Di chi è la colpa della violenza? Si può risalire a un atto originario che ha generato la brutalità che imperversa in una terra? Oppure è un ribollire continuo, che macera, monta, penetra ogni interstizio, avvelena nel profondo dei cuori?
L’operazione militare di Hamas e del suo braccio armato, le Brigate al-Qassam, del 7 ottobre 2023 ha gelato tutti nel cinquantesimo anniversario della Guerra dello Yom Kippur. Ha colto di sorpresa il sistema di intelligence israeliano e ha sconvolto per le modalità senza precedenti e per l’orribile bilancio tra vittime (nel pomeriggio dell’8 ottobre i giornali riportano circa 600 morti), feriti e ostaggi. Il governo israeliano ha già annunciato che la risposta sarà durissima e i bombardamenti su Gaza delle prime 24 ore hanno ucciso circa 450 persone (i feriti sono oltre 2000), mentre la fornitura di elettricità e acqua è stata tagliata.
“Siamo in guerra”, ha dichiarato Netanyahu, ma la realtà è che la guerra in questa terra dura almeno dalla nakba del 1948. Christian Elia ha tratteggiato un esaustivo quadro della situazione per il podcast Qontesto di Q Code Mag perché, sebbene nel cordoglio e nel pudore di fronte alla sofferenza di questi giorni, guardare alla lunga durata di questo conflitto e alla ferocia della sua quotidianità è necessario per comprendere la brutalità di tutti i suoi aspetti. Non per tifoseria, ma per pieno senso di giustizia nei confronti di tutte le vittime.
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Di questa terra si parla molto, eppure comprendere l’occupazione israeliana della Palestina nei suoi dettagli è un esercizio complesso che richiede tempo, dedizione ed esperienza. Solo con occhi e orecchie aperte si può provare a conoscere la kafkiana oppressione burocratica dei permessi cui i palestinesi sono sottoposti, la discriminazione economica, l’emarginazione, la vulnerabilità di fronte all’arbitrio del potere. È con dolore che ci troviamo a constatare impotenti – noi osservatori esterni, residenti temporanei che attraversiamo questo territorio così sciagurato – la rabbia e la frustrazione che montano fra i colonizzati.
Ne è forse un buon esempio la bambina del documentario Jenin, Jenin (2002, in piena Seconda Intifada) di Mohammed Bakri (per altro il campo profughi di Jenin è stato oggetto di una massiccia operazione militare nel luglio di quest’anno): da un parte è impossibile non tremare di fronte alla rabbia di questa piccola circondata da macerie, dall’altra è amaro domandarsi in che senso possa indirizzarsi una simile ira, specialmente quando l’organizzazione politica del dissenso e della resistenza in forme non armate è sistematicamente perseguitata e repressa.
Si potrebbe parlare di Gerusalemme Est, della Cisgiordania, dei campi profughi e via elencando, arrivando fino ai cosiddetti arabi del 1948 – palestinesi con cittadinanza israeliana – anche loro vittime di discriminazione, come gli scontri della primavera del 2021 in città come Lod ci hanno mostrato. Questa volta i riflettori tornano sulla Striscia di Gaza, la “roccaforte di Hamas”, la cui popolazione vive dal 2007 sotto blocco terrestre, aereo e navale. Gaza è una prigione malsana, abitata da persone traumatizzate da condizioni di vita lontane dagli standard minimi di dignità e dai tanti bombardamenti che l’hanno colpita negli anni.
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Gaza può affascinare teneramente per la bellezza dei suoi tramonti sul mare e la generosità della sua gente, ma appena si distoglie lo sguardo dalla spiaggia non si possono non percepire la rabbia e la morte. Gli edifici distrutti o danneggiati, gli sguardi spenti, le celebrazioni delle persone decedute nei bombardamenti, i racconti di persone segnate da sciagure, malate o rese permanentemente invalide, morte perché il permesso per uscire e ricevere cure mediche adeguate non è mai arrivato.
Hamas può essere, a Gaza come in Cisgiordania, il contenitore adatto all’espressione della rabbia di fronte all’occupazione e alla corruzione dell’Autorità Palestinese, che tradizionalmente agisce da contractor per Israele in ambito di repressione del dissenso (si consultino per riferimento questo articolo del Wall Street Journal e questo episodio del podcast Rethinking Palestine). È doveroso tuttavia evidenziare come gran parte della popolazione palestinese non possa essere identificata con Hamas, a cominciare da quella della Striscia di Gaza, profondamente scontenta della gestione autoritaria, delle forme religiose più oscurantiste e violente e stanca di balzelli e gabelle imposti per fare cassa di fronte a una situazione economica di strutturale povertà e disuguaglianza. È doveroso riportare dal campo come gran parte della popolazione palestinese sia rimasta sconvolta dall’operazione del 7 ottobre, perché non è questa la forma di resistenza che appartiene loro.
In questo delicatissimo discorso, ci si chiede quale sarà la risposta di Israele e quante persone innocenti pagheranno il prezzo di una modalità di resistenza che non hanno scelto. Il governo di Netanyahu in coalizione con oltranzisti religioso-nazionalisti quali Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich deve agire in maniera esemplare per fare dimenticare il colossale flop del 7 ottobre. Questo fallimento si potrebbe anche spiegare con la progressiva privatizzazione del sistema israeliano tra compagnie private e consulenti, che si intreccia con la formazione di milizie spesso vicine ad ambienti coloni (come la Guardia Nazionale voluta da Ben Gvir) e non sempre accettate dall’establishment militare; a ciò si aggiungono interessi finanziari e big tech che gravitano intorno alle commesse di Stato.
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Per chi conosce la realtà di questa terra, non è raro osservare – a cominciare da Eretz, l’ingresso settentrionale per Gaza, controllato da Israele – un evidente dualismo tra sofisticati e costosissimi dispositivi di sicurezza e sorveglianza e pratiche burocratiche confuse e inefficienti. Leggendo i lavori di Shir Ever o Jeff Halper, per citarne solo alcuni, non sorprende del tutto che qualcosa si possa essere inceppato nella catena di comando e nel flusso di informazioni e processi.
La stessa opposizione di Yair Lapid e Benny Gantz (quest’ultimo notoriamente mai tenero sulla politica militare verso Gaza) non può che richiedere un’operazione senza sconti. Ciò per altro potrebbe portare a una ricomposizione delle alleanze di governo e distogliere l’attenzione dalla riforma della giustizia voluta da Netanyahu e dai suoi alleati, fortemente criticata in Israele e oggetto di ricorrenti e importanti manifestazioni.
Come collocarsi in tutto questo orrore? Approfondendo lo sguardo storico, allargandolo a tutte le vittime e chiedendo soluzioni politiche che provino, quantomeno provino, a ripristinare i più basilari principi dello stato di diritto, a raddrizzare l’ingiustizia storica che ha generato quello che documentati studi non esitano a definire un “sistema di apartheid”.
Per un osservatore ignaro del quadro completo è forse più immediato identificarsi con una persona la cui vita tranquilla viene sconvolta dalla violenza rispetto a qualche “dannato della terra” la cui esistenza, inclusa quella della sua comunità, è un continuo susseguirsi di soprusi. Eppure è proprio da questi sistematici soprusi che dovrebbe cominciare – di nuovo, senza tifoserie né gerarchie – l’indignazione democratica.