Nella notte del 2 marzo 2016 un gruppo di sicari armati entravano nella casa della luchadora social e attivista ambientalista Berta Càceres a Intibucá, in Honduras, e la uccidevano a colpi di arma da fuoco.
Più di sei anni dopo, lunedì 20 giugno 2022, il tribunale dell’Honduras ha condannato Roberto David Castillo, ex presidente della DESA (l’azienda elettrica honduregna), in qualità di mandante. Già nel 2019 erano state condannate altre sette persone, tra cui un altro dirigente della DESA, come esecutori materiali, ma secondo le accuse Castillo avrebbe partecipato in prima persona alla pianificazione dell’omicidio di Berta Càceres e avrebbe assoldato i sicari che l’avrebbero uccisa.
Che la DESA avesse ottimi motivi per eliminare Berta non è certo un mistero. Fondatrice del COPINH (Consiglio delle Organizzazioni Popolari e Indigene dell’Honduras), nato nel 1993 per la difesa delle popolazioni native honduregne e i territori ancestrali, quando fu uccisa stava guidando una campagna contro il progetto di costruzione di una diga, Agua Zarca, gestita proprio dalla DESA, che avrebbe sfruttato il corso del Rio Gualcarque per la produzione di energia elettrica.
Il fiume, oltre ad essere un’importante fonte di approvvigionamento idrico per i territori circostanti che fanno affidamento sulle sue acque per l’irrigazione dei campi e l’abbeveramento del bestiame, ricopre anche un ruolo fondamentale nella vita spirituale del popolo Lenca, gruppo indigeno che abita in quelle zone e a cui la stessa Berta apparteneva.
L’incarcerazione di Castillo è un bel passo avanti sul cammino della giustizia e contribuisce ad aprire una breccia nel muro dell’impunità contro il quale da anni lottano la famiglia e l* compagn* di Berta.
Nel ragionare su questo pezzo ho pensato molto a come avrei voluto parlare di Berta Càceres, non solo una figura fondamentale nel panorama della lotta per i diritti ambientali ma anche una donna che ha saputo unire su di sé la profonda intersezionalità delle lotte contro il patriarcato, il capitalismo e il colonialismo e che ha il potenziale di ispirare moltissim* altr* compagn* nel mondo attraverso le sue parole e il suo esempio.
Per questo ho deciso di non limitarmi a scrivere un pezzo informativo sulla sua vita e la sua azione politica ma ho voluto parlare di lei con due delle persone chiave nella mia scoperta di Berta, della sua figura e del suo pensiero: Ilaria Leccardi, fondatrice di Capovolte edizioni, che ha contribuito a portare in Italia due libri fondamentali per approfondire la storia e l’impegno di Berta Càceres, Chi ha ucciso Berta Càceres? della giornalista Nina Lakhani e Le rivoluzioni di Berta di Claudia Korol, e Claudia Korol stessa, giornalista, educatrice popolare, femminista e intima amica di Berta.
Nata nel gennaio del 2019 Capovolte è una casa editrice indipendente, femminista e ribelle con un forte interesse per i temi sociali e con un focus particolare sull’America Latina.
“Tutto nasce per una mia scelta e propensione personale”, mi racconta Ilaria Leccardi. “Io nasco come giornalista e una volta diventata editrice ho cercato di mantenere questo sguardo che mi caratterizza a partire dalla mia esperienza professionale precedente. Sono sempre stata, e sono attualmente, una grande appassionata di America Latina dal punto di vista dei movimenti sociali. Il femminismo è arrivato dopo. Ho passato del tempo in Argentina, anni fa, dopo il default finanziario, per studiare le fabbriche autogestite e questa sensibilità femminista ancora non c’era. Quella è arrivata dopo e si è unita alla mia militanza qua in Italia. L’idea di Capovolte quindi nasce a partire da questo mio interesse per il femminismo e per quest’area del mondo dove i movimenti sociali hanno questa doppia caratteristica molto interessante di essere da una parte radicali e dall’altra di massa. Magari radicali lo sono anche da noi ma non sono per nulla di massa”.
È stato l’omicidio di Marielle Franco a far scattare qualcosa nella testa di Ilaria, che l’ha spinta a fondare Capovolte e che poi l’ha portata a incontrare i due libri su Berta Càceres che ha deciso di pubblicare.
