Migliaia di manifestanti si sono radunati in tutto il mondo al grido di “Palestina libera“. È accaduto sia sabato 14, che sabato 21 ottobre. Anche a Parigi, a Piazza della Repubblica, in occasione della prima settimana dopo i fatti del 7 Ottobre, quando 1400 israeliani sono stati uccisi dalle milizie di Hamas e dell’inizio dei massicci bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza che ad oggi hanno ucciso almeno 5mila palestinesi, tra cui oltre 2mila bambini.
La manifestazione si è svolta nonostante solo due giorni prima il Ministro dell’Interno francese avesse imposto il divieto di raduni pro-Palestina, e si è conclusa con l’intervento delle forze dell’ordine: 19 arresti e 752 multe.
Tra i partecipanti alla manifestazione c’era Kenza (nome di fantasia della ragazza, che ha preferito rimanere anonima), una studentessa marocchina che vive a Parigi: «Quello che sta succedendo a Gaza è orribile, c’è un massacro in corso sotto i nostri occhi, da una settimana non faccio che incubi». Nonostante il timore di avere problemi con la giustizia, la ragazza ha deciso di partecipare alla manifestazione del 14 ottobre: «Ho un’enorme senso di impotenza: sono andata alla manifestazione nonostante il divieto perché è l’unica cosa che posso fare». Secondo Kenza, il divieto di manifestare in solidarietà con la Palestina imposto dal governo francese «è una vergogna, è scandaloso che una manifestazione per la pace venga vista come qualcosa che possa generare disordini all’ordine pubblico, e addirittura atti di terrorismo e di antisemitismo».
Nelle ultime settimane, in tutto il mondo si sono susseguite numerose manifestazioni in solidarietà con Israele o con la Palestina. Le manifestazioni filo-israeliane si sono concentrate soprattutto in Europa e Occidente, mentre nelle capitali dei paesi arabi, da Amman a Baghdad, migliaia di persone sono scese in piazza per chiedere la fine dei bombardamenti su Gaza e dell’occupazione israeliana. Ma man mano che il numero di persone uccise nella Striscia di Gaza, in particolare i bambini, ha cominciato ad aumentare e il blocco imposto da Israele ha provocato una crisi umanitaria, anche in Europa e negli Stati Uniti le manifestazioni a sostegno dei diritti del popolo palestinese hanno avuto grande risonanza.
Anche in Europa, una parte consistente dei partecipanti alle manifestazioni in solidarietà della Palestina è composta dalla popolazione araba o di discendenza araba. Secondo Kenza, alla manifestazione di Parigi di sabato 14 ottobre «c’erano molte persone di discendenza araba: anche gli organizzatori della manifestazione erano di origine araba».
Secondo lei questo è dovuto al fatto che la questione palestinese, che in questi giorni ha assunto un ruolo di primo piano anche nel discorso pubblico in Europa e in Occidente, per il mondo arabo è sempre stata una questione centrale di identità e memoria, e un simbolo che unisce la popolazione araba.
«Nonostante molti dei nostri paesi abbiano gradualmente normalizzato le loro relazioni con Israele» – molti governi arabi, a partire dalle monarchie del Golfo, ma anche Marocco e Egitto, si sono avvicinati diplomaticamente e economicamente a Israele – «per noi la questione palestinese non ha mai smesso di rappresentare una profonda ingiustizia e un simbolo del colonialismo e dell’ipocrisia occidentale».
Ma non è solo la popolazione di origine araba a scendere in piazza contro la brutalità dei bombardamenti israeliani e in difesa della causa palestinese: persone di ogni origine e provenienza si stanno mobilitando in tutto il mondo.
Negli Stati Uniti, la popolazione di origine ebraica costituisce una parte consistente del movimento di solidarietà con il popolo palestinese. Mercoledì 18 ottobre, centinaia di attivisti di origine ebraica hanno occupato il Campidoglio a Washington chiedendo un cessate il fuoco immediato a Gaza. Tutti gli attivisti indossavano magliette nere con la scritta bianca “Not in Our Name”: Non nel nostro nome.
L’azione è stata organizzata da Jewish Voice for Peace e If Not Now, due gruppi di ebrei statunitensi dichiaratamente anti-sionisti. In un comunicato rilasciato da If Not Now in merito alla mobilitazione si legge: “Se non agiamo, il nostro dolore verrà strumentalizzato per giustificare il genocidio dei palestinesi a Gaza per mano dell’esercito israeliano. […] Stiamo mobilitando migliaia di ebrei americani perché si uniscano a noi nel chiedere a Biden e alle autorità elette di attuare un cessate il fuoco ora. Non permetteremo a loro o al governo israeliano di compiere un genocidio in nostro nome”. Il presidio si è concluso con l’intervento della polizia e con l’arresto di oltre 500 persone.
