Negli ultimi due anni abbiamo vissuto qualcosa di sconvolgente le cui conseguenze avranno un’onda molto lunga. Per opporci al meglio al rischio del contagio abbiamo dovuto vivere un distanziamento forzato proteggendo noi stessi e gli altri e confidando nel lavoro di medici, epidemiologi, chimici farmaceutici perché trovassero un vaccino nel più breve tempo possibile. Dovevamo saper aspettare e l’impegno cui eravamo chiamati era quello di gestire una nuova distanza. Davanti al televisore come accade durante le partite di calcio eravamo tutti allenatori ma non ci si poteva improvvisare scienziati. In poco tempo sono arrivati i vaccini e la situazione rispetto alla diffusione del virus è migliorata.
Ma quando sembrava che una ripresa fosse possibile un altro virus è comparso, forse molto più pericoloso perché non esterno a noi.
Di fronte ad una nuova guerra che angoscia e toglie il sonno la sensazione è di essere impotenti ma non è possibile avere lo stesso atteggiamento di distanza che era necessario per difenderci dal covid; ma come affrontare e reagire a tutto questo?
Per provare a orientarci siamo andati a chiedere aiuto a chi si occupa della mente umana in ambito medico, perché anche tentando di capire attraverso i canali d’informazione qualcosa sembra sempre insufficiente. Abbiamo chiesto al dottor Del Missier, psichiatra e psicoterapeuta della Cooperativa Sociale di Psicoterapia Medica di Roma.
Fin dalle scuole elementari quando si studia la storia sembra che le guerre facciano parte dell’essere umano, ma la guerra è una cosa “normale”?
Affrontare lo statuto ontologico dell’idea e della prassi di guerra, intesa strettamente come attività violenta volta a eliminare fisicamente un nemico, esige che il tema venga inquadrato correttamente. Innanzitutto, ci si può chiedere se sia un fenomeno naturale: se per “naturale” si intende appartenente al mondo della natura, la risposta non può essere che affermativa. In natura ci sono infiniti esempi di scontri mortali tra organismi della stessa specie o anche di specie diverse, in genere al fine di garantire la sopravvivenza materiale a sé o alla propria discendenza, cioè al proprio organismo o al proprio genotipo.
Ma se invece ci rivolgiamo alla “natura umana” allora non possiamo prescindere dal considerare la natura umana per le sue caratteristiche specifiche che la differenziano da quella degli altri viventi. Ovvero che ciò che muove l’umano non sono gli istinti ma la realtà psichica, la tendenza interna (pulsione) a realizzare, concretizzare, materializzare, fuori di sé il proprio pensiero originario e personale, sia che si esprima come un immaginario, sia come una concettualizzazione e sia con un comportamento.
I contenuti di questo pensiero umano (che, non dimentichiamolo, si accompagnano sempre agli affetti corrispondenti) non sono fuori del tempo, non sono astorici come quelli che muovono il resto della natura, cioè come quelli prodotti dagli istinti. Essi hanno una dimensione “temporale”, storica, per cui ciò che pensava un antico romano non si ritrova nell’uomo rinascimentale e men che meno in quello attuale.
Inoltre essi hanno anche una dimensione “spaziale” per cui ciò che vale, per esempio, per l’Africa può non valere per le Americhe o l’Oceania. Detto altrimenti l’idea o immagine di Umanità è in continua evoluzione, e dipende dal tempo e dal luogo preso in considerazione.
La storia che la guerra sia una pratica inevitabile, legata “naturalmente” all’essenza dell’uomo è una di quelle brutte favole che, a volte, nella storia dell’umanità vengono tramandate troppo a lungo. Nessuno sa precisamente perché accade, forse perché si sposano con il mantenimento di un potere. Non è chiaro quando sia nata questa favola, ma sembra certo, contrariamente a quanto l’abitudine farebbe pensare, che non sia stato sempre così. Tra le tantissime manifestazioni di tale ideologia assumono valore emblematico le opinioni che Einstein e Freud si scambiarono sul tema nel 1932 [cfr. S. Freud, Perché la guerra? Carteggio con Einstein, O.S.F. vol. XI]. Non è chiaro quando sia nata questa favola, ma sembra certo, contrariamente a quanto l’abitudine farebbe pensare, che non sia stato sempre così.