“È stato proprio grazie a Marielle che mi si è aperto un mondo. Mi ricordo ancora questa cosa”, sorride, “credo di non averlo mai raccontato a nessuno ma l’ultima notizia che ho battuto in agenzia stampa dove lavoravo è stata nel febbraio del 2017 e riguardava proprio Berta Càceres. La sua figura mi ha sempre appassionata e stimolata e quando abbiamo presentato per la prima volta a Milano il libro Marielle, presente! di Agnese Gazzera, ho intercettato il collettivo Berta Vive. Sono stat* loro a consigliarmi di cercare il libro di Claudia Korol, che era già uscito in Argentina. Quindi mi sono messa sulle sue tracce ma ho scoperto che i diritti erano già stati acquisiti da altri editori. Allora tramite un’amica comune, che era anche una grandissima amica di Berta, mi sono orientata sull’altro libro, Chi ha ucciso Berta Càceres di Nina Lakhani, un’inchiesta giornalistica approfondita che tocca tanti temi anche finanziari e processuali.
Poi, neanche farlo apposta, proprio appena dopo la pubblicazione mi arriva notizia che il libro di Claudia Korol era tornato sul mercato perché la casa editrice che aveva acquisito i diritti non l’avrebbe pubblicato per problemi legati al Covid. A quel punto il Collettivo Italia Centro America che lo aveva già tradotto mi ha chiesto se lo volevo pubblicare. Io ero un po’ spaventata perché eravamo appena uscit* con quello di Nina e dal momento che Berta non è proprio una figura che tutt* conoscono era già difficile promuovere quello, in più per il blocco del Covid non è stato possibile girare molto con le presentazioni. Quindi ho deciso di far passare un po’ di tempo e alla fine l’abbiamo lanciato quest’anno approfittando del fatto che Claudia è potuta venire in Italia e fare un tour molto bello con diverse realtà militanti. Devo dire che sia con Nina che con Claudia abbiamo avuto un buon riscontro da parte del pubblico”.
Il libro di Claudia Korol è una raccolta di conversazioni che la stessa Claudia ha avuto con Berta Càceres negli anni dopo il colpo di stato del 2009 che portò alla deposizione del presidente honduregno Manuel Zelaya. La prima cosa che le chiedo quando ci incontriamo online per l’intervista è: “Perché Berta? Come l’hai conosciuta e che cosa ti ha colpito di lei e della sua lotta?”
“Berta è stata una mia grande amica”, mi racconta. “Però inizialmente mi sono avvicinata a lei perché mi avevano colpito le sue posizioni politiche. L’ho conosciuta a Cuba ad un incontro sui paradigmi emancipatori. Mi accorsi subito che lei usciva dalla logica di molti movimenti che si dicono popolari ma che poi si appoggiano e appoggiano il sistema. Berta era molto critica nei confronti del governo di Zelaya, e il COPINH avanzò molte richieste a beneficio del popolo, ma comunque quando c’era da sostenere una causa non si tirava indietro. Per esempio il COPINH appoggiò con convinzione l’entrata dell’Honduras nell’ALBA (Alleanza Bolivariana delle Americhe). Dopo il colpo di stato Berta fu una delle leader indiscusse della resistenza.
Dopo Cuba la rividi l’8 marzo 2010, quando con una delegazione femminista ci unimmo alla marcia delle compagne femministe dell’Honduras. In quell’occasione Berta ci invitò nel posto dove lei e il COPINH portavano avanti la lotta, a La Esperanza. Lì si stava tenendo un incontro sulla rifondazione dell’Honduras, una delle proposte politiche più importanti formulate da Berta nella direzione di costruire un potere dal basso, un potere popolare. Mi colpirono le sue posizioni politiche, la sua chiarezza e la sua creatività, l’atteggiamento di sfida alle logiche del male minore e del possibilismo che aveva e la capacità di combinare le sue proposte con quelle di altri settori popolari.
L’altra cosa che mi aveva impressionata era il fatto che una dirigente di un movimento indigeno come il COPINH fosse anche femminista, che portasse avanti la lotta dei diritti delle donne all’interno dell’organizzazione. Adesso ci sono più voci che si alzano in quella direzione ma in quel momento non c’erano molte compagne che si battevano in questa triplice lotta contro il colonialismo, il patriarcato e il capitalismo”.
Avevo già assistito alla presentazione del libro di Claudia alla Casa Internazionale delle donne di Roma durante Feminism, l’annuale fiera dell’editoria femminista, e mi aveva colpito molto la scelta di scrivere un libro su Berta Càceres lasciando totalmente a lei, alle figlie e a* compagn* la parola invece che scrivere semplicemente una biografia, quindi le chiedo il perché di questa scelta.
