Nel 2024 secondo il “World Hapiness Report”, un’indagine annuale che analizza una serie di fattori quali il Prodotto interno lordo e l’autovalutazione della soddisfazione della vita delle persone, l’Italia si colloca al 41° posto nella classifica dei Paesi più felici al mondo. Un notevole arretramento rispetto al 31° posto raggiunto nel report dell’anno scorso. Sebbene i report appena menzionati non siano del tutto esplicativi del fenomeno, registrano un graduale processo di malessere che attraversa la società italiana. Si tratta di una discesa progressiva in atto ormai da qualche anno: nel 2021 l’Italia si collocava al 28° posto, nel 2022 occupava la 31° posizione.
Per comprendere il declino in atto è tuttavia necessario prendere in esame alcuni elementi.
Secondo le recenti indagini condotte dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) il 6% della popolazione italiana adulta manifesta sintomi depressivi. Un dato che si attesta al 9% sul versante della popolazione adulta e che raggiunge quota 30% tra questi ultimi se analizzati alla luce delle difficoltà economiche. Non solo,come evidenziato dalla Fondazione Veronesi, «altre sotto stime indicano che il livello del male oscuro è più elevato tra le donne, con l’8 per cento, tra le persone con un basso livello di istruzione (11 per cento), tra chi ha difficoltà economiche (17), tra chi vive una condizione di lavoro precaria (9)».
Le cause? Difficile elencarle con certezza. Sarebbe però opportuno interrogarsi in merito al concetto stesso di felicità e come questa venga concepita all’interno della nostra società.
E se fosse il concetto stesso di felicità – così come viene inteso nell’attuale cultura neoliberista – a rappresentare il principale ostacolo per una piena realizzazione di soggettività soddisfatte della propria esistenza?
Con la rivoluzione positivista dell’800 il concetto di felicità assume una inedita connotazione, allontanandosi dalla lettura meramente religiosa che lo aveva caratterizzato fino a quel momento. La felicità non è più qualcosa che inevitabilmente lega l’individuo a Dio, ma diventa il terreno sul quale le principali dottrine filosofiche moderne sono chiamate a confrontarsi.
Con la rivoluzione neoliberista, sotto la spinta del conservatorismo di Thatcher e Reagan, la felicità viene inglobata all’interno di un’analisi economica della dimensione sociale: la felicità è tale solo se produttiva e competitiva. Qualsiasi analisi relativa alla felicità fine a se stessa diviene oggetto di demonizzazione culturale.
L’egemonia culturale della rivoluzione neoliberista ha inglobato oggi qualsiasi ambito sociale. Immaginare un mondo diverso sembra ormai impossibile, dando vita a quello che Mark Fisher definisce “realismo capitalista”. Ma ci sono ancora degli spiragli utili per decostruire lo stato di cose presente.
Nel 1982 l’economista tedesco Albert 0. Hirschman pubblica “Shifting involvements. Private interest and public action”, pubblicato in Italia con il titolo “Felicità privata e felicità pubblica”, nel quale indaga le dinamiche e le motivazioni che spingono l’individuo all’adesione all’impegno collettivo o, viceversa, al suo ritrarsi nel privato. Nel volume l’autore sostiene che è possibile osservare il susseguirsi ciclico di strategie di ricerca della felicità privata e strategie di ricerca della felicità pubblica, tanto a livello personale che storico-generazionale, in risposta a momenti di malcontento o delusione.
La prima strategia è caratterizzata da un’idea di felicità legata alla dimensione materiale, in cui si interpreta il raggiungimento del successo e dell’autorealizzazione come epopea individuale. Sarà poi la raggiunta consapevolezza che questo modello disattende le aspettative, a spingere gli uomini e le donne verso la seconda strategia.
L’unirsi, riconoscendosi nella delusione e nell’insoddisfazione condivisa, stimola la progettazione e la diffusione di una strategia di ricerca della felicità collettiva. Ma anche la vita nello spazio pubblico riserva frustrazioni respingendo gli individui nuovamente nel privato.
Questo andamento dialettico emerge in maniera evidente nella seconda metà del secolo scorso: se gli anni Sessanta furono caratterizzati da mobilitazioni e lotte collettive a forte connotazione valoriale, dalla metà degli anni Settanta osserviamo la fine dell’entusiasmo politico e civile e il ripiegarsi generalizzato verso la dimensione privata, che si concretizzerà poi con il ridirezionamento della strategia politico-economica verso orizzonti neoliberisti sui quali, con i dovuti aggiustamenti e modifiche legate al corso degli eventi, ci siamo fino ad oggi assestati.
Ma qualcosa negli ultimi anni si sta muovendo.
Quello dell’insoddisfazione oramai non è più solo un rumore di fondo. A livello nazionale stanno sorgendo e si stanno rafforzando realtà e movimenti di rivendicazione con una forza nuova e che, forse, a prescindere dai loro risultati, ci raccontano di una modello che inizia a cedere.
Il presidio permanente della GKN, nel corso di questi 2 anni di vertenza, ad esempio, ha indicato un modello di autorganizzazione. Malgrado i rapporti di forza sfavorevoli, la vertenza ha intrapreso un percorso di maturazione che l’ha portata ad essere un punto di riferimento sul territorio (basti pensare al lavoro svolto durante l’alluvione o al processo di reindustrializzazione che punta a conferire protagonismo alla comunità).
Non solo. Rimanendo sul piano locale, sono molteplici gli esempi di attivazione dal basso che negli ultimi anni hanno contribuito ad immaginare un nuovo modello di autorganizzazione. Basti pensare, ad esempio, a quanto accaduto ai cancelli di Mondo Convenienza. Nei primi giorni della vertenza contro la società di mobili, alcuni lavoratori scrissero sugli striscioni del picchetto “Vogliamo una vita più bella”. Nella sua semplicità, questo principio mette in primo piano il benessere esistenziale a scapito della dimensione economica e del ricatto del lavoro salariato.
All’interno di una società le cui fondamenta sono segnate dall’individualismo e dalla competizione decidere di partire dai movimenti significa già decostruire la cultura opposta. Significa far riferimento a un universo valoriale che concepisce il mondo al di fuori degli schemi dettati dalla cultura oggi dominante.
E allora dove si inseriscono le rivendicazioni e le lotte sindacali di questi ultimi anni? Possono essere sintomo di timide fratture nel paradigma di ricerca individuale della felicità che ha caratterizzato gli ultimi decenni o sono solo sacche di resistenza all’interno di un paradigma che rimane ben saldo?
Le lotte che attraversano i nostri territori non avvengono in maniera isolata rispetto alla realtà sociale circostante. Al contrario, rappresentano il riflesso del mondo che soggiace alla dimensione individualista che disciplina le nostre vite. Si tratta di rivendicazioni, pratiche e parole che si collocano in controtendenza ad un mondo che incarna valori opposti. Due dimensioni che, quando si incontrano, danno vita al conflitto.
La cultura della produttività e della competizione che da decenni viene propagandata a reti unificate ha dato vita a un’inedita concezione del mondo e delle relazioni sociali che sono al suo interno. Il risultato è sotto i nostri occhi: la felicità collettiva è stata neutralizzata a favore di una felicità intesa in senso individuale. Tuttavia, il concetto stesso, se mutilato dei suoi elementi prioritari quali la solidarietà, il benessere collettivo e comunitario, cessa di avere un senso. Per fortuna non sempre.