Come è avvenuto in Francia, dove le manifestazioni in solidarietà con la Palestina sono state completamente vietate e represse in modo violento, e negli Stati Uniti, anche molti altri governi occidentali hanno risposto con la repressione e la criminalizzazione dei movimenti pro-Palestina. Manifestazioni pacifiche in solidarietà con il popolo palestinese sono state vietate anche a Vienna e a Sydney. Nel Regno Unito, il ministro dell’Interno ha addirittura proposto il divieto di mostrare ed esporre la bandiera palestinese in quanto potenzialmente inteso come simbolo di ‘glorificazione del terrorismo’.
In Germania, la solidarietà con la Palestina è repressa in modo particolarmente rigido: la polizia ha annullato alcune manifestazioni in quanto rappresenterebbero ‘minacce imminenti alla sicurezza pubblica’ e ha represso in modo violento i raduni che si sono formati nonostante il divieto, realizzando decine di fermi. Una di queste manifestazioni doveva tenersi il 15 Ottobre a Potsdamer Platz, a Berlino.
«Le persone erano già radunate nella piazza, c’erano bambini, anziani, famiglie, ma quattro minuti prima dell’inizio previsto per la protesta la polizia ha annunciato che era stata vietata», racconta Karl, un giovane tedesco-palestinese che era presente alla manifestazione. «La gente si è rifiutata di andarsene, me compreso, perché avremmo dovuto? È la nostra libertà di riunione, la nostra libertà di parola, ed è vergognoso che ci vietino di esprimerci mentre a Gaza avvengono crimini atroci». A quel punto, racconta Karl, i poliziotti hanno circondato la folla da ogni lato e hanno cercato di disperdere la manifestazione: «I poliziotti strappavano le bandiere palestinesi dalle mani delle persone, toglievano le kefiah [tradizionali sciarpe palestinesi] a forza, hanno attaccato delle persone con lo spray al peperoncino, e arrestato molti manifestanti: quella che doveva essere una protesta pacifica si è trasformata in una violenta aggressione da parte della polizia». Non solo le manifestazioni sono state annullate e represse, a Berlino le autorità hanno vietato le kefiah nelle scuole in quanto rappresenterebbero una ‘minaccia alla pace nelle scuole’. La kefiah è uno dei simboli principali del nazionalismo palestinese.
«In Germania la libertà di parola sulla questione palestinese è molto limitata», dice Karl: secondo lui la radice del problema è che «per le autorità, essere antisionista, difendere i diritti del popolo palestinese, è equivalente a essere antisemita. Il conflitto è deliberatamente inquadrato in questo modo, e questo non lascia spazio a nessun tipo di discussione sull’argomento, a nessun tipo di critica nei confronti di Israele», anche nel caso di crimini di guerra e atrocità commessi dall’esercito israeliano, come sta accadendo adesso a Gaza. Sia in Germania che in Francia e altrove infatti le autorità motivano la repressione e la criminalizzazione dell’attivismo pro-palestinese sulla base dell’antisemitismo, parlando di minacce all’ordine pubblico che aumenterebbero il rischio di atti terroristici e antisemiti.
Negli ultimi anni, varie organizzazioni di difesa dei diritti umani hanno espresso preoccupazione per l’aumentare dei casi in cui individui e gruppi filo-palestinesi, attivisti ma anche professori universitari venivano accusati di antisemitismo per aver denunciato le pratiche e le politiche di Israele; alla base di queste accuse ci sarebbe l’adozione da parte dell’Unione Europea e del Regno Unito di una controversa definizione di antisemitismo formulata dall’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) che associa le critiche a Israele con l’antisemitismo. Nel caso della Germania, molti vedono alla base di questa criminalizzazione il passato di antisemitismo della Germania e la tragedia dell’olocausto: in questi giorni è emersa sui social media e nelle proteste la frase “Free Palestine from German Guilt”, Liberate la Palestina dal senso di colpa tedesco.
In questo clima di repressione, le persone che supportano la causa palestinese sono intimorite e preoccupate che esprimere pubblicamente solidarietà e preoccupazione per la situazione a Gaza e per i crimini commessi contro i palestinesi possa causare loro problemi con la giustizia. In particolare, questa preoccupazione preoccupa le persone che non hanno la cittadinanza tedesca: questo perché in passato ci sono stati casi di persone a cui non è stata concessa una proroga del permesso di soggiorno per ‘preoccupazioni di sicurezza’ legate a ‘simpatie filo-palestinesi’. «Molti attivisti sono spaventati e preoccupati, e per questo non vanno alle proteste», spiega Karl. «Ricorrendo alla brutalità della polizia, assimilando ogni forma di sostegno alla causa palestinese all’antisemitismo e al terrorismo, e minacciando di far perdere agli stranieri il permesso di soggiorno, la Germania silenzia sistematicamente le voci palestinesi. È sempre stato così, ma la situazione non è mai stata così grave come nelle ultime due settimane».