La Lingua dei Segni Italiana conquista il Festival di Sanremo grazie a interpreti capaci, con corpo e anima, di comunicare la musica a chi non la può sentire. «Il nostro sogno? Una tv sempre più accessibile»
Non sentire nulla. Eppure, in fondo, sentire tutto. Il testo di una canzone, il suo ritmo, le emozioni che la musica trasmette. Questo e molto altro è stato Sanremo nella lingua dei segni. Il Festival della canzone italiana, istituzione nel Bel Paese e nel mondo, ha la sua forza nella tradizione: 73 anni di successi sul palco così come in televisione, con le serate viste in questi decenni da miliardi di telespettatori. La vera rivoluzione, però, è datata 2020, quando, per la prima volta, il Festival è arrivato anche a chi non può sentire.
Una scelta che non è esagerato definire, appunto, rivoluzionaria. Perché se è vero che tante sono ancora le barriere presenti sulla strada per arrivare a una piena inclusività e che le prime a venire in mente sono quelle architettoniche e fisiche, portare il più grande evento di intrattenimento italiano a una platea fin qui rimasta esclusa, permettendo finalmente alle persone sorde di godere del piacere della musica, è stato un grande passo.
In quattro edizioni di “Sanremo LIS” — la Lingua dei Segni Italiana che, esattamente come quella fonica, si parla solo nella nostra penisola, con i segni che variano a ogni valico di confine — gli interpreti dei brani sono stati quattordici, sia sordi che udenti. Una traduzione, la loro, che si è sempre fatta interpretazione, trasmettendo ritmo e genere delle note con il movimento del corpo, l’espressività del volto e anche un po’ ballando.
Così si può dire che sia stata proprio questa squadra, formata da interpreti istituzionali e performer LIS di Rai Pubblica Utilità, a portare in prima persona a Sanremo la bandiera dell’accessibilità. Tutto dallo Studio 5 di via Teulada a Roma, mentre al centro di produzione di Saxa Rubra sono stati realizzati i servizi più tradizionali come i sottotitoli e le audio descrizioni delle serate.
Uno spettacolo nello spettacolo, tanto che alcune esibizioni sono diventate poi virali sui social. «Nell’ultima edizione ci hanno visto su Rai Play, dove si trovava il canale dedicato alla LIS di Rai Accessibilità, due milioni di telespettatori», hanno affermato gli interpreti. E due di loro, Gloria Antognozzi e Zena Vanacore, si sono raccontati anche oltre il palco di Sanremo.
Gloria, una vita (quasi) da Oscar
Trentenne romana, Gloria Antognozzi ha imparato la Lingua dei Segni Italiana praticamente prima di quella fonica. Suo padre e sua madre, infatti, sono entrambi sordi e lei ha dovuto subito imparare a comunicare con loro a segni. Esattamente come Ruby Rossi, la protagonista di “CODA — I segni del cuore”, film che lo scorso anno ha vinto tre Oscar. E, proprio come Ruby, Gloria ha passione per il canto. Tanto da arrivare idealmente fino all’Ariston.
Gloria, quando hai imparato la lingua dei segni?
Sul seggiolone. Mia madre avrebbe preferito che fossi anche io sorda. La sua è una sordità genetica e pensava che saremmo state più simili, più vicine se fossi stata come lei. Allora, fin da subito, ha deciso di crescermi come se lo fossi. Ero ancora sul seggiolone quando mi ha insegnato a comunicare così. Se volevo dell’acqua, per esempio, non me la dava finché non facevo perfettamente il segno giusto. E lo stesso ha fatto pure con mia sorella Susanna, anche lei udente.
Così hai capito molto presto che la tua famiglia era diversa dalle altre…
Sì, anche questo lo ho capito praticamente subito: gli altri bambini, per esempio, chiamavano la mamma e lei arrivava. Io, se mamma era girata dall’altra parte, dovevo andare a tirarle la maglietta. A casa nostra, poi, esisteva un lampeggiante per il telefono e uno per il campanello. E a tutto questo occorreva ovviamente aggiungere le domande dei compagni di scuola…
Cosa ti chiedevano?
