E’ da qualche anno oramai che assistiamo ad una finalmente intensa attenzione al tema della decolonizzazione culturale, e dunque alla decolonizzazione museale. I rinnovati allestimenti nei musei, le polemiche sulla restituzione delle opere e la consapevolezza di una narrazione distorta propinata negli anni dai colonizzatori sono il riflesso di una società in mutamento, la cui epifania sono i movimenti sociali, uno su tutti il celebre “black lives matter”.
Il tema però, non solo è un tema politico e sociale profondamente radicato nelle nostre coscienze, ma mette in luce tutte le contraddizioni di una narrazione ancora molto lontana dal trovare una sua soluzione.
I musei, nella loro funzione di racconto della memoria non fanno eccezione ed anzi sono lo specchio perfetto di una società ancora fortemente divisa tra colonizzati e colonizzatori, tra partigiani e terroristi, in cui questi titoli tendono a confondersi e sovrapporsi a seconda della narrazione scelta.
Lungi dall’essere dunque luoghi lontani dal dibattito, i musei, più o meno consapevolmente, giocano un ruolo chiave nella presa di posizione sul tema da parte di governi e società civile, ne sono cartine di tornasole e sono luoghi nei quali viene attuata una precisa scelta su ciò che sia conveniente o funzionale da raccontare in termini politici, sociali, religiosi.
Questo articolo, tramite alcuni esempi, cerca di raccontare il ruolo ancora fondamentale che l’istituzione museale ha nel formare coscienze e nazioni, e di come sia necessario capirne i meccanismi per essere in grado di progettare musei capaci di decolonizzare il nostro pensiero e il nostro sguardo.
Tra i molti temi che anche i musei trattano è interessante capire il rapporto tra l’istituzione museale e una delle parole più in voga dai tragici accadimenti dell’11 settembre: il terrorismo.
Partiamo dall’esempio del National Museun of struggle di Nicosia, Cipro.
Secondo le tesi di Gabriel Koureas, che ricorda la sua esperienza da bambino e di come la popolazione vivesse il giorno della commemorazione della battaglia per rovesciare il colonialismo britannico a Cipro, avvenuta il 1 aprile 1955, il museo era nato con l’intento di mettere in luce non solo la rinnovata consapevolezza post-coloniale del popolo greco-cipriota, ma, ancor di più, per la costruzione di un’immagine vittoriosa di mascolinità greco-cipriota. Nicosia, la capitale di Cipro, è divisa da un confine controllato militarmente, che separa la comunità parlante turco, al nord, da quella greca al sud.
La città è piena di conflitti etnici che hanno lasciato ferite aperte: una lunga storia di conflitti e colonizzazioni, dal tempo degli achei fino alla conquista di Venezia e poi britannica, per affrancarsi nel 1960, ma seguita da anni di conflitti etnici fino ad arrivare alla divisione dell’isola nel 1974. Il museo, l’ Ethniko Mousio Agonos, nel commemorare i quattro anni di battaglia per ottenere l’indipendenza dal colonizzatore britannico, ottempera anche ad una necessità politica ben più attuale, riconoscere i turchi come collaborazionisti del colonizzatore (erano turchi ciprioti infatti i sergenti presi dai britannici per controllare le rivolte) e rinsaldare la coscienza nazionale greco-cipriota contro il nemico odierno. Ciò che risulta di grande interesse all’interno della narrazione del Museo è il ruolo dei “terroristi”.
Le autorità coloniali infatti erano state molto solerti a dipingere i combattenti greco-ciprioti come terroristi, la terminologia già allora risultava di enorme importanza, poiché come disse lo stesso Colonial Office, il termine “fuorilegge” con il quale erano stati designati all’inizio gli oppositori del colonialismo britannico, suonava troppo romantico, con il termine “terroristi” si poneva l’accento sull’orrore e sul terrore che l’EOKA (Organizzazione Nazionale dei Combattenti ciprioti) stava cercando di portare su tutta l’Isola.
E’ il Daily Express del Maggio 1956 a definirli “una brutale banda di terroristi” mentre lo stesso giornale definisce i soldati inglesi come “uomini della porta accanto”.
Il Museo, nella sua narrazione, non dimentica questo passaggio, ma anzi focalizza la nostra attenzione proprio su questo capolavoro semantico nel quale oppressi e oppressori si confondono, alimentando l’idea estremamente occidentale e purtroppo estremamente attuale di un popolo che va a portare democrazia e superiorità intellettuale in una terra di barbari, di terroristi appunto.
