Indipendentemente dall’intenzione con cui viene pronunciata, la parola “migrante” rischia di imprimersi come un’etichetta che cristallizza l’identità del soggetto, oscurandone la complessità. Occorre mettere al centro il concetto di “persona”, per agevolare l’inclusione sociale
Nella società dell’informazione, la sensibilità verso le parole che usiamo è in costante aumento. Questo perché è ormai chiaro a tutti e a tutte che l’inclusione sociale passa anche attraverso il linguaggio che utilizziamo. Il lessico e le semantiche veicolate dai discorsi hanno il potere di informare la società – letteralmente “dare forma” alla società – con conseguenze concrete sul modo in cui gli individui si percepiscono e si relazionano gli uni rispetto agli altri. Molte parole, infatti, sono dotate di un potere categorizzante, sono etichette che contengono una definizione. E come tale, una de-finizione ha il potere di de-finire la realtà, cioè è in grado di porre un limite, di esaurire la possibilità che il soggetto nominato sia visto e pensato come altro da ciò che l’etichetta designa.
Nonostante i numerosi progressi in termini di “bonifica” del linguaggio avvenuti negli ultimi anni in vari ambiti, c’è un contesto dove, mediamente parlando, sembra esserci ancora una certa disattenzione verso le conseguenze del suddetto processo: il discorso sulle migrazioni. Prendiamo, per esempio, il caso della parola “migrante”. Apparentemente questa sembra essere del tutto innocua. E anzi, probabilmente se ne rivendica perfino una certa rispettosità in luogo di altre parole che prestano il fianco a possibili connotazioni dispregiative. Si dirà che il suo carattere neutrale deriva dall’essere un termine primariamente tecnico, un vocabolo che concerne lo studio scientifico dei fenomeni migratori. E si sottolineerà che è solo in un secondo momento che la parola “migrante” assume connotazioni politiche, a seconda del pregiudizio ideologico di chi osserva – pregiudizio che, beninteso, può essere tanto negativo quanto positivo.
In realtà, sociologicamente parlando, le cose non stanno esattamente così. Per quanto la sociologia stessa, così come tutte le altre scienze sociali, sia in qualche modo corresponsabile dello sdoganamento della parola “migrante” nel discorso pubblico, la disciplina annovera nella sua cassetta degli attrezzi sufficienti strumenti per riflettere sulla conseguenza inattesa dell’uso reiterato del termine “migrante” nei confronti di una persona. Questo effetto emergente, non previsto e non voluto, non riguarda tanto l’uso che di una parola si fa, ovvero l’intenzione con cui la si pronuncia, quanto il fatto stesso che venga usata e basta, indipendentemente dallo scopo con cui la si evoca.
Il risultato è quello della cristallizzazione di un tratto identitario specifico – l’essere migrante – che finisce per sovrapporsi all’intera identità della persona verso cui la parola “migrante” è rivolta. Identità che è ovviamente molto più ampia e diversificata, in quanto il vissuto migratorio di un individuo, per quanto rilevante e determinante, non è che una parte di un tutto molto più sfaccettato e complesso.
In sostanza, è come se la parola “migrante” possedesse una proprietà stigmatizzante di carattere neutro – ma per quanto neutro, comunque stigmatizzante – con cui viene fissata in figura una sola caratteristica identitaria – l’essere migrante, appunto – relegando tutte le altre perennemente sullo sfondo.
In termini di inclusione sociale, infatti, occorre domandarsi: come potrà mai un “migrante” essere e sentirsi pienamente incluso e integrato nel Paese d’arrivo nel quale vuole insediarsi se, riferendosi a lui quotidianamente con questo termine – nelle conversazioni e nelle istituzioni, nei media e nelle organizzazioni – viene costantemente e implicitamente ribadita la sua alterità ed estraneità rispetto al contesto? Come potrà mai un “migrante” farsi conoscere e apprezzare per le sue molteplici caratteristiche se viene continuamente attenzionato da chi lo circonda soltanto per una e una soltanto di queste caratteristiche?
Per uscire da questa trappola, dentro alla quale finiamo inconsapevolmente tutti e tutte, anche gli individui animati dalle migliori intenzioni, occorre dare centralità al concetto di “persona”. Si tratta, in altre parole, di applicare in questo contesto i progressi lessicali già fatti altrove, in un’altra tipologia di discorso, quello sulla disabilità, dove le semantiche dell’inclusività impongono di non usare il termine “disabile” come sostantivo – nonostante la sua apparente neutralità tecnica – ma bensì l’espressione “persona con disabilità”. Restituendo centralità nelle narrazioni al concetto di “persona”, si capacitano le persone stesse senza privilegiare un loro tratto identitario specifico, facilitandone così l’autodeterminazione, nonché la completa fioritura del Sé.
Evitare la parola “migrante” come sostantivo, e preferire un’altra espressione più inclusiva, come per esempio quella di “persona con vissuto migratorio”, significa allargare l’orizzonte del possibile, agevolando il processo di inclusione mediate un atto linguistico dal valore simultaneamente sociale e politico.
Certo, si potrebbe obiettare che, nonostante l’apparente conquista, in fondo anche l’espressione “persona con vissuto migratorio” potrebbe rivelarsi a lungo andare un’etichetta: la cristallizzazione esce dalla porta per rientrare dalla finestra. Pertanto, quando possibile, la scelta più inclusiva e rispettosa è sempre quella di rivolgersi agli altri semplicemente come “persone” e basta, chiamandole con il proprio nome: non per forza quello anagrafico, ma quello con cui desiderano essere chiamate.