Le domande erano le più varie… Perché i miei genitori avessero una voce strana, se potevano guidare, perfino se sapevano leggere. Per alcuni era una curiosità bella: ricordo che un’amica, che veniva spesso a giocare a casa nostra, aveva imparato a “segnare” «buongiorno» o «posso avere un succo di frutta?». Qualcuno, a essere sinceri, ci invidiava pure un po’, perché io e Susanna potevamo parlare in codice e nessuno ci capiva. Nel quartiere, però, mi hanno chiamata a lungo “la figlia della muta”. Che poi, a dire la verità, mia mamma è tutt’altro che muta. Quando alle superiori mi bocciarono e la preside le rivelò che avevo saltato un sacco di lezioni, la sentii gridare fin giù dalle scale. Lì cominciò la stagione dei colloqui alternati coi professori.
In che senso? Tu traducevi ai tuoi genitori i colloqui di tua sorella e viceversa?
Sì, dopo quel giorno sì. Prima, invece, ognuno faceva i suoi. Solo che, piccolo particolare, traducevamo la metà di quello che gli insegnanti dicevano a mamma. «Sua figlia ha fatto un compito da schifo» diventava «s’impegna molto ma potrebbe migliorare ancora». Quando lo scoprì si arrabbiò molto… Ricordo il suo «mi prendete per scema?». Finì appunto che agli incontri sulle pagelle di Susanna mamma portava me e ai miei faceva tradurre lei.
Essere la voce dei tuoi genitori nei rapporti con gli udenti ti ha fatto crescere in fretta. Come tutto questo cambiava la tua vita di tutti i giorni?
Gli esempi sono tanti… A dodici anni, per esempio, sono dovuta andare in banca a contrattare il mutuo per i miei. E chi lo sapeva come segnare “tasso d’interesse”? Sì, io e mia sorella abbiamo dovuto crescere in fretta, più in fretta di quanto fosse giusto. Era tutto diverso, più complicato. In casa, per esempio, le porte non avevano chiavi, nemmeno quella del bagno. Questo perché bisognava essere sempre attenti a qualunque rumore strano e essere pronti a intervenire. Così, quando avevo ventiquattro anni, un mio fidanzato che frequentava casa nostra mi volle regalare un gancio da mettere alla porta del bagno. «Così — disse — avrai un po’ di privacy almeno lì». Quando ero adolescente, poi, avrei voluto fare come tutti gli altri ragazzi della mia età: uscire, divertirmi con loro. Ma non sempre era possibile. Il sabato sera, per esempio, in televisione c’era “C’è posta per te”, il programma preferito dei miei genitori. E io e mia sorella ci dovevamo alternare per tradurlo: loro sul divano e io o lei su una sedia lì davanti, il tutto per quattro ore.
Non hai mai avuto la tentazione di scappare?
Scappare no, restavo lì. Non sono una martire, ma non potevo molto lamentarmi. Quando lo facevo mia madre, nel suo silenzio espressivo, mi diceva, con la lingua dei segni: «Ok, allora facciamo a cambio. Mi dai le tue orecchie e vai…»
In quella vita fatta di silenzio tu hai scoperto la passione per il canto. Quando è iniziata?
A casa nostra, ovviamente, la musica non c’era. Un giorno però mio padre arrivò con uno stereo per me e per mia sorella Susanna. Ho il ricordo di me bambina che guardavo quel regalo come se fosse un alieno… Passai una giornata intera ad ascoltare “I migliori anni della nostra vita”, a nastro. Mi addormentai abbracciata alle casse. Poi sì, iniziai a cantare anche io. E la prima volta che cantai in pubblico, in una chiesa gremita di gente, c’erano anche i miei genitori.
Come andò? Che cosa ti dissero?
Mio padre, in realtà, si addormentò subito e mia madre dovette tirargli una gomitata… La gente però aveva le lacrime agli occhi e i miei si guardavano attorno straniti: «Ma che avranno — si chiedevano — da piangere tutti? E quand’è che tocca applaudire?»
«Rinunciai a cantare perché i miei genitori non avrebbero capito. I segni? Mamma me li insegnò quando ero ancora sul seggiolone»
I tuoi genitori non avevano nemmeno l’idea di come tu cantassi, di come fosse bella la tua voce. Hai mai provato a spiegarlo loro?