E il Museo, divenuto invece mezzo di ricordo ma anche di propaganda per una battaglia del presente, ritorna su questi temi ricordando proprio nelle sue sale l’origine eroica di quei combattenti, riportandoci alla mente le battaglie di Maratona e di Salamina, esaltando i greci e soprattutto esaltando il valore della lotta e della battaglia come unico mezzo per ottenere la libertà “freedom is only achieved only throuh BLOOD” questa la dichiarazione del generale Dighenis riportata nelle sale espositive, nonchè il motto dei volantini, esposti anch’essi nel museo, con i quali l’EOKA contrastava la propaganda britannica. Il museo mostra in sequenza gli eroi (prima terroristi, poi patrioti) i loro busti, i loro volti, rinsaldando la coscienza nazionale e riportando all’attualità il messaggio di lotta per l’indipendenza e la libertà, capovolgendo semanticamente la propaganda dell’invasore.
Ricordiamo, in questa sede, che soltanto nel 2012 ci fu l’ammissione da parte del governo britannico dei suoi crimini di guerra a Cipro. L’EOKA, inoltre, non aveva tardato nel fare una similitudine con l’olocausto per la gravità dei crimini e delle atrocità commesse dagli inglesi “ma tutte queste azioni non sono chiamate violenza ma civilizzazione inglese” come ebbe modo di dire il generale Dighenis e come ricordano i pannelli del Museo.
Il percorso espositivo è toccante, mette al centro i volti dei partigiani/terroristi, è la loro esaltazione che sta a cuore, un’esaltazione, come già detto, molto lontana da un’analisi asettica delle circostanze, ma che anzi mira a far sentire ciascun visitatore come un greco-cipriota, un greco cipriota che ha saputo combattere per le sue libertà, esaltando gli aspetti di nazionalismo e di machismo.
Ma questo approccio, che per alcuni tecnici potrebbe risultare tipico di una certa parte di mondo, dimostrando ancora una volta i nostri preconcetti coloniali, non è nulla di dissimile rispetto al concetto che sta alla base della recente comunicazione, da parte del Presidente Macron, della scelta di prevedere la costruzione di un museo memoriale dedicato alle vittime francesi del terrorismo dal 1974 ai giorni nostri, in particolare, “il luogo”, come si legge su “Le Monde”, “dovrà mettere in primo piano la capacità di resilienza e resistenza del popolo francese, e tratterà le diverse forme di terrorismo, da quello anarchico, indipendentista, a quello nazionalista, fino a quello jihadista, dei quali il popolo francese è stata vittima” I curatori già si interrogano su ciò che dovrà contenere un museo di questo tipo.
Come riporta sempre “Le Monde”, si è deciso di non dare spazio agli attentatori, per evitare di creare una sorta di mito, bensì di dare risalto alle vittime, ai soccorritori, a coloro che hanno aiutato in prima linea. L’operazione è quella di rinsaldare un patto comunitario dai forti risvolti nazionalisti, in piena Europa come a Nicosia, quella di stringersi contro un nemico comune, rinsaldando i valori nazionalistici del popolo francese, valori politici (i terroristi sono nazionalisti, anarchici, indipendentisti), e valori culturali (i terroristi sono jiadhisti).
I musei sono ancora la cartina di tornasole di conti che riusciamo a fare con difficoltà con il nostro passato più lontano e che non riusciamo a fare per nulla con il nostro passato più prossimo. Se, come spesso ricorda lo storico Alessandro Barbero, il dovere dello storico è quello di analizzare con esattezza come si sentivano le vittime di guerre e terrorismo ma allo stesso tempo di analizzare con la stessa cura la cultura, il background sociale e le ragioni dei carnefici, ci risulta chiaro come anche il museo parigino che aprirà nel 2022, porterà con sé la macchia d’origine del non poter raccontare una storia nella sua essenza, ma di riuscire a farlo con i soli occhi del proponente, il cui messaggio risulta un messaggio di imposizione culturale, sociale e politica.
Non si può non fare riferimento, trattando questi temi, al racconto culturale che avviene in Israele e in Palestina. Nel primo caso, la scelta di Israele è stata quella di non dare alcun peso all’esistenza della Palestina.
