La disciplina che studia Cecilia ha a che fare con il rapporto tra gli organismi che vivono in mare e le dinamiche dell’ambiente marino. Nel suo caso specifico di interesse, anche con le dinamiche antropiche apportate dal sistema pesca.
Cecilia ha studiato biologia all’Università di Genova, successivamente ha fatto un master in Ecologia della pesca, ad Aberdeen, città in cui si è anche dottorata in Ecologia marina. Ha lavorato poi in Francia a Boulogne-sure-mer presso Ifremer e al JRC ad Ispra per la Commissione europea. Da qualche anno è ritornata in città ed è assegnista di ricerca presso l’Università di Genova.
Ha iniziato a studiare questa disciplina perché voleva studiare il mare e quello che esso conteneva, scoperta la possibilità di andarne a capire le dinamiche interne ha deciso di intraprendere un lungo percorso di studi, “poi come spesso succede sono finita a lavorare in quello che mi ero detta essere l’argomento che non mi interessava e invece ho scoperto che mi interessava molto”.
Una parte del suo lavoro consiste nell’uscire in barca e andare in mare con i pescatori per effettuare la ricerca sul campo e osservare così “quello che viene pescato, per cercare di capire come lo pescano, studiando sia l’attrezzo, sia le tecniche di pesca che gli organismi pescati”. La seconda parte invece si svolge in laboratorio, luogo in cui si analizzano i campioni raccolti sul campo, “osservando, tra le altre cose, i contenuti stomacali per poi raccogliere informazioni sulle catene trofiche nei rapporti tra prede e predatori”. In particolare, Cecilia si occupa “di usare questi dati raccolti sul campo per cercare di comprendere quali siano le dinamiche delle popolazioni a mare, e come su queste dinamiche va ad impattare lo sforzo di pesca”. Il prezioso lavoro di Cecilia contribuisce a determinare la sostenibilità ambientale e socio-economica della pesca a seconda della specie, andando a ricercare l’equilibrio tra l’azione antropica e la tutela della riproduzione in mare.
Questa chiacchierata la stiamo facendo all’aperto, su un bellissimo terrazzo da cui si vede buona parte del centro storico di Genova. È già autunno, ma fa ancora caldo, siamo in maglietta e il sole del tramonto scalda. Prendo l’occasione per parlare del riscaldamento globale e del conseguente cambiamento climatico che sta interessando a livello planetario anche il mare e in particolar modo il Mediterraneo. Questa estate la temperatura dell’acqua nel mar Ligure era di 29°, sembrava di fare il bagno nel brodo, anche per via della viscosità e della salinità dell’acqua.
“Diventa molto più difficile capire quale sarà l’effetto di un potenziale riscaldamento per le specie che studio io, cioè pesci e crostacei di profondità. Per adesso, si ritiene che le specie che vivono a profondità maggiori non stiano subendo l’effetto del riscaldamento globale.
Ad esempio, nel Mediterraneo e in Liguria, due delle specie più importanti fra le risorse ittiche sono il gambero viola e il gambero rosso che vivono intorno ai 600 metri, fra i 300 fino agli 800-1000 metri di profondità. L’acqua nel Mediterraneo a quelle profondità è costantemente attorno ai 13 gradi; quindi, anche quando si rompe il termoclino non sono zone che subiscono una variazione stagionale particolarmente alta. È difficile trovare delle correlazioni anche perché i dati che abbiamo a disposizione sono soprattutto quelli della temperatura superficiale. Sicuramente una cosa che sappiamo è che nel Mediterraneo ci sono specie cosiddette affini alle acque fredde, ad esempio il nasello, e specie che invece sono più affini alle acque calde, ad esempio la triglia. Quello che stiamo osservando nel Mediterraneo è che ci sono specie che nonostante lo sfruttamento stanno esplodendo e si stanno ripopolando anche dopo lo sforzo di pesca. Tra queste specie c’è proprio la triglia, la cui esplosione è stata talmente forte in alcune zone che una delle tante spiegazioni date è che potrebbe essere proprio la sua affinità all’aumento delle temperature ad averne determinato l’espansione. Questi sono comunque meccanismi che avvengono in modo dilatato nel tempo, quindi bisogna anche avere delle serie temporali di dati molto lunghe che purtroppo nel Mediterraneo tendono a scarseggiare rispetto ad altre zone del mondo. Diventa così ancora più complesso riuscire a discernere quale sia il fenomeno che determina l’andamento in maniera principale rispetto a tutti gli altri fenomeni”.