Mio padre ha provato a capirlo. Dovevo partecipare a un festival. Ricordo che venne da me, mi diede un microfono e mi chiese di cantare. Lui mi mise una mano sul collo, per sentire le vibrazioni della mia gola. E io cantai per lui la canzone del Titanic. Lui è un omone grande e grosso, quella fu la prima volta che lo vidi piangere. Piangemmo insieme, un pianto irrefrenabile…
Il canto stava anche per diventare il tuo lavoro, ma poi hai fatto una scelta diversa. Perché?
Perché mi sembrava di fare un torto ai miei genitori. Quando mi hanno ammessa all’Accademia di Santa Cecilia non sapevo che dire. Come glielo spiegavo che avevo una bella voce? Per loro esiste solo il silenzio.
E così è stata la tua seconda lingua, quella dei segni, a diventare lavoro…
Sì, esatto. Sono assistente alla comunicazione nelle classi con bambini sordi, traduco e creo momenti di inclusione. Sono interprete LIS, nonché fondatrice e vicepresidente dell’associazione “CODA Italia”. CODA è un acronimo di “Children Of Deaf Adults”, cioè “figli udenti di genitori sordi”. È un’esperienza nata in America, dove esiste dal 1983 e dove hanno già fatto tanto, e che in Italia è arrivata nel 2014. Qui abbiamo molto terreno da recuperare rispetto agli Stati Uniti. Anche mia sorella è interprete LIS, ma se io ho scelto i bambini e la musica, lei ha scelto la politica. Più volte, soprattutto durante la pandemia, ha tradotto il presidente del Consiglio Mario Draghi e i messaggi della Protezione civile.
Ci dicevi che la tua vera passione è appunto interpretare le canzoni. E sei arrivata fino a Sanremo. Come è andata la tua prima al Festival?
Ero terribilmente emozionata, avevo le vene della gola di fuori. Dovevo interpretare “Finalmente io” di Irene Grandi, mi sentivo una bomba. I miei amici in realtà mi hanno preso in giro, hanno fatto girare dappertutto dei piccoli video dei momenti più buffi dell’esibizione. Ma penso sia la cosa migliore che io abbia fatto.
Nella vostra performance c’è più di una semplice traduzione. Interpretate davvero le canzoni, quasi cantate con i segni…
Esattamente. Quando traduco una canzone in realtà vorrei proprio cantarla io. Quasi sto male, ho una vera e propria crisi. Mi preparo molto, c’è un grande lavoro dietro. Ma alla fine più forte di tutto, la vera cosa che fa la differenza, è il desiderio di trasmettere ai sordi la canzone, il suo testo e il suo ritmo. Io ogni volta penso di cantare per i miei genitori.
Zena, performer LIS e infermiere. «Con i miei segni le canzoni diventano per tutti»
In prima linea in corsia durante la pandemia, quest’anno ha fatto ballare tutti interpretando Rosa Chemical sul palco dell’Ariston. Vanacore, 30 anni, ha messo la firma su alcune delle più divertenti e provocatorie performance del Festival: «I miei nonni erano sordi, da bambino “segnavo” le canzoni davanti alla tv. Ora sogno una televisione accessibile per chi non può sentire»
Zena, si rimane incantati a vedere al lavoro voi performer LIS. Sembra quasi incredibile che le persone sorde possano capire tutto quello che “segnate”. Ma è davvero una lingua universale?
La lingua dei segni è una lingua vera e propria con una sua grammatica e una sua sintassi, non è — come molti potrebbero pensare — una mera traduzione dell’italiano. Non è universale, ogni Paese ha la propria lingua dei segni, esattamente come accade con quella parlata con i suoni. E, oltre a questo, anche all’interno di un singolo Stato come l’Italia ci sono segni che a volte sono differenti da regione a regione, come per i dialetti. Ma sono in quest’ultimo caso piccole differenze. Ci sono per esempio parole che si “segnano” in un modo in Campania e in un altro in Piemonte. Non ci si pensa spesso.
Come fai a trasmettere il senso del ritmo, dell’armonia musicale, a chi non può sentire?
