Negli ultimi due anni, l’antropologa ceca Zdenka Sokolíčková ha vissuto con la sua famiglia nella tundra artica norvegese, tra ghiacciai che si sciolgono e orsi polari alla fermata dell’autobus.
Là, mentre raccoglieva le testimonianze di più di duecento autoctoni, il marito biologo studiava i cicli stagionali dei batteri artici e i suoi tre figli giocavano tra melma e ghiaccio a 20 gradi sottozero.
Sopra il permafrost che si assottiglia della cittadina di Longyearbyen, cuore amministrativo dell’arcipelago delle Svalbard, Sokolíčková ha cercato di dissotterrare le narrazioni di quello che è il luogo più rappresentativo della crisi climatica e antropica contemporanea: una comunità in crisi circondata da una natura siderale in transito dove le fondamenta delle case affondano e l’inverno si accorcia.
Nelle terre emerse dell’Artico l’orologio climatico corre più veloce. Nelle Svalbard, le temperature si stanno innalzando sette volte più rapidamente che nel resto del mondo. Da anni la crisi climatica si è manifestata ai più di 2000 abitanti di Longyearbyen sotto forma di valanghe improvvise e acquazzoni che coprono l’aurora nella notte polare. Longyearbyen nasce come insediamento minerario agli inizi del ‘900: viene messa in piedi per ospitare le famiglie dei minatori a cinque km sud-est di un complesso di cave. È qua che risiede la sua prima identità: in memoria della polvere di carbone che si appiccica alle suole, ancora oggi ci si leva le scarpe prima di entrare in casa. Un’identità che viene ora messa in discussione: con le nuove strategie nazionali, il governo norvegese ha disposto la chiusura entro il 2023 della miniera ‘Gruve 7’, ultima cava norvegese attiva nell’arcipelago. Una scelta che aderisce ai piani del Paese – che sulle Svalbard detiene una sovranità soggetta però a restrizioni – di investire su turismo, ricerca ed esportazione di energia green. Così gli abitanti osservano mentre la storica miniera a carbone entra nel suo ultimo anno di vita. Intanto, in città aumentano i turisti. Longyearbyen fa parte di quei nuclei di sopravvivenza antropica dove la perseveranza umana è sfidata dalla ridefinizione dei confini naturali in mano alla crisi climatica.
Sokolíčková iniziò la sua ricerca sul campo partendo proprio dall’immagine di overherating che il collega e mentore norvegese Thomas Hylland Eriksen propose nel suo omonimo libro: una città vulnerabile, esposta alle intemperie climatiche dell’era moderna, sovraccaricata ulteriormente da terremoti identitari ed economici. È un caso studio perfetto per la comprensione degli impatti locali di un’economia della transizio- ne globalizzata; una sorta di modello in scala nelle mani dei ricercatori: una palla di vetro piena di neve dove ogni crisi si intensifica.