Una grande storica come Marylène Patou-Mathis ha dedicato un intero libro (Préhistoire de la violence et de la guerre) a smentire la narrazione di una natura umana impastata di violenza e sopraffazione, dedita a massacri, battaglie e guerre dall’inizio dei tempi. Molte testimonianze archeologiche suggeriscono che gli scontri violenti tra gruppi di uomini restano a lungo un fenomeno estremamente limitato.
Esistono, invece, siti come quello di Tassili n’ajjer nell’odierno Sahara algerino, nel quale sono rappresentati (in un periodo che va dal decimo al quarto millennio avanti Cristo), migliaia di scene in pitture murarie in cui non compare un singolo episodio di guerra, di violenza, di sopraffazione di un uomo su un altro uomo. Circa 6000 anni di rappresentazioni senza alcuna immagine di guerra. E questo non è l’unico esempio. Anche la più antica testimonianza di mura difensive non arriva a prima del IV millennio a.C. (Uruk in Mesopotamia) quindi in un Neolitico già molto avanzato.
Limitandoci allora all’Europa, si scopre che il contenuto ideativo-affettivo denominato “guerra” era considerato “naturale” fino a non molto tempo fa, ovvero fino alla fine della II Guerra mondiale, dopodiché l’evidenza del pericolo atomico fece sì che le potenze nucleari non potessero esplicitamente farsi guerra tra loro ma solo, eventualmente, tramite altri intermediari.
Quella che abbiamo chiamato “pace” in Europa non era altro che l’impossibilità per le potenze nucleari di farsi una “guerra totale” tra loro e di alterare l’equilibrio tra loro concordato. Tutto il resto era permesso, dalla guerra di Corea fino alle tante guerre contemporanee (Yemen, Sudan, Etiopia, etc etc), ma non veniva scalfita questa sensazione di “pace” intesa come pace nucleare.
Ma pur essendo l’idea di pace una sorta di artefatto ideativo europeo, questo non ha impedito ad alcune generazioni europee di archiviare nella memoria l’idea di guerra, come qualcosa di obsoleto e non più attualizzabile. Ovvero di far evolvere il proprio immaginario eliminando da esso la rappresentazione della violenza fisica collettiva come metodo di risoluzione dei conflitti. L’evoluzione antropologica stava culturalmente conducendo alla (lentissima) eliminazione storica di questa specifica modalità collettiva di relazionarsi ad altri umani.
Ecco il perché della sensazione iniziale di incredulità: la “guerra per antonomasia” (ovvero tra USA e Russia) era stata ormai archiviata e perciò ora ci sembra antistorica, un portare indietro le lancette dell’orologio per lo meno di 60 anni (due generazioni!), al tempo della crisi di Cuba nell’ottobre del 1962 quando per 13 giorni il mondo stette col fiato sospeso per timore di una guerra nucleare tra USA e URSS. Il fattore scatenante (allora come oggi?) fu il fatto che, prima gli americani e poi i sovietici, avevano reciprocamente piazzato i propri missili atomici a ridosso dei confini dell’avversario.
Questo interessa la psicopatologia? Assolutamente sì. Laddove c’è un “ritorno materiale allo stato precedente” c’è per noi psicoterapeuti il forte sospetto di un sintomo di malattia mentale, un annullamento della Storia, dell’evoluzione del pensiero umano che tende, per sua “natura”, ad emanciparsi dal “naturale” (il biologico) e tendere al culturale, allontanandosi sempre più dal dipendere dalla violenza fisica e sviluppare invece sempre più la forza delle idee (la realtà psichica). Uscire regressivamente dalla propria storia e da quella collettiva è il primo segno di psicosi.