“Non è stato facile dare al libro questa forma. Berta era molto restia a mettere per iscritto il suo pensiero e le sue proposte. Io le dicevo che non doveva farlo per se stessa, per diventare famosa”, ride, “o per lo stile letterario ma perché avevamo tutt* bisogno di questa riflessione politica, per poterla condividere con altre realtà di lotta in America Latina. All’epoca ancora non pensavo a diffonderlo in Europa né avevo idea che sarebbe stato tradotto in italiano. Però sapevo che le idee di Berta e il suo modo di porsi nei confronti della lotta erano importanti per i movimenti popolari in America. E così un po’ alla volta l’ho convinta.
Avevamo molte occasioni per trovarci e confrontarci per parlare sia di politica che di questioni personali, in primis perché eravamo molto amiche e poi perché i suoi due figli più giovani, Laura e Salvador, hanno vissuto qui con me in Argentina quando le minacce contro Berta divennero più intense. In tutte queste occasioni cercavo di registrare qualcosa e poi ho organizzato il materiale. Per me la cosa importante era che si conoscesse il pensiero di Berta, non la mia opinione su di lei.
Quello che mi tranquillizza molto è che tutta la prima parte del libro, che poi è il dialogo con lei, è riuscita a correggerla. Berta era molto esigente ed era sempre attentissima ad evitare visioni sessiste o razziste nelle sue comunicazioni. Per farti un esempio ogni documento del COPINH veniva letto da quindici persone, duecento volte, non dal punto di vista del contenuto ma proprio della forma, perché Berta non voleva assolutamente che ci fossero errori di questo tipo. In più in quello che diceva era molto precisa a mettere in luce le logiche del dominio, dell’egemonia delle imprese e in vincoli politici. Ci sono molti nomi propri degli impresari e delle persone del governo quindi per me era molto importante che lei potesse leggerlo per poter controllare tutti i dettagli.
È stata uccisa proprio mentre stavamo per andare in stampa. Per me è stata molto dura, il dolore e la rabbia mi hanno paralizzata e non sapevo se l’avrei pubblicato e in che modo perché la situazione ormai era diversa. Era necessario parlare dell’omicidio e non c’era più Berta per poter raccontare quello che stava succedendo.
Dovevo dire ancora qualcosa di lei però non volevo che fosse un’opinione personale. Così ho coinvolto altre persone che le stavano vicine. La seconda parte il libro tratta dell’omicidio e della lotta contro l’impunità attraverso le voci di due delle figlie, Bertita (oggi coordinatrice generale del COPINH) e Laurita Zuniga Càceres. In un dialogo tra di loro parlano di come il COPINH e la famiglia affrontarono la lotta per la giustizia contro l’impunità degli esecutori e dei mandanti.
Nella terza parte del libro, invece, ci sono le parole delle sue amiche. Berta coltivò sempre l’amicizia politica fra donne come un dato molto importante della sua personalità. Quando eravamo insieme in Honduras ci capitava di scherzare su questo, perché a volte passava a prenderci senza neanche dirci dove eravamo dirette, ci caricava in macchina e andavamo. C’era così tanta fiducia, così tanto affetto ed era bellissimo condividere questi viaggi che poi erano sempre occasioni per parlare e confrontarsi”, sorride. “Lei arrivava sempre accompagnata da questa quantità incredibile di donne che la circondavano. E anche quando non era possibile essere vicine fisicamente ci scrivevamo molto e ci sentivamo praticamente ogni giorno per confrontarci. Per questo ho deciso di chiedere alle amiche, alla figlie e ai figli che dessero il loro contributo portando il loro ricordo di Berta e la loro esperienza con lei”.
Questo forte legame che Berta coltivava con le altre donne, un’amicizia politica come la chiama Claudia Korol, mi ha sempre attratta, così come la sua visione ampia e internazionalista. Per Berta tutte le lotte erano importanti, e i legami che coltivava con l* compagn* vicin* a lei li estendeva anche fuori dai confini dell’Honduras. Da giovane aveva combattuto in El Salvador, con il Frente Farabundo Martí de Liberación Nacional, era solidale con la rivoluzione zapatista e coltivava il sogno di recarsi in Rojava, per conoscere da vicino la rivoluzione delle donne curde. Nel 2016, pochi mesi prima di essere uccisa era stata insignita del Goldman Environmental Prize, il premio internazionale più prestigioso per chi si occupa di ambientalismo e di diritti ambientali.
Nonostante questo respiro internazionale della sua lotta la mia impressione è che la figura di Berta Càceres non abbia ottenuto il risalto che meritava, soprattutto in Italia. Io stessa l’ho conosciuta grazie al lavoro di Capovolte, così ho chiesto a Ilaria Leccardi quali sono secondo lei i motivi per cui la storia e l’impegno di Berta sia passato così tanto in sordina.
