Il Libano all’indomani dell’attacco che ha già cambiato gli equilibri della guerra

Stamattina, i libanesi si sono svegliati con una consapevolezza: che il loro paese, diviso, segregato, è nudo. Le loro insicurezze, esposte. I loro corpi, scorticati. E non è una metafora della fragilità del sistema di sorveglianza collassato ieri, 17 settembre, di fronte alla portata colossale dell’attacco cibernetico subito e che nessuno dubita – nessuno – sia stato orchestrato dal Mossad. Non è una metafora. Dei 2,800 feriti di ieri – già due, il giorno dopo la catastrofe, si sono aggiunti alla lista dei morti, 12 in totale. In Libano e nel resto del mondo arabo li si sente spesso chiamare shuhada, «martiri», non tanto per la coloritura religiosa della causa – se è ammesso parlare di guerra, è pur sempre una guerra di liberazione – ma per la giustezza, la purezza della caduta. La cieca fiducia che si finirà in paradiso. Un attacco nelle tasche, ad altezza occhi dei bambini. Due bambini diventati martiri perché troppo bassi per salvarsi. Alti quanto è alto il livello da terra di un cercapersone, il livello di una cintura, di un marsupio. Altezza misurata in termini di distanza dai detriti di un’esplosione – età, in quelli di numero di guerre testimoniate. Non è una metafora. La statura dei bambini è una questione corporea. Lo scorticamento è reale.

Il Libano, oggi, è un paese scorticato. Ce ne siamo resi conto più tardi, noi che il sud, la Valle della Beqaa, nell’est confinante con la Siria, e i sobborghi meridionali della capitale – zone attaccate direttamente da Israele, poiché sotto stretto controllo di Hezbollah – abbiamo smesso di frequentarli. Per divieto, per paura, per rispetto: della loro diffidenza, dei loro lutti, del loro non piangere, e ostinarsi a celebrare il martirio. Non la morte. Noi inorriditi da ciò che non capiamo, noi timorosi di essere ingombranti, elefanti in vetrerie del dolore. Così come non frequentiamo la Siria, né le voci che ci raggiungono – manipolate – a qualche decina di chilometri di distanza, oltreconfine. La notizia appresa sotto forma di traffico confuso, ambulanze, urla indistinte di sirene e persone, e appelli di ospedali che chiedevano sangue – ai donatori idonei, e di andarsene – ai giornalisti, ha assunto le forme inquietanti di un attentato solo con il passare delle ore. Tre, prima che Hezbollah pubblicasse il primo comunicato.

Quando, alle 3.45, una catena di microesplosioni ha lavato il sangue del Libano sciita con altro sangue, esacerbato l’angoscia sciita con altra angoscia – l’esclusione, con altra esclusione – noi che abbiamo imparato a normalizzare i numeri dei morti nelle decine, e dei feriti nelle centinaia e migliaia – digerendoli con il sangue freddo da breaking news – non ci siamo resi conto della portata della cesura. La notizia – e letteralmente – ci ha rotti. Spezzando le voci dei cronisti in diretta televisiva, oltrepassando i limiti di ciò che noi contemplatori pensavamo possibile.

La superiorità militare e tecnologica israeliana è davvero capace di tanto. La crudeltà infame dei massacri ordinati dalle camere di comando, la carneficina dei pulsanti, ha davvero raggiunto anche i libanesi. L’ipocrisia dei media occidentali che rifiutano le categorie di genocidio e terrorismo a meno che a compierle non sia lo stato di Israele è davvero così priva di pudore.

E nelle ore della lucidità, mentre tra i 2,800 categorizzati come feriti iniziano a emergere i «morti», gli «accecati», gli «amputati» – mentre i mandanti continuano a essere discolpati in quanto «legittimi difensori» – ci si interroga su cosa avverrà adesso. Attaccare il sistema di comunicazione del Partito di Dio per preparare un altro attacco, dalla riuscita assicurata – o punire con lo stato di terrore psicologico, l’attesa fine a sé stessa, la paura dell’altro, del vicino solo perché sciita, di nome Ali o Hassan, residente a Dahieh o a Tiro, un paese già indebolito, denudato, traumatizzato, profondamente diviso. Un paese assediato da sé stesso, dai suoi demoni, le sue dimensioni così ridotte, la sua posizione geografica – una prigione di confini in fiamme -, dalla dissepoltura dei suoi fantasmi di guerra civile. 

La gente guarda terrorizzata i propri telefonini. Lo faccio io, mentre scrivo di getto queste righe. Sono raggiungibile? Non lo siamo forse tutti? Immaginate che sia così. Di trovarvi in un supermercato più economico, al di là della strada che separa il Libano francofono, maronita, sicuro – da quello sciita, sotto attacco. Immaginate che il nemico si sia intruso a tal punto nella vostra sicurezza, da essersi addentrato nelle tasche dei vostri vicini, sempre con loro. Fisicamente con loro. L’effetto – già in atto – è di evitare, isolare, ostracizzare l’altro che crediamo un bersaglio. Lasciarlo esplodere da solo, sotto le macerie che continuano a crollargli addosso da quasi un anno, senza che chieda il nostro aiuto. E immaginate che i suoi figli cadano martiri per non essere cresciuti abbastanza, dell’età di un’altra, ennesima guerra. Che questo basti per diventare un danno collaterale. Che i figli, martiri perché puri, siano anche i vostri. Immaginate che tutto questo fosse possibile da chissà quanti mesi, ma soltanto ieri qualcuno nella stanza di comando abbia deciso di dimostrarlo, davanti agli occhi ciechi – e questa sì che è una metafora – del mondo individualista. E dato che nessuno poteva prevederlo, immaginate qualcosa di ben peggiore, immaginate l’inimmaginabile.

Mentre, nei giorni scorsi, i cristiani della destra nazionalista commemoravano la morte del leader falangista Bashir Gemayel, assassinato nel quartier generale del partito, il 15 settembre 1982 – e a Sabra e Shatila i sopravvissuti del massacro del 16 settembre dello stesso anno, quarantadue anni fa, si interrogavano sul destino dell’essere palestinesi, ieri e oggi, al di là delle stragi; mentre i due mondi non si toccano, e i protagonisti dei consequenziali momenti storici continuano gli uni a combattere le proprie battaglie retoriche, e gli altri la loro perenne guerra di esistenza, un’altra fetta di questo paese scorticato, sanguinante, viene trasportata con urgenza in tutti gli ospedali di Beirut, dai sobborghi meridionali ai ricchi quartieri cristiani. Incontrandosi nel traffico stradale, spaesati, confusi dalle grida che sovrastano le sirene che sovrastano i sussulti. Le comunità segregate, adesso, le separano poche decine di metri – le mura degli ospedali – e il suolo di un paese da cui il sangue non si è mai asciugato, e nei cui tunnel sotterranei, decine di altri morti e feriti stanno inondando le fondamenta del Libano, un altro, un Libano che non sarà più.