In particolare, poi, l’agire la violenza fisica, uccidere un altro essere umano, non può essere considerato in modo assoluto, astratto, ovvero fuori dalla relazione interumana dove la violenza si estrinseca. Non sono equiparabili la violenza dell’aggressore con la violenza dell’aggredito che alla prima deve essere commisurata. L’aggressione alla Polonia il primo settembre del 1939 da parte dei nazisti e due settimane dopo da parte dei sovietici non è equiparabile alla lotta della Resistenza partigiana ai nazifascisti dopo l’8 settembre del 1943. Anzi, la psicoterapia che cerca la verità al di là dei comportamenti, rivela che le due “violenze” fanno capo a due verità diametralmente opposte, se intese in senso collettivo e non individuale. Ad una dimensione pulsionale che è un “essere per la morte” si contrappone un “essere per la vita”, qualunque sia lo strumento utilizzato. Anche un chirurgo è costretto ad amputare una gamba se c’è la certezza di una gangrena mortale. Ipotizzando, ovviamente, che l’aggredito non impazzisca anch’esso, perdendo il senso della realtà, diventando come e più distruttivo dell’aggressore, come forse Zelensky che vorrebbe fermare Putin sacrificando il suo popolo “fino all’ultimo uomo” o anche rischiando di coinvolgere il mondo intero in un possibile conflitto.
Occorre, poi, forse, spendere qualche parola sui termini antitetici di guerra e pace. Bisogna partire dalla constatazione che il realizzarsi dell’esigenza evolutiva umana (che speriamo condurrà all’estinzione della guerra) si svolge per crisi, scatenate ogni volta dal “nuovo” che ciclicamente emerge dalla nostra esigenza di sempre maggiore “umanità”, <<Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza>> Dante, Divina commedia, Inferno, canto XXVI.
Questo “nuovo” dovrà poi ineluttabilmente confrontarsi (a volte scontrarsi) con quanto, nel tempo, è divenuto “tradizione” e il conflitto, la dialettica, può esser anche violento, ma non necessariamente sul piano della lesività fisica, bensì su altri piani (economici, politici e soprattutto culturali). Scopriamo allora, specificamente in psicoterapia, che impedire tali crisi evolutive, paralizzare ogni dialettica interumana, anche se “intensa”, non è sinonimo di pace ma, invece, è proprio all’origine delle esplosioni di aggressività. Se per pace intendiamo quella sorta di pace “artificiale” caratterizzata da assenza di crisi evolutive dialettiche, allora si evidenzia che proprio essa, alla lunga, provoca le crisi peggiori perché regressive e non evolutive: l’agire fisicamente l’aggressività sia a livello individuale (psicopatologia pantoclastica) che collettivo (guerra).
Quale le sembra essere in generale l’atteggiamento dei mass media di fronte al problema? Da settimane si cerca di analizzare questa complessa situazione da più punti di vista e in tv vediamo chiamati esperti di economia, storia e politica ma la sensazione è che tutto sia sempre frammentato; cosa manca? Le immagini che vediamo nei media spaventano, fanno stare male, lei che si occupa di immagini della mente ci può aiutare a capire perché queste immagini sono così importanti per la nostra vita e la nostra salute mentale?
Al di là della validità e competenza di alcune trasmissioni radiofoniche e televisive e di alcuni interessanti articoli (cartacei e on line) in cui l’intento di capire e comunicare è prevalso su quello di una mera informazione pur fedele alla realtà, l’attenzione al patologico derivante dalla mia professione mi spinge ad evidenziare nei mass media le eventuali nocività per la salute mentale della popolazione.
Non si tratta (solamente) di “fake news”. In generale si è percepito lo sforzo di evitarle. La bugia non è presente nel racconto dei singoli fatti, magari accaduti realmente, ma “bugiardo” è stato spesso il modo complessivo di raccontarli.
Rilevo perciò l’emergenza di due ordini di problemi: l’uno riferibile alla “forma” e l’altro ai “contenuti”, entrambi però dettati da una stessa “intenzionalità”, quella di voler suscitare principalmente emozioni e comportamenti; ovvero di spingere da un lato ad uno stato empatico di commozione e di indignazione a fronte delle terribili conseguenze belliche e dall’altro ad agire concretamente con atti di solidarietà e partecipazione.
