Si ritorna per le strade e anche questa volta in maniera massiccia. L’Ecuador torna a paralizzarsi in una spirale di povertà e violenza che bloccano il Paese oramai da quando Guillermo Lasso è diventato Presidente.
Difficilmente l’Ecuador riesce a conquistare le prime pagine dei quotidiani internazionali, ma quello che accade merita attenzione, sia sul piano dei diritti umani che su quello della democrazia.
Le immagini sono sempre le stesse dal 2019 ad oggi: strade con fiumi di persone che si scontrano con i militari che senza esitare troppo reprimono il malcontento un po’ con le balas de goma un po’ con il piombo.
Alle 20:04 del 21 giugno Alerta News su twitter posta così: “migliaia di indigeni continuano ad arrivare a Quito in quella che è già una protesta storica contro il governo Lasso”. Ma è proprio il ministro della difesa ecuadoriano che avverte: “la democrazia nel Paese è seriamente a rischio”.
Ma esattamente cosa sta accadendo in Ecuador?
Gli indigeni provenienti da ogni parte del Paese marciano verso la capitale, per giorni, camminando si moltiplicano, chiedono al governo Lasso una serie di misure sociali in grado di risollevare le comunità indigene e la classe bassa dalla povertà assoluta; nello specifico chiedono di stabilire un prezzo fisso per la benzina oramai schizzata alle stelle durante la pandemia.
Il prezzo del diesel è quasi duplicato: da 1 dollaro a 1,90 per gallone (3,8 litri), mentre la benzina è aumentata da 1,75 a 2,55 dollari. Molte comunità stentano a mettere in moto le macchine agricole, impossibilitati quindi a coltivare il cibo che serve per sfamarsi e come unico prodotto da mettere sul mercato.
L’Ecuador ha chiuso il 2021 con l’inflazione più alta degli ultimi sei anni, la crisi dei trasporti insieme alla scarsezza di cibo e bevande e il collasso del sistema sanitario durante la pandemia hanno infuocato le proteste che sono sempre più pericolose.
Nel Paese nelle scorse settimane è stato dichiarato lo stato di emergenza, il fatto che i militari siano entrati nelle case arbitrariamente per cercare presunti agitatori o l’impossibilità di uscire a causa del coprifuoco, hanno spinto la popolazione – dopo due anni stremati dal covid – al collasso psicologico; i nervi tesissimi si respirano tutt’oggi nelle stradine di Quito, a 2850 metri di altitudine.
L’Ecuador dopo oltre venti giorni di sciopero generale, ha bloccato la produttività del Paese, mettendo nell’angolino Guillermo Lasso e la sua squadra.
Uno degli alleati più fedeli del Fondo Monetario Internazionale è stato sull’orlo del collasso e la dipendenza dagli USA , che banalmente si misura con il fatto che la moneta nazionale degli ecuadoriani sia il dollaro (statunitense), rischia di terminare in fretta.
Inaspettatamente l’accordo tra Lasso e i manifestanti è stato trovato giovedì 30 giugno, o almeno momentaneamente si è tornati quantomeno a parlare di pace. Il Presidente si è visto costretto a firmare un accordo abbassando di 15 centesimi il costo della benzina e del Diesel; ma non solo: si vieta l’attività mineraria nelle zone protette, nei grandi parchi nazionali, nelle aree abitate dagli indigeni e dunque anche nelle vicinanze delle sorgenti d’acqua.
Una battaglia che ad oggi ha assunto un valore ambientale ma anche storico: per l’ennesima volta a tutela dell’ambiente ci hanno pensato gli Indigeni.
Il bollettino finale però pesa ancora in termini di diritti e vite umane: dopo settimane di scontri e proteste si registrano almeno 6 morti (cinque tra i manifestanti e un militare) e oltre 200 feriti. Al Presidente sono stati dati 90 giorni per rispettare le promesse, un tempo che momentaneamente distende gli animi ma che ha le sembianze di una miccia accesa, pronta ad esplodere.