Il ritmo della musica passa attraverso il corpo: l’inarcare le spalle, le espressioni del viso… La musica la traduciamo con il corpo e lo spazio, lo dico senza esagerare. La lingua dei segni è infatti una lingua tridimensionale. Il corpo si muove nello spazio per trasmettere l’intensità della musica, per comunicarne l’umore. Se ci sono delle trattenute nella musica, anche il segno viene trattenuto; se il suono è aperto allarghi le spalle, se il suono è cupo chiudi il corpo. Ci sono tanti fattori da considerare e da rendere segno. Io il mio stile l’ho imparato studiando i movimenti dei cantanti sul palco, osservando tanto. Molti colleghi mi hanno detto che ho la musica dentro, mi hanno supportato dicendomi che sembrava ce l’avessi innata. Di sicuro è un campo nuovo, da esplorare. Si può imparare, ma questo lavoro prima di tutto bisogna “sentirlo”.
Come hai imparato così bene questa lingua, al punto da interpretare le canzoni di Sanremo?
Ho imparato per esposizione diretta, perché mia mamma è una CODA, una figlia udente di genitori sordi. I miei nonni, che non ho mai conosciuto, erano sordi e mia mamma già dalla gravidanza era pronta al fatto che io potessi essere non udente. C’è infatti un certo fattore di ereditarietà nella sordità e, oltre ai nonni, anche altri parenti in famiglia convivevano con questo. Io invece sono nato udente, ma ho imparato la lingua dei segni sin da subito. Prima come gioco, poi in modo sempre più serio. Quando ho cominciato traducevo lettera per lettera con i segni; nel tempo lo ho fatto in maniera sempre più complessa. Pensa che, quando ero piccolo, una collega di mia madre diceva che per esprimermi io ero abituato a “segnare” più che a parlare… Non avevo una lingua predominante e, anzi, spesso predominava quella dei segni.
«La lingua dei segni è una lingua tridimensionale. Il corpo si muove nello spazio per trasmettere l’intensità della musica, per comunicarne l’umore»
Come sei riuscito a fare tua la lingua dei tuoi nonni e, di conseguenza, di tua mamma?
I miei nonni, come accennavo prima, sono morti prima che io nascessi. Tuttavia i loro più cari amici, Anna e Aurelio, anche loro sordi, mi hanno cresciuto come se fossi stato loro nipote. Sono stati la mia famiglia. Pensa che Anna, per paura che io potessi diventare sordo, mi comprava qualsiasi giocattolo a emissione sonora che trovava e mi interrogava per accertarsi che io ci sentissi. Molti, per ignoranza, avevano paura che “segnando” io diventassi muto e disimparassi a parlare; c’era davvero chi sosteneva che se mia mamma mi avesse insegnato la lingua dei segni io non avrei più parlato. Tutto questo, a pensarci oggi, non sembra possibile… Mia mamma mediava sempre al posto mio, perché lei era cresciuta come interprete dei suoi genitori e non voleva che capitasse anche a me. La vita di un CODA non è semplice, anzi. Già da piccola mamma era l’interprete di mio nonno; lui la portava persino al lavoro per parlare con il suo capo. Essere figli di genitori sordi, poi, porta a diventare adulti molto presto. Proprio per questo mia mamma mi ha voluto tutelare, non facendomi quasi mai fare da interprete.
Nella vita di tutti i giorni sei infermiere. Come sei finito sul palco di Sanremo?
Già quando ero bambino con mia mamma mi divertivo a tradurre le canzoni di Sanremo; io e lei le “segnavamo” davanti alla televisione. Erano i tempi dei Neri per Caso, molti anni fa… Quando hanno aperto i casting di Rai Accessibilità ero in realtà indeciso se partecipare: non ho molta autostima e non mi sentivo all’altezza. Due mie colleghe infermiere però insistettero, anzi mi iscrissero loro. Erano passati tre anni dalla morte di mia madre, ci stavo male, e forse un po’ per lei ho deciso di lanciarmi in questa avventura. Mi arrivò la chiamata per dirmi che avevo passato la selezione e io non ci credevo, pensavo fosse uno scherzo! «Ma lei — ricordo di aver detto rivolgendomi al mio interlocutore — è sicuro di voler parlare con me?»
Quest’anno la tua interpretazione della canzone “Made in Italy” di Rosa Chemical è diventata virale. Avevi già studiato per diventare interprete LIS, ma le canzoni sono un’altra cosa: devi interpretare anche il ritmo del brano, lo stile… Quando è stata la tua prima volta con la musica?