“Abbiamo assistito a molti omicidi/femminicidi politici in questi ultimi anni”, mi spiega. “Alcuni di questi hanno coinvolte figure meno note ma che hanno avuto riscontro internazionale. Penso ad esempio a George Floyd, un omicidio terribile di una persona che non era conosciuta ma che, come altri omicidi a sfondo razziale, ha avuto un riscontro internazionale. Le battaglie portate avanti da donne come Marielle Franco o Berta Càceres non hanno avuto una risonanza così forte da perché sono nate in contesti spesso dimenticati. Questo lo noto quando si parla di femminismo nero. Djamila Ribeiro, ad esempio, porta avanti un lavoro enorme in un paese come il Brasile, che ha un peso internazionale e riscuote interesse, ma in quanto donna nera quella storia lì diventa solo un pezzettino quando raccontata nel nostro contesto. Questo vale sicuramente anche per Berta, che era una donna indigena e non aveva molti strumenti per farsi conoscere, al contrario ad esempio di Marielle aveva grande visibilità sui social. A livello internazionale credo che anche questo abbia pesato.
Detto questo, comunque anche qui da noi ci sono realtà attente a questi temi che hanno valorizzato molto il lavoro di queste figure. Penso a tutti i collettivi che sono nati a nome di queste donne, i murales che ogni tanto appaiono, le manifestazioni dove ci sono gli striscioni con i loro volti. Quantomeno nell’ambito dove c’è sensibilità a quei temi le loro figure emergono. Il problema è farle andare al di là del nostro contesto di riferimento.
Loro portavano avanti battaglie davvero trasversali, importanti non solo per le persone e le comunità che rappresentavano ma per tutte e tutti. Sono figure complete, in grado di dare una risposta al nostro presente, anche qui.
Io non sono una storica del femminismo, ma quello che vedo avendo studiato e approfondito le pensatrici è che il femminismo attuale non potrebbe che essere intersezionale, e in questa intersezionalità traina il femminismo nero e antirazzista. Non c’è più molto spazio per un femminismo bianco ed eurocentrico. Le battaglie partono da altri spazi ed è giusto che sia così. In Europa siamo testimoni di queste battaglie e possiamo contribuire a metterle in circolo perché abbiamo una storia a che ci permette di farlo, però non siamo più il centro del movimento e questa è una cosa bellissima, secondo me”.
L’importanza della diffusione delle parole e dell’esempio di Berta è una priorità per Claudia Korol, come ribadisce più volte durante l’intervista, per guidare la lotta di tutti i gruppi e le persone che si battono contro l’ingiustizia di un mondo governato da una visione profondamente patriarcale, capitalista e colonialista.
“Quando ho presentato il libro in Italia”, mi dice, “per me è stato molto importante vedere come le parole di Berta possono ispirare le compagne femministe, compagne e compagni ribelli che portano avanti la lotta quotidiana. Fino a questo momento ero più focalizzata su quello che le parole di Berta significavano per il nostro continente che soffre da sempre il colonialismo e lo sterminio dei popoli indigeni, quindi era naturale che le parole di una donna indigena avessero molta forza.
Per quanto riguarda il femminismo comunque, Berta non lo abbracciò da subito. Prima del golpe si era posta in una posizione critica perché vedeva il movimento più come un gruppo elitista. Fu solo dopo che si fece amiche nelle fila delle femministe honduregne, marciando insieme per le strade dopo il colpo di stato. In quel momento si crearono quei legami forti che portarono Berta a definirsi femminista e non vedere più il movimento come la proposta politica di un gruppo di donne bianche della città. Per lei era fondamentale che i femminismi internazionali fossero antirazzisti, anticolonialisti e anticapitalisti, che non si limitassero ad accettare di ottenere una fetta del potere di turno, ma che combattessero per rovesciare questo potere e costruirne uno dal basso. Io credo che in Europa e molti dei nostri Paesi anche a sinistra si creda che la rivoluzione appartenga ad un altro secolo”, fa un sorriso. “Ma per Berta era una vera e propria proposta politica perché non ci si può adattare a questo sistema così pieno di ingiustizie, un sistema che si macchia di tremende violenze. Per Berta la lotta per demilitarizzazione è sempre stata una priorità. Me la sono immaginata, le scorse settimane, cosa avrebbe detto se avesse ascoltato le dichiarazioni del vertice della NATO a Madrid e l’ampliamento dell’Alleanza in altri continenti. Sono sicura che starebbe alzando la voce, come femminista, come donna indigena e come donna rivoluzionaria di sinistra perché il popolo si opponga a questa logica così violenta di espansione mondiale attraverso la guerra.”
