Tutti i defunti sono uguali, ma alcuni sono più uguali di altri.
Al mercato della guerra il prezzo di un morto israeliano è cambiato: è la semplice legge dell’inflazione, che all’aumentare del numero, diminuisce il valore.
Fino a settantadue ore fa, all’alba di sabato 7 ottobre, quando l’attacco partito da Gaza contro Israele ha invertito le parti di speranza e disperazione, vantaggio e sconfitta, sentir parlare di uno, dieci, al più quindici morti israeliani, era una notizia comparabile, in termini di portata e di rilevanza, a quella delle centinaia di vittime palestinesi residenti nella Striscia.
2004, Operazione Arcobaleno: due morti israeliani, 63 palestinesi; Operazione Giorni di Penitenza: cinque morti israeliani, 175 palestinesi; 2006, Operazione Piogge Estive: uccisi cinque israeliani e 462 palestinesi, di cui 405 soltanto a Gaza; nello stesso anno, l’Operazione Nuvole d’Autunno, ha causato un morto israeliano e 53 palestinesi. 2007, 13 morti israeliani, 373 palestinesi; 2008, 18 israeliani, 455 palestinesi, di cui 290 a Gaza, Operazione Inverno Caldo: quattro israeliani e 112 palestinesi; 2009, Operazione Piombo Fuso, noto come il massacro di Gaza: 13 israeliani e un numero di morti palestinesi oscillante tra i 600 e i 1300. Operazione Colonna di Nuvola, o Hijarat Sajil, nel 2012: sei morti israeliani, 171 palestinesi. Operazione Margine di Protezione, 2014: 72 morti israeliani, 2310 morti palestinesi, di cui 578 bambini. Pausa. Duemilatrecentodieci morti, di cui cinquecentosettantotto bambini. Quell’agosto, le Forze di Difesa israeliane uccisero anche il reporter italiano Simone Camilli.
E nel 2021, l’Operazione Guardiani delle Mura, scatenata in risposta alle proteste seguite allo sfratto di alcune famiglie palestinesi residenti nel quartiere di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme Est, avrebbe causato, soltanto a Gaza, 256 morti.
Dunque il bilancio, per ora in crescita, delle vittime israeliane e palestinesi dell’Operazione Tempesta di al-Aqsa, ci dice qualcosa in più rispetto a un macabro teatro di carneficina. È la riappropriazione del senso della misura, del significato di guerra e di conflitto, combattuto ad armi, per quanto impari, almeno comparabili. Ad oggi, 10 ottobre, quasi 700 i morti palestinesi, e oltre 900 quelli israeliani. La deflazione, la rivincita, del prezzo della morte – dunque della vita – nella Striscia di Gaza.
Sempre scatenato dalle decennali dinamiche di occupazione-resistenza-ritorsione tra Israele e Palestina, e in particolare dall’offensiva delle Brigate al-Qassam, braccio armato di Hamas, quella del 7 ottobre è la prima volta in cui un attacco di tale portata sia partito dalle forze palestinesi: pur rivelandosi, ancora una volta, un atto di risposta a 75 anni di privazioni, espropriazioni, crimini impuniti, omicidi e arresti arbitrari di civili, anche minori; tagli alle risorse idriche ed energetiche, colonialismo, apartheid, isolamento regionale, morte, morte e ancora morte.
Lo scenario che ne deriva è quello di un assurdo e sbilanciato equilibrio tra armi ineguali: non più la pietra lanciata contro le bombe, bensì la superiorità tecnologica militare di Israele contro la fedeltà alla causa della liberazione della Palestina, il senso di persecuzione degli uni contro lo zelo di resistenza degli altri. Per cui, a Gaza, anche centinaia di morti, sofferti, vengono accettati con il sorriso amaro della consapevolezza di ciò che, mai buono, è pur sempre giusto: l’unico prezzo possibile. Non perché i morti non siano un problema: le lacrime non cessano di essere versate. Ma perché la vita come la morte, nella prigione a cielo aperto in cui la Striscia di Gaza è stata trasformata, non fanno più differenza: sicché morire acquista il significato sublime del sacrificio. La Cupola di Ferro israeliana contro l’istishhad, il concetto di martirio, dei palestinesi, che rende la perdita più accettabile, e più urgente la tenacia nella resistenza.