Geografia di una nazione
La crisi strutturale dell’Ecuador va avanti oramai da anni, il Paese con circa 17 milioni di abitanti conta con oltre il 7% di popolazione indigena. Molte comunità nei secoli sono state allontanate dalla selva, riadattandosi in una molteplicità di gruppi che vivono al limite delle aree urbane, in quello che è lo spaesamento di essere stati strappati dalle proprie origini. Il polmone della Terra, o purtroppo quello che ne rimane, tocca l’Ecuador in quello che viene definito l’Oriente del Paese.
Fiumi, laghi, con una vegetazione ricca tipica dei climi tropicali; mentre la spina dorsale del Paese è rappresentato dalla Cordigliera delle Ande. Insomma un’infinità di bellezza che di generazione in generazione è stata vissuta da comunità che ad oggi lottano non solo per difendere quei pezzi di terra ma anche cercando di sopravvivere per non scomparire nell’etichetta che racchiude un’enorme complessità: popolazioni indigene.
La CONAIE (La Confederazione delle Nazionalità Indigene dell’Ecuador) è la più grande organizzazione indigena del Paese, da anni guida le mobilitazioni rappresentando lo zoccolo più duro per le politiche neoliberiste. La mancata comunicazione tra il Presidente e i manifestanti ha generato solo una dura guerriglia urbana con le strade in fumo mentre venivano riprese dall’alto dalle tv locali.
Proprio Guillermo Lasso ha dichiarato: “è chiara l’intenzione dei manifestanti che vogliono provocare un golpe de estado nel Paese”; Dall’altro lato i manifestanti guidati da numerose associazioni, tra tutte proprio la CONAIE, non ci stanno ad essere etichettati come violenti e sottolineano come le dichiarazioni istituzionali siano mirate per diffondere ancora più odio e repulsione verso le ampie fette di popolazione indigena. L’indigestione politica però non appartiene solo agli indigeni, anche studenti, professori, il sistema dei trasporti e molti sindacati hanno aderito alle proteste sostenendo le rivendicazioni della CONAIE.
Nelle ultime settimane a causa di un clima incandescente l’Assemblea Nazionale ha dovuto addirittura discutere sulla fine del mandato di Guillermo Lasso, e servivano solo 92 voti su 137 per mandare a casa l’ennesimo Presidente che poteva essere destituito proprio secondo l’articolo 130 della Costituzione Ecuadoriana, che prevede: “’ è possibile mettere fine ad un mandato per grave crisi politica e frattura interna”.
Una visione più ampia
L’America latina da sempre in subbuglio sembra aver trovato negli ultimi anni forme relativamente più democratiche per mettere in discussione il neolibersimo e le politiche finanziarie; gli ultimi cambi politici segnano uno scenario interessante che rivede all’orizzonte ampi schieramenti di sinistra.
Oltre a Cuba e Venezuela, l’Argentina guidata da Fernandez, il nuovo Cile di Boric, l’esperimento marxista in Perù con Castillo, le elezioni in Colombia con Petro, la Bolivia di Arce, e il Messico di AMLO, rappresentano una sinistra nuova, per alcuni moderata, per altri più radicale, un mix ideologico che nonostante le sue mille sfumature rappresenta un importante freno alle decisioni del FMI e dagli Usa e nonostante le differenze profonde tutti questi Paesi hanno avuto nella loro fase di svolta un punto in comune: la critica al neoliberismo.
Non è dunque un caso, bensì un punto di congiunzione, che su uno dei manifesti più famosi che hanno inneggiato allo sciopero nazionale in Ecuador, la CONAIE abbia scritto in maniera forte e chiara: “Il governo ha deciso imporci il neoliberismo per assecondare gli interessi dell’agenda del FMI, tutto questo colpendo sistematicamente la popolazione. È arrivato il momento di decidere se continuare a spalleggiare questo interventismo finanziario oppure ascoltare il clamore del popolo”.
È chiaro a tutti oramai come le prossime elezioni in Brasile possano ristabilire un ordine sociale e economico in grado di suscitare un grande terremoto in America Latina. Nel frattempo l’Ecuador trema scuotendo (di paura) anche il Fondo Monetario Internazionale e i suoi sostenitori.