L’ultima domanda che rivolgo a tutte e due è qual è, secondo loro, la più grande eredità che ci lascia Berta Càceres.
“Sarebbe una domanda su cui ragionare su qualche ora”, scherza Ilaria Leccardi. “Comunque direi che è stata la sua forza di uscire dalla marginalità e dall’invisibilità. Durante il famoso discorso che fece sotto la grande quercia alla comunità che stava combattendo contro la costruzione della diga a Rio Blanco, disse che le comunità indigene sono state oppresse per più di 500 anni ma hanno ancora la forza, hanno il potere in mano, perché sono loro che abitano quei territori. Non sarebbe stato semplice. Berta sapeva che ci sarebbero stati attacchi, era perfettamente consapevole che era a rischio di essere ammazzata, ma è andata avanti lo stesso. Nel panorama geopolitico l’Honduras scompare, vittima di una forma di patriarcato e capitalismo fortissimi che hanno annientato qualsiasi potenzialità di rivolta nei decenni del secolo scorso, anche con la connivenza dei sindacati. Questo ha permesso una pseudo pacificazione sociale dove però le comunità indigene sono state completamente annullate.
La forza di Berta, ancora prima delle battaglie ambientaliste, è stata quella di dire “noi esistiamo”: ha organizzato marce per cui tutti i popoli indigeni dell’Honduras sono scesi in piazza, arrivando fino alla capitale, per dire “noi siamo qui e non siamo un pezzo folcloristico, siamo esseri umani”.
L’altra sua forza poi è stata quella di mettere in connessione tutte le lotte anti-patriarcali. Dentro lo stesso COPINH ha portato avanti una lotta grandissima contro il patriarcato, per i diritti delle donne e delle persone LGBTQIA+. Da questo punto di vista è stata davvero una pioniera. Il suo è stato un percorso lungo nel quale è stata capace di mettere insieme tante cose, tante lotte, tante istanze.”
Anche per Claudia Korol la domanda non è facile. “Non credo che sia possibile identificare la maggiore eredità di Berta, è più un congiunto di cose. Comunque se devo scegliere dico la pedagogia dell’esempio. Berta scendeva in strada, si metteva in gioco in prima persona. Per lei non c’era gerarchia nella lotta. Dopo il colpo di stato il popolo honduregno ha messo in atto una resistenza tremenda, ogni giorno sono scesi in strada per mesi contro gas lacrimogeni, bombe, proiettili. Un giorno la chiamo per chiederle di fare un comunicato radio raccontando quello che stava succedendo e mi dice che sono tutti davanti all’ambasciata del Cile. Avevano ucciso un fratello mapuche e lei aveva deciso di deviare un po’ la marcia generale e andare con il COPINH a chiedere conto al governo cileno di quella morte. Nei giorni confusi del colpo di stato occuparono anche l’ambasciata del Venezuela perché non venisse occupata dai militari. Un’altra volta mi avvisarono che l’avevano arrestata e così ho subito chiamato il commissariato dove era detenuta chiedendo di poter parlare con lei, ma mi dissero che non poteva venire al telefono perché era occupata con altri”. La sua espressione tradisce nostalgia. “Capisci, anche mentre era in prigione continuava a fare dichiarazioni e invitava i compagni e le compagne a scendere per strada. Niente la fermava, il suo livello di coinvolgimento era altissimo. Sapeva benissimo che avrebbero potuto ucciderla. Una volta ne abbiamo parlato e noi, sue amiche, le abbiamo chiesto che cosa sarebbe successo se l’avessero ammazzata. Lei ci ha guardate e ci ha detto: “Se mi ammazzano il popolo va avanti”.
Questa fiducia nel popolo io credo che sia fondamentale e mi emoziona perfino pensarlo” dice con le lacrime agli occhi, “perché è questa la giustizia per Berta, che il popolo Lenca sia riuscito a impedire la costruzione della diga e che il Rio Gualcarque continui a scorrere libero. Magari questa visione può sembrare romantica per una logica occidentale, ma il popolo va avanti, davvero. Questo è uno degli insegnamenti fondamentali che ci ha lasciato Berta”.
Un’eredità non sicuramente non facile da raccogliere, ma necessaria se vogliamo sperare di salvare l’ambiente e le persone che ci vivono e portare a termine, o almeno continuare, la lotta per cui questa donna così straordinaria non ha avuto esitazioni a dare la vita. Berta vive!