Per questi scopi, come è noto, è fondamentale come veicolo di sentimenti, piuttosto che di comprensione e approfondimento, l’uso delle immagini rispetto alle parole. Laddove poi l’intento arrivava ad esser esplicitamente terroristico si poteva evidenziare un sapiente uso delle immagini stesse che privilegiava la parzialità delle inquadrature, gli aspetti parziali a scapito della totalità: una maceria, un morto, il pianto di un bimbo. Come ben insegna la filmistica horror dove una delle modalità per raggiungere l’effetto angoscioso voluto è l’utilizzo allusivo di frammenti di realtà: una mano guantata, un coltello nell’ombra, lo spiraglio di una porta. L’effetto perturbante e inquietante è tanto maggiore tanto più irrompe dal buio e dall’annullamento del contesto.
Questa finalità emotiva e/o comportamentale la si ritrova poi anche nei contenuti verbali dell’informazione: guai a chi cerca di allargare l’orizzonte storico degli accadimenti o di approfondirne la lettura guardando al di là dell’aspetto manifesto. Il malcapitato ricercatore è immediatamente sommerso da critiche false e ingiuste di connivenza con l’aggressore, spesso gli si toglie la parola al fine di impedire un’intelligenza più profonda, una più reale comprensione dei fatti. Come se fosse concesso solo reagire emotivamente e comportamentalmente, ma senza alcuna possibilità di ampliare e approfondire la conoscenza dei fatti umani, di andare oltre all’evidenza degli stessi.
Detto alla maniera psicoterapeutica: la prima e fondamentale “resistenza” alla terapia è l’obbligo di fermarsi alla Realtà perché è proibito anelare alla Verità. Guardare ma non vedere, <<si prega di chiudere gli occhi>>.
Azzardiamo allora e proviamo a riferire tale atteggiamento comunicativo all’adesione, più o meno consapevole o inconsapevole, a quella “religione” laica, trionfante più ad Ovest che ad Est, a cui con empito e solerzia missionaria i mass media cercano di convertire tutti. Quella che nel corso degli ultimi quattro secoli ha pian piano preso il posto delle (o si è affiancato alle) tre grandi religioni monoteistiche; ormai, infatti, non è più ricorrendo ad un Libro sacro che possiamo conoscere e agire, ma ricorrendo ad un altro grande libro, in odore di sacralità, “il grande libro della natura” in cui, per “natura” non ci si riferisce, ovviamente, alla natura umana, ma alla pura e semplice realtà materiale della natura non umana.
La realtà materiale dei fatti esplorati con l’uso della Razionalità conduce, nel rivolgersi all’umano, a quella sorta di “pensiero unico” che ama presentarsi come scientifico ovvero non religioso, non metafisico, non ideologico, non irrazionale, ma che finisce poi ad essere soltanto un “pensiero povero”, povero in quanto nell’esaminare i fatti umani si ferma a considerare solo il significato manifesto delle espressioni umane, ma ignora totalmente il senso latente di esse. Chi pratica la psicoterapia sa che la verità umana delle immagini, dei pensieri, dei comportamenti di un Altro la si può cogliere solo andando alla ricerca del senso intrinseco a quello specifico momento di rapporto interumano: quel senso, quella intenzionalità, in genere inconsapevole, che non esiste fuori da quel tempo e quello spazio, che permettono lo svolgersi di quel rapporto.
Per arrivare alla conoscenza del senso, conoscenza tanto inconfutabile e indiscutibile quanto momentanea e transitoria, occorre una sensibilità ed un’intelligenza diverse da quelle occorrenti nei confronti della natura non umana e che sappiano andare “al di là della Realtà”, di quella realtà che di per sé è appena sufficiente a distinguere l’aggredito dall’aggressore. È forse questo “pensiero unico” quello che viene attribuito all’Occidente? Quello che ha permesso all’Occidente la sua mitica “efficienza”?
C’è un nesso tra la pandemia e questa situazione in Ucraina? Nella sua lunga esperienza di psicoterapeuta la pandemia ha toccato degli aspetti nuovi da dover affrontare e proprio sui media scrisse di un “virus gemello”; ora cosa rappresenta questo nuovo dramma e in che modo si può affrontare tutto ciò, e perché non si considera mai la guerra come una dinamica patologica?