Anche in termini culturali questa cancellazione totale è ben visibile se analizziamo ciò che avviene nei percorsi archeologici realizzati dallo Stato Ebraico al di sotto di Gerusalemme: ai visitatori dei luoghi archeologici accompagnati nelle viscere della città di Gerusalemme viene raccontato che gli scavi sono esclusivamente relativi alla storia ebraica, ignorando i diversi capitoli multiculturali della storia della città come i periodi bizantino e omayyade. Secondo Emek Shaveh, archeologo israeliano, “presso i famosi tunnel del Muro del Pianto resti di periodi non relativi alla storia ebraica rimangono per lo più ignorati dai visitatori, nonostante gli archeologi concordino sul fatto che la maggior parte dei reperti sia successiva alla distruzione del Secondo Tempio” In realtà la maggior parte degli scavi presso i tunnel del Muro del Pianto sono al di sotto di strati che sono totalmente musulmani, strutture dei Mamelucchi del XIV e XV secolo.
Uno degli spazi più vasti scavati nei tunnel del Muro del Pianto è un hammam (bagno turco) del periodo mamelucco, del XIV secolo, ma nessuno delle centinaia di migliaia di turisti venuti coi bus saprà della sua esistenza e della sua storia, è stato convertito in un’esposizione dell’eredità ebraica, dedicato a raccontare la storia del pellegrinaggio degli ebrei a Gerusalemme, “ignorando quindi completamente il significato storico del sito in cui si trova”, come sottolinea l’archeologo Emek Shaveh. Una cancellazione storica specchio della cancellazione politica e sociale di una comunità.
Dall’altra parte del muro è interessante prendere in esame il Museo Yasser Arafat a Ramallah, un museo mausoleo interamente dedicato alla figura di Yasser Arafat. In questo caso i toni ci riportano alla mente il già citato museo di Nicosia e puntano fortemente a radicare la storia del leader politico all’interno di una narrazione nazionalista in grado di rinvigorire e rinsaldare il nazionalismo palestinese: nelle vetrine si susseguono le fotografie della Palestina sotto il Governo britannico, con un’ insistenza spasmodica nel documentare ogni pezzo di storia nel quale sia comparsa quella parola: Palestina.
Tombini, francobolli, manifesti turistici, fino ad arrivare alla copia della dichiarazione di Balfour, da cui ebbe inizio la divisione della Terra, sono minuziosamente raccontate le stragi, i soprusi subiti, e anche in questo caso, come a Nicosia, la lotta, il sangue.
La figura di Arafat spicca come un guerriero per la libertà, mentre viene contestata con forza l’accusa di terrorismo. Il visitatore, qui, a differenza di Nicosia, è portato tra i corridoi del museo in un percorso che raramente risulta fazioso, la scelta dell’allestimento in bianco e nero, estremamente sobria, con piccole note di colore e molti oggetti accompagna per mano il visitatore perché non si distragga, in modo da non perdersi nemmeno un pezzo di quella storia; ogni pannello è propedeutico al successivo, ogni documento rivendica con attenzione una identità fiera.
In questo caso il processo è quello inverso rispetto a quello israeliano, l’insistenza identitaria per contrastare l’oblio e la rivendicazione della lotta per conquistare la libertà.
Nella narrazione storica come in quella museale, fatti sui quali la società attuale risulta ancora emotivamente coinvolta, sono trattati dunque solo parzialmente, i terroristi diventano patrioti con i cambi di governo e i patrioti a loro volta si trasformano in terroristi con la stessa facilità.
A chi si occupa dell’ analisi di questi fenomeni, e analizza la fruizione museale come strumento didattico per la cittadinanza, preme sottolineare lo stato delle cose, perché la professione richiederebbe una capacità di analisi capace di distaccarsi dai giudizi personali e in grado di raccontare un pluralismo che non siamo ancora in grado di concretizzare nelle scelte curatoriali e museali.
I musei, dunque, lungi dall’essere luoghi polverosi e stantii, sono i luoghi della memoria, della costruzione della memoria collettiva e della consapevolezza sociale di quella memoria, divengono spesso strumento per crearla, e finiscono essi stessi per essere vittime di una visione ancora ben lontana da un principio di decolonizzazione che sarebbe fondamentale: la decolonizzazione del pensiero.