“Il bene prevale numericamente sul male, ma non sa fiutare il pericolo”
(Paolo Rumiz, da ‘Maschere per un massacro’).
C’è il sole, e c’è quel silenzio apparentemente fermo della campagna nelle pianure attorno a Srebrenica, piccola cittadina a un centinaio di chilometri da Sarajevo. Qui, lo sappiamo tutti, nelle ore tra il 10 e il 12 luglio del 1995 le milizie serbo-bosniache agli ordini del generale Ratko Mladić, nell’ambito di un atto di vera e propria “pulizia etnica”, eseguirono quello che gli stessi tribunali internazionali definirono un genocidio, il più impressionante e buio massacro accaduto in Europa dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. 8372 musulmani di sesso maschile e in età compresa fra i 15 e i 65 anni furono sterminati (a volte con fucilazione a volte con sistemi ancor più abominevoli) e sepolti in fosse comuni. Più volte gli stessi corpi furono spostati da un punto ad un altro nel tentativo di occultare fatti e prove. Il 13 luglio, poche ore dopo, altri 300 musulmani, che avevano trovato “riparo” a Potočari, paese nei pressi di Srebrenica, presso il compound dei Caschi Blu olandesi della Nato, subirono la stessa sorte.
I Caschi Blu li allontanarono dalla base e serrarono i cancelli, asserendo che non vi era più spazio sufficiente e che comunque non vi era alcun pericolo. Col trascorrere delle ore, dopo aver camminato tra i vialetti del cimitero, del memoriale, dopo essere stato in paese, aver pranzato al tavolino di un bar, dopo aver visitato e percorso in lungo e in largo il grandissimo hangar dove era situato il compound della Nato, ora museo, cresceva dentro me una domanda, retorica forse, eppure pungente: “come si guarda il dolore della Storia, come lo si può fotografare, oggi?”. Facciamo alcuni passi indietro.
Ci sono tre immagini, fra le tante, che mi inorridiscono ogniqualvolta la mia mente vi ritorna, riguardo a quanto accaduto tra questi prati e le colline circostanti a luglio del 1995. La prima è questa: è l’11 luglio, una qualche televisione sta intervistando Mladić. Il generale parla a dei bambini, tra i prati, distribuisce caramelle, e li rassicura a proposito dei loro padri (musulmani), sono al sicuro, non gli verrà torto un capello, presto torneranno da loro. Mentre parla, a pochi metri da lì, il massacro ha già avuto inizio, e i padri di quei bambini vengono sterminati in quello stesso momento.
La seconda immagine è una fotografia, pubblica: è il 12 luglio 1995, giorno nel quale sono accaduti i fatti di Srebrenica e il giorno precedente a quelli di Potočari. Il protagonista è nuovamente Ratko Mladić (a sinistra). Sta bevendo assieme al comandante del contingente olandese dei caschi blu, colonnello Thom Karremans (al centro). Entrambi in abiti militari. Uno è lì a sterminare, l’altro sarebbe lì a porre una qualche forma di difesa, in nome dell’Europa. Mladić e Karremans si fanno un bicchiere insieme. Karremans, di fatto, lasciò la base dei Caschi Blu nelle mani di Mladić, quindi permise ai militari serbi di procedere alla deportazione forzata di uomini bosniaci dalla città di Srebrenica a Potočari, divenuto poi da luogo di protezione per i musulmani a teatro di un massacro. Quando Mladić lo accusò di avere richiesto il bombardamento da parte delle forze Nato, Karremans si difese pronunciando una frase per molti versi subdola, che infatti molti ricordano con indignazione: “Io sono solo il pianista. Non sparate al pianista”. Esiste un video che riprende la scena. Nel momento in cui Karremans lascia la base di Potočari, Mladić gli consegna una lampada da tavolo come regalo per la moglie (Karremans attraversava in quel periodo una crisi coniugale, uno dei tanti motivi per cui il suo diretto superiore, generale Hans Couzy, dichiarò in più di un’occasione che Karremans non sarebbe stato adatto a fronteggiare una situazione come quella di Srebrenica).
La terza immagine è rappresentata dalla figura della figlia femmina di Mladić: Ana. Ana Mladić si tolse la vita con un colpo di pistola la notte del 24 marzo 1994, all’età di 23 anni. Per molti versi il gesto (di per sé insondabile) del suicidio rimane un mistero irrisolto, anche se probabilmente Ana, dopo avere scoperto che la “stella” che per lei e per la sua vita rappresentava il padre era una fandonia, cadde in uno stato di angoscia e prostrazione indicibili. Durante e dopo un viaggio post laurea (in medicina) a Mosca assieme ad alcuni amici, molti dei quali bosniaci musulmani, lontana dalle censure che la “proteggevano” in Serbia, Ana conobbe passo passo “la verità”, giorno dopo giorno. A questo va aggiunto un ulteriore fatto, altrettanto orribile: il soldato Dragan Stojkovic, l’uomo che amava e con cui aveva una relazione, osteggiata dal padre Ratko, venne mandato a morire al fronte proprio da quest’ultimo*.
