Preferisce parlare in arabo, Abboudi Abu Jaoude, per l’incombenza della precisione, la premura di chi parla di un amore e deve farlo con esattezza. Ne ha avuto, di tempo, per calibrare i termini della sua collezione, le ragioni dell’esordio, l’ostinata sopravvivenza a quindici anni di guerra civile, e più di trenta di crisi demografica, economica e culturale del Libano postbellico: il tempo di temperare la cognizione, amarissima, di una vita che non è più – se non sottoteca, o al più inscatolata. È l’età dell’oro dei cinema libanesi, la testimonianza dal basso di un trentennio vivace e sinergico in cui il Libano ospitava trecento sale cinematografiche e teatri, e i curiosi da tutto il mondo si affacciavano sul golfo di Beirut per constatare che sì, era davvero, questa città che oggi diresti irriconoscibile, la Parigi del Medio Oriente.
Abboudi lo racconta circondato dalle cataste di manifesti, libri, fotografie, cassette, vinili e cd che affollano il seminterrato di un anonimo condominio di Hamra, sua isola di pace e capsula del tempo, mentre lo spiegarsi dei paginoni, la carta pesante di stampa a colori sgargianti e caratteri cubitali, fa spazio alla tazzina di caffè turco che con l’ospitalità di chi apre le porte di casa sua, gentilmente mi porge. «L’inizio di questa storia è quella di un banale amore giovanile per il cinema, un amore spassionato e incantato, dei ragazzi della mia generazione per il mondo in cui era loro capitato di nascere, e non ci accorgevamo della sua eccezionalità» – confessa con modestia: quasi che fosse stato naturale, per lui, intraprendere la strada del collezionismo. Una non-scelta. Il moto inerziale di chi, nella contemplazione dello straordinario, ne viene assorbito: e ne diventa parte. E quando gli chiedo se sia orgoglioso, oggi, del suo lavoro, mi corregge immediatamente: «no, non è un lavoro. È la mia gioia, il mio hobby».
In sessant’anni di gioia-e-non-lavoro ha collezionato circa ventimila manifesti cinematografici, duemilacinquecento americani, mille italiani, cinquecento francesi, altri trecento inglesi, e di libanesi – i suoi prediletti – più di quattrocento, e siriani centocinquanta, cinquanta iracheni, duecento tra marocchini e algerini, e più di seicento indiani. E come le memorie giovanili trattengono saldo il ricordo del primo bacio, così Abboudi non esita nel rispondere alla domanda sul primo dei suoi poster: «Bullitt, Steve McQueen, 1968». Circa settemila immagini in bianco e nero, insieme alle riviste cinematografiche sulle proiezioni in Libano, Iraq, Egitto, a più di ottocento manifesti politici – libanesi, palestinesi e siriani – e ad altri duecento sul viaggio, riempiono gli angoli fitti del suo labirinto così rintanato che a malapena ci accorgiamo del sole che tramonta, del mueddhin che chiama alla preghiera e delle famiglie musulmane di Hamra in procinto di iniziare il loro iftar: e non sappiamo più se è a Beirut che ci troviamo, o al Cairo, a Roma, Parigi, a Mumbai o a Damasco prima della guerra.
È la magia degli archivi, l’infinito potenziale combinatorio di ciascuno dei suoi pezzi: delle collezioni non estinte, ma che continuano a crescere, nonostante la cultura di cui si fanno testimoni vada estinguendosi – con la televisione prima, internet poi, e la tirannia del digitale, dei grandi centri commerciali, e la crisi vorticosa che, se manca il cibo e l’elettricità, finisce ragionevolmente per tagliare sulla cultura, infine. Ma è, anche, la potenza della memoria individuale che emerge allo spiegarsi di ciascun manifesto, di ciascun titolo, del ricordo di ciascun teatro. Originario del quartiere armeno di Bourj Hammoud, appena quattordicenne Abboudi soleva andare al cinematografo quattro volte a settimana, tra il sabato e la domenica. Il cinema Rivoli, a Downtown, era il suo prediletto: «sessanta piastre per lo spettacolo del pomeriggio». Ciò che amava maggiormente era passeggiare a lungo, camminando sull’asse Est-Ovest di Beirut, da Bourj a Hamra, un tempo il centro nevralgico della vita intellettuale libanese, che gli artisti si attardavano nei caffè, e poi si andava al cinema. Per quattro ore, iniziando alle dieci del mattino, snodava il suo passaggio di adolescente lungo Mar Mikhael, Gemmayzeh, Downtown, costeggiando il porto oggi devastato, incontrando lungo la strada più di trenta sale: e di ciascuna le dozzine di manifesti affissi.