Il nesso tra la pandemia del 2020 e gli eventi bellici del 2022 è immediatamente riconducibile al lessico usato, alla parola guerra, usata spesso per descrivere i due avvenimenti; entrambi sarebbero “guerre” che provocano per questo le stesse reazioni sintomatologiche: paura, angoscia e ritiro sociale, ma anche mobilitazione e solidarietà.
Premettendo che tale confronto è artificioso se riferito al nostro paese, in quanto, a rigore, sarebbe valido solo per la popolazione dell’Ucraina, l’unica che ha vissuto entrambe le guerre direttamente; non posso comunque esimermi dal dichiarare che le due “guerre” sono assai diverse nell’eziologia e nelle conseguenze riferite alle relazioni internazionali.
Nella pandemia il “nemico” era una entità biologica proveniente dalla natura non umana di fronte alla quale l’intera umanità ha reagito compattandosi per difendersi. Nella guerra vera e propria invece, l’aggressore è un nostro simile che, tradendo la sua natura umana, si disumanizza, provocando così, al contrario, una spaccatura nella restante umanità. Vale la pena ricordare che oltre ai cinque paesi che hanno votato contro la risoluzione di condanna dell’aggressione russa all’Ucraina (Russia, Bielorussia, Siria, Corea nord, Eritrea) ben 35 paesi si sono astenuti (l’80% dell’Asia, con Cina, Iran, Iraq, Kazakistan, Mongolia, Pakistan, India, Laos e Vietnam, e inoltre Cuba, Bolivia Nicaragua per il centro-sud America, e infine quasi un terzo dell’Africa con Algeria, Sudafrica, Angola, Senegal, Sudan e Sud Sudan, Tanzania e Mozambico.
Due parole ancora sulla diversità di reazioni del mondo politico e scientifico ai due accadimenti.
La pandemia ha costretto il mondo del potere politico a delegare (opportunamente, a volte eccessivamente) al mondo scientifico la ricerca delle cause e delle soluzioni, fornendo ad esso risorse finanziarie impensabili. Si deve riconoscere che la scienza (biologica e medica in questo caso) ha fatto quanto richiesto in tempi record e con risultati più che apprezzabili.
Ciò non è accaduto nel caso della guerra.
Non vi è stato alcuno sforzo “scientifico” di ricerca per la scoperta dell’agente patogeno, delle sue caratteristiche, della sua vulnerabilità, minimamente comparabile a quello per la pandemia. Evidentemente era tutto chiaro fin da subito, come nei film western d’antan, chi fosse il buono e chi il cattivo.
La ricerca delle cause è stata appaltata agli esperti di geopolitica e ad economisti, poche le voci che parlino di guerra come follia o dell’aggressore come malato mentale. Quasi assente nel dibattito la voce della psicologia o della psichiatria. Perché?
Da un lato per la già accennata considerazione della guerra come fenomeno naturale, connaturato all’uomo e che quindi esula dalla patologia mentale, un fenomeno, quindi, non meritevole di una ottica critica che ricorra alla psicopatologia.
Dall’altro però vi è anche un altro pregiudizio, esso pure collegato alle caratteristiche di quel “pensiero unico” sopra citato, che fonda sulla razionalità il requisito antropologico dell’umano. Spesso chi azzarda ad ipotizzare una patologia mentale a carico dell’aggressore si sente obbiettare che tale ipotesi è inconciliabile con le caratteristiche di fredda lucidità, di calcolante premeditazione che contraddistinguerebbe il pensiero e l’azione dell’aggressore. Pochi hanno il coraggio di smentire tale presunta antinomia e di parlare di delirio lucido, di affermare che l’uso spregiudicato ed efficiente della Ragione non mette affatto al riparo della malattia mentale, anzi!
Infine la ricerca delle opzioni terapeutiche che è lasciata agli strateghi militari o, in alternativa contrapposta, ai pacifisti, a loro volta suddivisi in sostenitori o di una neutralità attiva o di una solidarietà attiva.