Ci vollero 22 anni e 4 mesi (di cui 15 di latitanza), da quel 11 luglio 1995, ma il 22 novembre 2017 Ratko Mladić, il macellaio del più grande genocidio avvenuto in Europa dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, fu condannato all’ergastolo dal Tribunale penale internazionale, ufficialmente colpevole di genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra, per aver avuto un ruolo da protagonista in un’associazione criminale con lo scopo di eliminare la popolazione non serba dalla Bosnia, per operazioni sanguinose di pulizia etnica, responsabilità in stupri e stupri di massa, stermini, e per aver avuto un ruolo decisivo nel bombardamento d’artiglieria effettuato dalle forze serbe di Bosnia, contro la capitale bosniaca Sarajevo, nei mesi di assedio che portarono alla morte di diecimila civili. La Corte che giudicò Mladic, il Tribunale penale internazionale per l’ex Iugoslavia, è stata istituito nel 1993, con il compito di perseguire gravi violazioni del diritto internazionale commesse da singole persone nell’ambito delle guerre iugoslave degli anni ’90. È stato voluto dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ed è un tribunale ad hoc, evidentemente, e il suo status è non permanente, per cui la sua giurisdizione ha limiti sia geografici che temporali. È il primo tribunale speciale istituito dopo quelli militari di Norimberga, creati per giudicare e condannare i gerarchi nazisti (1945/46). A differenza di questi ultimi, la pena massima prevista è l’ergastolo, mentre Norimberga prevedeva anche la pena di morte.
Ma perché parlare di Srebrenica, oggi? Me lo sono chiesto durante le giornate trascorse in paese e a Sarajevo, e me lo chiedo mentre scrivo. La prima risposta, forse scontata, è: perché è necessario. Ancora e comunque. Sono passati 28 anni, ma non tutte le persone massacrate a Srebrenica sono state ritrovate, non tutte sono state identificate, molti – ancora – non hanno un nome. Nei giorni in Bosnia, e in particolare al memoriale di Srebrenica, mentre guardavo i filmati in cui il generale Mladić passava caramelle ai bambini e gli diceva di stare tranquilli, ho faticato a comprendere che cosa dovevo pensare, che cosa potevo pensare. Che cosa fosse adeguato, giusto. E come avrei dovuto guardarli, quel dolore, quella Storia, come avrei potuto fotografarli, raccontarli, senza incappare nello stereotipo, senza scadere nel voyeurismo. Le ore, a Srebrenica, inducono a pensare ad alcune cose, probabilmente poche ma a ripetizione, e soprattutto inducono a sentire. Cosa, è difficile dirlo. Una sorta di vicinanza. Forse non ai fatti in sé ma all’uomo. A quale? Mi tornano alla mente le parole di Primo Levi, quando una giornalista Rai, negli anni ’80, gli domandò quale fosse l’uomo cui si riferiva quando scrisse le righe a mo’ di dedica che portano il titolo al libro Se questo è un uomo: lo sterminatore o lo sterminato? Con la sua voce precisa e gentile, rispose che pensava ad entrambi. È questo un uomo, colui che finisce e muore, dentro ai campi, nelle camere a gas, nella tortura, nella cancellazione della propria identità? È questo un uomo, colui che pianifica una fine, colui che progetta sterminio, che disegna realtà su basi etniche, religiose, genetiche, e su queste premesse permette – e si permette – l’indicibile? La verità è che a Srebrenica, come mi è accaduto a Shatila, a Sabra, a Lampedusa, non sapevo come stare. Come essere io. Non ho trovato risposte, evidentemente. Ma mentre vagavo e fotografavo di fronte al cimitero e nell’hangar, tra fotografie di morti, filmati di bambini, audio, mappe, oggetti, successe una cosa. Stavo per uscire dal capannone, quando entrò una scolaresca. Una quarantina di ragazzi. Cominciavano il loro giro. Sicuramente gli insegnanti li avranno preparati, ma là dentro ciascuno “se la vedeva” per conto proprio. Bastava seguirli con gli occhi. D’istinto l’ingenuità mi ha fatto pensare che in qualcuno di loro si formerà l’anticorpo in grado di attivarsi le prossime volte che qualcuno userà parole come “razza”, o “nazionalismo”, o “popolo eletto”, o “predestinazione alla sconfitta”.
Così mi son fermato un istante. Li osservavo da dietro, mentre guardavano fotografie, anche molto crude, e leggevano documenti. E in un attimo mi è venuta voglia di seguirli e fotografarli, a loro volta, mentre si ponevano, ciascuno a modo proprio, di fronte alla Storia, al Male, al cinismo. Una classe di ragazzi che a sua volta osserva la memoria mi ha dato modo di pensare le cose altrimenti, di non “riferirmi” al passato come a un inevitabile propellente per un futuro che si ripeterà. E in quel mentre mi sono chiesto qual è il punto in cui il passato riesce a divenire quel presente che essi sono, che noi siamo. “Perché solamente in quel momento, lungo ma finito, ciò che verrà potrebbe svoltare. Potremo cambiare. Improbabile. Ma non impossibile”.
*Dalla vicenda di Ana Mladić prende le mosse un libro importante e straordinario, “La figlia”, di Clara Usòn, edito in Italia da Sellerio, e del quale riporterò alcuni dati al fondo di questo articolo, fra i ringraziamenti e la bibliografia.