La prima esperienza è stata a Sanremo 2020 con Le Vibrazioni, Achille Lauro e Bugo e Morgan. Soprattutto su Achille Lauro, che era un personaggio sui generis, mi sono divertito tantissimo. In una serata ho persino indossato un abito di piume nere! E, per essere fedele alla performance, ho anche “leccato” la mia collega Gloria Antognozzi… Mi sono divertito tanto, l’estro di Achille Lauro mi ha permesso di sbizzarrirmi molto.
Sul palco di Sanremo, una volta, hai dovuto anche improvvisare. Quando Morgan ha cambiato in diretta le parole della canzone, rivolgendole contro Bugo…
Io facevo Morgan, un mio collega Bugo. Quando mi sono reso conto che Morgan stava cambiando le parole, lui ha iniziato a spingermi con il piede, probabilmente preoccupato… Alla fine ho letteralmente tradotto tutto quello che ha detto Morgan, comprese le facce schifate. Poi è entrato l’interprete di Amadeus e mi ha interrotto. Io avrei voluto tradurre, muovendomi nello studio, l’ormai epico «dov’è Bugo?», ma purtroppo mi hanno fermato prima…
Possiamo dire che insieme a un tuo collega hai anche vinto il festival di Sanremo interpretando “Brividi” di Blanco e Mahmood. È stato emozionante?
Sì, è stato davvero molto emozionante. Chiariamo: non vinciamo noi ma vincono gli artisti; questo è un concetto che abbiamo ben presente. Però è stata una vittoria personale e un’emozione grandissima. Dopo due anni di Covid, infatti, ero bloccatissimo e invece quella esperienza mi ha sbloccato. È stato molto emozionante. E poi duettare con il mio collega Nicola Noro, che faceva Blanco, è stato stupendo. Che pianti ci siamo fatti…
Hai mai pensato di passare dall’altra parte? Ti piacerebbe fare il cantante e non solo tradurre le canzoni degli altri?
Fosse per me io farei pure “Ballando con le stelle”, perché io mi diverto un sacco con la musica e con il ballo. Sono per me soprattutto uno sfogo, perché ho avuto un’infanzia difficile: ho perso mia madre, ho avuto un nonno con l’Alzheimer, mio padre disabile. Diciamo che ho una voglia estrema di lavorare e di divertirmi; ho voglia di leggerezza. Ho un’anima artistica, ma la vita mi ha portato altrove. Cantare io? Magari lo sapessi fare, ma mi piacerebbe.
Il 2020 è stato l’anno del tuo primo Sanremo, ma pochi giorni dopo il Festival è scattato il lockdown. Come hai vissuto da infermiere i momenti più duri della pandemia?
Sono stati due anni di inferno, non solo per me, ma per tutti gli addetti ai lavori. Gli infermieri sono stati in prima linea con gli utenti, più di tutti. Sono stati anni pesanti e lo sono stati ancor più per le persone sorde. Io finivo il mio turno, staccavo e andavo a fare l’interprete LIS. Traducevo per persone sorde in difficoltà che avevano bisogno di cure. Noi infermieri in quei mesi ci siamo spenti, ci siamo bloccati, abbiamo perso la gioia. Ci sentivamo alieni. Quella scritta sulla tuta (nella foto, ndr) per me è stata questo: un appello alla musica, alla leggerezza che mi mancava. Io lavoravo come un matto, facevo doppi turni massacranti ma almeno questo mi ha permesso, grazie ai permessi compensativi, di andare a Sanremo e di prepararne i brani. Non vedevo l’ora di poterci tornare: era la mia bolla felice per svagarmi dalla tragedia.
E i tuoi colleghi infermieri, quando sei sul palco e non in corsia, fanno il tifo per te?
All’inizio tra i miei colleghi lo sapevano in pochi, non mi pace tanto parlare di me. Ma ora è tutto alla luce del sole e ho ricevuto tanti complimenti e tanto supporto. Sono loro che lo dicono ai pazienti: «Ma sai chi ti ha fatto il prelievo? Lui è famoso, ha fatto Sanremo!». Questa esperienza mi ha fatto felice, ma soprattutto sono stato contento che siano rimasti soddisfatti gli spettatori sordi a cui mi sono rivolto. Il Festival in LIS su RaiPlay ha fatto quest’anno oltre 2 milioni di visualizzazioni, il più seguito di sempre. Questa è la soddisfazione più grande. Spero che sempre più programmi tv, a partire da quelli musicali, diventino accessibili a chi non può sentire.