Per fare ricerca e studiare il mare in Italia, Cecilia ha a che fare con il mondo accademico, nel suo caso l’Università di Genova, in un costante rapporto di mediazione e di gestione dei rapporti di forza e potere. Un mondo lavorativo che ripropone le note dinamiche che caratterizzano chi, nel nostro paese, sceglie di lavorare nell’ambito della ricerca e della produzione di saperi e conoscenze. È infatti questo un settore caratterizzato da precarietà lavorativa, mancanza di risorse e clientelismo:
“Nel mio rapporto con il mare c’è un grosso scoglio che è il mio rapporto con il mondo accademico. Da un punto di vista lavorativo è regolamentato da contratti sottopagati e precari stipulati in un ambiente profondamente clientelare, soprattutto qua in Italia e soprattutto a Genova, dal quale però con l’esperienza riesco a mantenere una certa distanza. Vivo poi questo mondo accademico con una grande contraddizione. Da un lato è un mondo che trovo profondamente astratto rispetto a quello che a me interessa, che invece è il mondo legato alla gestione delle risorse che vengono dal mare, dall’altro è un mondo che allo stesso tempo mi permette di fare ricerca, che è una delle parti più affascinanti di questo mestiere”.
Chi lavora quotidianamente con il mare come Cecilia, ha con quest’ultimo un rapporto mai scontato e mai banale. Per avere la costanza di continuare un percorso di studi e ricerca così complesso e precario, si deve nutrire verso l’ambiente marino un costante stato di curiosità. “Il mio rapporto con il mare è un rapporto molto intimo, è un ambiente nel quale sono cresciuta anche grazie ai miei genitori. Mia madre è quella che mi ha insegnato a nuotare e a godere del mare in quanto presenza esterna e mio padre è quello che mi ha insegnato ad andare sott’acqua. È un ambiente nel quale fin da piccola mi trovavo fondamentalmente a mio agio, mi piaceva molto stare sott’acqua, mi piaceva molto pescare e mi piaceva osservare il mare. Una passione intima un po’ generalizzata, che poi ho deciso di approfondire tramite lo studio. Adesso il mio rapporto con il mare, con il fatto che ci lavoro, è diventato un rapporto di grande attrazione, di desiderio di comprenderlo e di consapevolezza del fatto che il mare appartiene solo a se stesso”.
Un’ultima cosa che chiedo a Cecilia è un po’ di aneddotica sulle cose più impressionanti che ha visto in mare e che il mare le ha regalato. A parte i delfini che vede ogni volta che esce sulle barche dei pescatori (“i pescatori li odiano ma sanno che a noi biologi piacciono quindi ce li fanno guardare”), una cosa che non dimenticherà mai “sono le masse di pesce che si possono incontrare quando si va a pescare, mi ricordo questa onda blu che era composta da tonnellate di sgombri, alternata all’onda rossa che invece era una marea gigante di pesci tamburo. Il mare ti regala sempre una sorpresa perché non sai mai quello che verrà su, ma ti regala però anche momenti molto tristi quando vedi le reti vuote. Una volta ho visto uno squalo elefante che è venuto su con le reti in Francia e l’abbiamo subito ributtato in mare”. Sempre a proposito di squali mi racconta come una volta, in Scozia, mentre lavorava su una nave oceanografica, i pescatori non si erano accorti che nella rete era finito uno squalo capopiatto di tre metri. Quando è arrivato nella camera di lavoro dei biologi, si sono ritrovati una bestia enorme sul nastro che trasporta il pescato. Sono tutti rimasti paralizzati e non sapevano che fare, lo avrebbero voluto solamente ributtare in mare prima che cominciasse a dimenarsi. Ma lei, lestissima, è comunque riuscita a prelevare un campione di materiale genetico. Del resto si sa, la ricerca non è solo accademia, è necessario anche saper cogliere l’attimo.