI secolo.
Le piazze di questi giorni si muovono infatti in uno spazio relativamente nuovo di coscientizzazione globale, che si definisce anche nella critica alla parzialità di governi e media occidentali e al loro pericolosissimo ruolo incendiario. In decine di lingue diverse, le persone mobilitatesi interrogano su come sia possibile ancora dare ascolto a chi, chiedendo obiettività, riporta come “vere” notizie non ancora verificate e a chi, chiedendo ponderatezza, criminalizza ogni profondità di analisi e promuove, attraverso un linguaggio tossico e semplificato, l’acuirsi di sentimenti irrazionali che portano a omicidi e linciaggi di stampo etnico.
Infine, le piazze di questi giorni si interrogano su come sia possibile ancora dare ascolto a chi chiede in modo ossessivo la condanna della violenza a coloro che la violenza la condannano da oltre 75 anni.
Proprio l’altro giorno, sul confine di Rafah, l’attivista egiziana Rahma Zein sintetizzava questi interrogativi tentando di instaurare un dialogo tra pari con una giornalista della CNN, denunciando il rapporto sempre più asimmetrico tra fatti, realtà e la loro rappresentazione sui media occidentali, che si riproduce nella retorica dicotomica tra buoni e cattivi, bianchi e non bianchi, civilizzati e – ça va sans dire – terroristi.
Questa narrazione oggi non funziona più. Lo sappiamo noi che ne conosciamo a fondo le grammatiche e lo sanno chi ne subisce l’influenza diretta: i palestinesi ammazzati ogni giorno da anni, il mondo arabo che torna a riempire le piazze dal Marocco all’Iraq e anche quegli israeliani che lottano contro l’apartheid del loro governo da diverso tempo. Ma lo sanno anche loro, quelli che attraverso questa narrazione hanno tracciato per secoli i confini tra chi ha diritto alla vita e chi no.
Per questa ragione, la sfida sembra adesso quella di capire con attenzione come muoversi dentro alla paura che l’Occidente esprime nei confronti di un terremoto di senso che rischia di smottarne (finalmente) le sue fondamenta antidemocratiche; e come ci si posiziona davanti alla perdita di credibilità dei suoi media mainstream: capire come muoversi e cosa dobbiamo aspettarci da questa fase inedita, quali i rischi e le potenzialità che questa comporta.
—
In allegato un documento che raccoglie scritti, resoconti, riflessioni e parole di chi vive in Palestina e in Israele, e di chi studia il contesto da anni.
credit foto @Migrantsinculture