E se di fronte alla terapia è arduo non considerare che ad una aggressività violenta incoercibile è purtroppo necessario, a volte, ricorrere ad un Trattamento Obbligatorio, perché la libertà è una gran bella cosa ma non si può lasciar libertà di suicidio o di omicidio, che dire poi del proposito di immunizzazione nei riguardi della distruttività umana? Qual è il vaccino?
Propongo di utilizzare quanto apparve a conclusione dell’articolo La pulsione di annullamento, “virus gemello” che contagia la mente, a firma dei terapeuti della Cooperativa sociale di psicoterapia medica (Roma) e pubblicato su Askanews (4-5-2020) e su Q Code Magazine (18-5-2020), inerente gli aspetti psicopatologici relativi alla pandemia.
<< A queste persone occorre “far vedere” quello che qui abbiamo chiamato “il virus gemello”, bisogna far loro conoscere che il “virus”, che mette angoscia perché può far impazzire, esiste, ma non è il coronavirus. È una dinamica patologica di rapporti interumani distruttivi da cui ci si può difendere attraverso la ricerca personale, l’intervento psicologico adeguato e la conoscenza, così da diventare fisiologicamente immuni per aver sviluppato quella resistenza alle delusioni e alle aggressioni psicologiche che è il vero anticorpo al “virus”.>>
Non ammalarsi internamente di rabbia, di odio e, soprattutto, di anaffettività per poi diventare immuni alla rabbia, all’odio e, soprattutto, all’anaffettività degli altri, necessita di rapporti interumani sani che permettano di raggiungere identità personale e conoscenza collettiva.
Rispetto alla situazione attuale in Ucraina qual è la cosa che l’ha maggiormente colpita?
Nella ricerca di un pensiero non scontato e libero da pregiudiziali ideologiche ho cercato di proporre una panoramica che abbracciasse quanto più possibile tutti i protagonisti di questa tragica vicenda; ovvero di considerare quest’ultima come un dramma con (almeno) tre protagonisti, sia individuali che collettivi.
Tre protagonisti, che, in omaggio all’arte di Sergio Leone, ho denominato: il “buono”, il brutto e il cattivo. Essi non mi interessano per quello che sono individualmente, personalmente, ma, da un lato, per quello che intendono smuovere nella mente (cosciente e non cosciente) degli umani che credono in loro, dall’altro, per quello che forse potrebbero rappresentare nell’immaginario, ovvero la “bontà”, la bruttezza, la cattiveria.
Inizio da quest’ultima, la più facile da evidenziare: cattiveria, sadismo, prepotenza, che molti credenti russi scambiano per coraggio, per forza, per virilità. Sadismo è aggredire per sopraffare e distruggere i corpi, la vita biologica, l’esistenza materiale. Il rappresentante moderno di una ideologia novecentesca che si era autodefinita un “essere per la morte”, altrui, ovviamente.
La bruttezza. È senz’altro brutto dover uccidere per legittima difesa, ma è ancor più brutto ricattare coloro che ti vogliono bene spingendoli alla morte: <<dimostra che stai con me suicidandoti in una guerra atomica>>. È brutto l’amante che induce l’amante a morire insieme “per amore”. È brutto far credere agli ucraini che la propria identità sia disegnata da una linea di confine materiale da difendere a costo della vita, che l’identità umana sia uno spazio fisico e che essa vada diversificandosi un km più su o un km più giù. È brutto spingere gli altri alla “morte bella”, a credere ad un “essere per la morte”, propria, in questo caso.
E poi c’è la “bontà”, tra virgolette mi raccomando! Il cosiddetto buono, il cavaliere senza macchia e senza paura che accorre in difesa della pace, della libertà, della democrazia. La NATO come lo sceriffo coraggioso dalla morale integerrima, al cui generoso disinteresse molti occidentali credono. Ma è poi vero? Chi, alla fine dei film thriller che si rispettano, si rivela spesso il vero colpevole? Forse il più insospettabile, magari quello che per primo è accorso sul luogo del delitto, quello a cui tutti credono ingenuamente.
