Huwwara è un villaggio palestinese come tanti in Cisgiordania, sulla via tra Ramallah e Nablus: case ancora con piani da aggiungere, negozi dalle insegne pop, bambini che trotterellano cartella di scuola in spalla per strade polverose. Huwwara però non è più un villaggio come tanti. Il 26 febbraio un palestinese ha ucciso due coloni, scatenando il feroce attacco di centinaia di altri coloni. Quella tra il 26 e il 27 febbraio 2023 è stata una lunga notte di violenza; decine di abitazioni e automobili incendiate, bestiame massacrato, un morto palestinese. Mentre i coloni agivano, l’esercito israeliano è rimasto inerte, lasciando loro libero corso d’azione.
Immagini e video di quelle ore terrificanti sono reperibili online. Qualcuno ha definito quanto accaduto come “pogrom”, riprendendo una parola estremamente sensibile per l’immaginario e la storia ebraica. Altri hanno prontamente rifiutato questa denominazione. Il fil rouge di questo dibattito – è stato o meno un evento isolato, un incidente sì deprecabile, ma causato solo da qualche testa calda? – fornisce una chiave di lettura importante per comprendere le dinamiche delle manifestazioni attualmente in corso in Israele contro il governo della destra nazionalista, suprematista e religiosa guidata da Benjamin Netanyahu e la riforma della giustizia da esso voluta, volta ad accrescere e accentrare il potere nella mani dell’esecutivo.
Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich – alleati di Netanyahu in questa coalizione e rispettivamente Ministri della Sicurezza Nazionale e delle Finanze – sono l’eccezione, l’anomalia, l’accidentale deviazione all’interno della società israeliana? Oppure la loro ascesa politica non è che il consolidamento di potere di un elemento strutturale a essa? Chiara Cruciati ha spiegato molto bene in un esaustivo articolo su The Jacobin le contraddizioni tra gli slogan della piazza israeliana che si mobilita per la democrazia – scomodando la Marianna sulle barricate di Delacroix – e l’occupazione dei territori palestinesi, ossia: il blocco militare della Striscia di Gaza che sta lentamente annientando l’anima di un milione e mezzo di persone; la discriminazione in termini di diritti, servizi e opportunità ai danni dei palestinesi di Gerusalemme Est e dei palestinesi di cittadinanza israeliana (i cosiddetti “arabi del ’48); il Muro di Separazione e il kafkiano sistema di permessi e checkpoint; la presenza appunto di oltre mezzo milione di coloni in Cisgiordania, illegale per il diritto internazionale. Se uno Stato produce tanta violenza nei confronti “dell’altro da sé”, come si considera la violenza che si genera all’interno dei confini che si è dato, chiede Alain Gresh su Orient XXI.
Ciò dice molto della scarna partecipazione palestinese alle proteste e dei limitati riferimenti all’occupazione e alla questione palestinese da parte dei manifestanti. Racconta parecchio anche delle ingenuamente gioiose reazioni alla decisione di Netanyahu del 27 marzo di rinviare di “almeno un mese” ogni decisione sulla riforma giudiziaria per negoziare con le opposizioni, accompagnata come moneta di scambio dalla concessione a Ben Gvir di formare una “Guardia Nazionale” che risponda ai suoi ordini. Siamo ancora nell’ambito della speculazione sugli scenari, ma sono forti i timori che questa milizia paraprivata possa essere utilizzata per perpetrare ulteriori violenze contro i palestinesi di Israele, Cisgiordania e Gerusalemme Est. Contro l’altro da sé.
La contraddizione tra democrazia e occupazione non è ovviamente questione recente, bensì intrinseca allo Stato di Israele e alla sua società. Gli ultimi anni l’hanno forse portata alla luce in maniera più evidente, sebbene sostanzialmente nell’indifferenza generale. La privatizzazione del sistema militare e di sicurezza israeliano non è cosa nuova, come bene documenta Shir Ever in “The Privatization of the Israeli Security”; solo che ora a inserirsi in questo quadro sono Ben Gvir – noto per avere il vezzo di brandire le armi con grande facilità– e i suoi sostenitori, galvanizzati dall’essere al potere e dal senso di impunità che viene esaltato dai loro leader politici. La legge anti-terrorismo del 2016 non è forse a detta di molti esperti così vaga nelle definizioni da rafforzare ulteriormente la discriminazione ai danni dei palestinesi a fini repressivi? La lista nera introdotta da Benny Ganzt – solo qualche anno fa baluardo dei valori democratici contro il corrotto Netanyahu – riguardante organizzazioni della società civile palestinesi di grande reputazione internazionale (Al-Haq, Addameer, Bisan, Union of Agricultural Workers’ Committee, Union of Palestinian Women’s Committees, Defence for Children International-Palestine) ha rappresentato un durissimo colpo per il lavoro di documentazione delle violazioni dei diritti umani e per la fornitura di servizi di base ai segmenti più vulnerabili della popolazione palestinese, criminalizzando il lavoro di queste ultime sulla base di presunte e mai provate accuse di affiliazioni terroristiche.
E ancora, non è forse la legge sullo Stato-Nazione del 2018 – la quale dichiara la natura ebraica di Israele – un grosso macigno sui principi democratici di base, sancendo e formalizzando essa una gerarchia etnica all’interno dello Stato? Allora Gideon Levy, firma di punta di Haaretz, salutò la legge come la caduta della maschera di ipocrisia sulla struttura politica e istituzionale israeliana, forse intimamente sperando in qualche sussulto di indignazione. Quattro anni dopo, il 2022 si è tristemente distinto per il maggior numero di morti palestinesi (inclusa la giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh) da parte di esercito e coloni dalla Seconda Intifada, mentre a fine marzo 2023 la conta delle vittime si attesta già a 87. Se si formalizza lo stato etnico, in fondo le dichiarazioni di Smotrich a negazione dell’esistenza del popolo palestinese o le sue invocazioni a “spazzare via Huwwara dalla faccia della Terra” non sono poi così eccezionali rispetto a un quadro narrativo e istituzionale costruito su principi razzisti.
Huwwara è dunque l’eccezione o l’espressione più feroce di un paradigma ben consolidato? Huwwara pone un quesito dirimente: a chi spetta il diritto – o forse si dovrebbe dire privilegio – di essere al sicuro? Huwwara domanda come ci si pone rispetto a terre e case confiscate o distrutte; alle punizioni collettive laddove in democrazia la responsabilità giuridica dovrebbe essere individuale; alla detenzione amministrativa, ossia senza accuse formali né tantomeno un processo. Huwwara chiede conto della paura di chi vive in prossimità delle colonie e sa che nessuno lo proteggerà da attacchi e aggressioni; dei giovani uomini palestinesi arrestati, perquisiti e umiliati per le strade della Città Vecchia di Gerusalemme mentre i turisti scattano foto e contrattano il prezzo dei souvenir; dell’angoscia di madri e padri che non sanno cosa possa accadere ai loro figli quando sono fuori casa.
Questa è la quotidianità che si vive e osserva regolarmente. Raccontarla non è un atto di parzialità ideologizzata, ma di doverosa restituzione della reale brutalità di questa terra. Porsi delle domande è forse l’unica strada possibile di questi tempi per onorare i valori democratici di cui tanto si parla.
Huwwara, nel frattempo, è ancora sotto blocco militare.