«Ciò che mi ha sempre attratto sono le immagini, non so spiegare il perché. Se mi chiedi la storia dei film che andavo a vedere, non riesco a ricordare: eppure nella memoria ho impressa la geografia dei poster, i colori, i caratteri in cui stampavano i titoli». E per ciascuno dei suoi ventimila manifesti custodisce un ricordo specifico, non importa che lo stile fosse di cattivo gusto. Appena ne scorgeva uno nuovo, usava tornare sul posto per giorni, tre o quattro volte almeno, ad osservarlo, a desiderarlo. Poi, quando le proiezioni venivano rinnovate, e nuovi titoli uscivano, andava a cercare quelli vecchi nelle piccole sale di periferia, quando poteva permetterseli. Ha iniziato con Clint Eastwood, Steve McQueen, Burt Lancaster, Fairuz, Mohammed Abdel Wahab, Umm Khultum, gli Spaghetti Western, la serie di Hercules, Maciste, i film di spionaggio, James Bond, le attrici francesi, o gli amati Sofia Loren e Marcello Mastroianni. E col tempo, man mano che la collezione cresceva – tanto che neanche la guerra civile lo ha fermato – i sei chilometri che separavano Hamra e Bourj Hammoud sono diventati centinaia e centinaia, collegando l’Egitto alla Tunisia, il Marocco all’Iraq e alla Siria. Certo non era più a piedi che si muoveva, come quella volta in cui ha preso un volo per Tunisi soltanto per poter acquistare un poster degli anni Quaranta: ma il desiderio di aggiungere un pezzo alla collezione, immaginandone la grafica e le tonalità; la gioia indescrivibile che provava nello scorgere l’attacchino che con cautela rimuoveva un poster – e la brama di ottenerlo; il movimento fluido dell’arrotolare e srotolare; il suono della carta lucida sventolante; e così la catena di dettagli che fanno l’attesa piacevole e dolorosa insieme, non deve poi essere molto cambiata dai tempi in cui, ragazzino, camminava per ore dalla casa dei genitori ai cinema di Hamra, fermandosi trentacinque volte, poi tornando indietro, e sempre riconoscendosi.
Nella sua lunga carriera Abboudi ha incontrato altri collezionisti e archivisti, ma nessuno tanto ostinato come lui. «Collezionare questo tipo di cultura non è popolare nel mondo arabo: ne avrò incontrati, come me, due o tre in Egitto, uno in Siria, un altro in Algeria», racconta. Al massimo ci si imbatte in qualche fanatico di Fairuz o Umm Khultum: ma di amanti del poster in quanto tale, della materiale dimensione di attesa per la proiezione di un nuovo film soltanto per scorgerne la promozione cartacea, che per qualche ora le teche sono vuote, e l’immaginazione dipinge su quel bianco nuovi colori sgargianti, e scene di guerra, azione, amore, erotismo – in altre parole, di quelli come Abboudi – non ce ne sono poi molti.
Forse è per questo che ha tanto successo: la passione non lo ha fermato neanche durante il quindicennio della guerra civile, tra il 1975 e il 1990, quando sorprendentemente la vita cinematografica in Libano è proseguita, con due proiezioni al giorno e il coprifuoco alle sei del pomeriggio, e i momentanei periodi di tregua, come quello del 1977, di cui approfittò per spostare la sua intera collezione nel quartiere Ovest in cui adesso ci troviamo, sorseggiando caffè. Sicché, alle memorie di morte e bombardamenti, di sparizioni e paura, si accostano, timide e piacevoli, quelle dei film che si andava a guardare, pur increduli che la vita normale, la vita di prima, potesse continuare nel fascio di luce di un proiettore nelle sale semivuote di velluto scuro. Coloro che quella vita l’hanno attraversata, adesso, imbattendosi nel mondo di Abboudi, ne sono entusiasti. Amano la nostalgia di ciò che si è goduto spontaneamente, la mancanza della giovinezza che ad ogni modo il tempo avrebbe consumato. Gli chiedono: davvero-hai-questo-e-quello?, e incantati da tanta vastità, tirano fuori storie di famiglia, dei nonni, del vicinato e dei primi amori. Alcuni scattano fotografie per mandarle agli amici lontani, sicché le due realtà – la Beirut sopravvissuta di oggi, e quella, sconfinata, della diaspora libanese – si incontrano nell’archivio semisepolto di un seminterrato, che per raggiungerlo, a piedi, camminando per chilometri dall’altro estremo della città, questi clienti appassionati di vite passate, di vestigia e di nostalgie, chissà a che pensano.