Ma è proprio questo “credere” che contraddistingue il quarto protagonista che va a rappresentare il coro dolente di questa sorta di tragedia greca. Un coro rappresentato dalla maggioranza dei tre popoli coinvolti. I primi due sono facilmente identificabili: quello russo e quello ucraino, il terzo non ha una dimensione nazionale, esso è sovranazionale e diffuso particolarmente ad Occidente. Tutti e tre, credendo fermamente alle loro reciproche autorità di riferimento, arrivano così a sentirsi tutti e tre dalla parte della ragione ovvero delle vittime. Ma, conoscendo solo il “credere”, per sua natura “monoteistico”, questo impedisce loro di prendere in considerazione gli altri due.
Non hanno scoperto invece il “pensare” che li potrebbe condurre a non credere a nessuno dei tre, e tirarsi così fuori dal “triello” mortale in cui sono coinvolti. Infatti, se nessuno dei tre popoli credesse all’ideologia veicolata dal proprio rappresentante, a partire dagli occidentali con la necessità della Nato, nessuno di essi andrebbe a uccidere e a farsi uccidere ed i tre burattinai resterebbero soli.
A fronte della vulnerabilità ideativa della maggioranza delle tre popolazioni, similari nel “credere” anche se diversissime nei “contenuti”, mi viene spontaneo riferirlo e confrontarlo a quel naturale, spontaneo, “credere” dei bimbi nel volto e nelle parole dell’Altro. Essi “devono credere” al buono, al bello, al giusto, ce l’hanno dentro fin dalla nascita, perché, non avendo ancora certezza della propria identità, hanno l’assoluta esigenza di conferme sul proprio essere, pensare ed operare.
Questo, appunto, riguarda i bimbi, ma chi non lo è più da tempo non si può permettere di prolungare, ben oltre il tempo massimo, quell’infantilismo impotente di chi, un tempo, ebbe realmente bisogno di conferme per vivere e sopravvivere. Non ci si può più permettere di aver sempre bisogno di un padre-eterno o di un Dio, che dica cosa fare, cosa pensare e, soprattutto, cosa essere. A noi, adulti, compete pensare e sapere in autonomia per poter resistere e svelare quelle bugie che nascondono in sé la rabbia, l’odio e soprattutto l’anaffettività. <<L’uomo bianco parla con lingua biforcuta!>> dicevano i pellerossa alle giubbe blu.
P.S. A proposito di bugiardi, sappiamo benissimo che ci competerebbe esaminare anche un quarto personaggio che si nasconde nell’ombra e che risponde al nome di Europa. La sua vile e interessata insignificanza ci esime, per ora, dall’ingrato compito.
Concludo con la domanda di una bambina di sette anni che in queste ore chiedeva a sua madre: Mamma ma se ora viene la guerra dobbiamo tornare dentro casa come prima o scappare via?
Ad una bimba di sette anni va sempre detta la verità. Ma la verità, per una bimba di sette anni, non è la realtà, ma una favola; non una favola bugiarda e terroristica, come quella della “naturale cattiveria umana”, ma una favola vera. Perché il cacciatore, che trae fuori Cappuccetto rosso dalla pancia del lupo, o il Gatto con gli stivali, che alla fine si pappa l’Orco, esistono, devono esistere e se non esistono ancora li faremo esistere.
Il sistema d’informazione della cultura dominante, dopo due anni di pandemia, usa lo stesso metodo di “informazione” con la guerra: dice delle realtà per raccontare bugie sull’essere umano, destinato alla distruzione e all’anaffettività. A me piace di più il protagonista del film La vita è bella di Benigni che al figlio dice delle bugie per raccontare la verità dell’essere umano, fatto di affetti e fantasia.
Al più, potremmo sempre narrare la storia a lieto fine di quel diavoletto un po’ dispettoso e un po’ maldestro che presentandosi si era autodefinito <<parte di quella forza che vuole costantemente il Male ed opera costantemente il Bene>> [Wolfgang Goethe, Faust, Einaudi, Torino 1965. parte prima p. 40.]