La versione originale dell’articolo di Devin Atallah e Sarah Ihmoud* è stata pubblicata su The Massachusetts Review. La traduzione in italiano è a cura di Federica Cavazzoni.
A Rafah, dove due terzi della popolazione della assediata Striscia di Gaza è stata sfollata con la forza – più di un milione e mezzo di persone – si sta consumando un massacro. La notizia della costruzione da parte dello stato egiziano di un campo di prigionia per accogliere i palestinesi, presumibilmente dopo l’imminente invasione via terra di Israele, avrà scosso la coscienza di molti, mentre giorno dopo giorno i filmati che già arrivano sono strazianti: parti di corpi sparsi sulla strada; le famiglie, le loro case e una moschea bruciate in cumuli di cenere; il cadavere straziato di una giovane ragazza appeso a un muro, scagliato lì a seguito di un’esplosione.
Per i palestinesi di tutto il mondo che stanno aspettando, guardando e che sorvegliano ogni momento, sappiate che la sensazione di terrore ci soffoca: ci rendiamo pienamente conto del fatto che nessuno verrà a salvarci. Nel frattempo i colonizzatori pubblicano video in cui sorridono mentre fanno saltare in aria le nostre case, cucinano nelle nostre cucine occupate mentre ci fanno morire di fame, posano con i nostri indumenti intimi come trofei mentre ci chiamano puttane e ballano in allegria accanto a una fila di nostri prigionieri bendati.
Nonostante le grida disperate del nostro popolo che chiede la fine di questo incessante spargimento di sangue, nonostante i milioni di persone in tutto il mondo scese in piazza per chiedere un cessate il fuoco immediato, nonostante la sentenza della più alta corte internazionale che ha imposto a Israele di proteggere i civili e di consentire immediatamente gli aiuti umanitari, una nuova compagine di potenze globali continua a finanziare, a sostenere e a voltare le spalle allo svolgersi di un genocidio, rivelando una semplice verità: l’umanità si accontenta di esistere in un mondo senza palestinesi.
«Non importa più, dopo questo, se qualcuno ci ama, / o se qualcuno cammina ai nostri funerali», ha scritto il poeta palestinese Samer Abu Hawwash il 25 ottobre. «Ci teniamo per mano, / andiamo avanti da soli in questo deserto di mondo».
Che cos’è questo mondo? Un mondo in cui i nostri figli combattono contro acronimi come WCNSF: “Wounded Child No Surviving Family”. Un mondo in cui le nostre famiglie, affamate e rifugiate, vengono colpite negli ospedali da cecchini, droni e armi aeree con mitragliatrici. Un mondo in cui le persone non muoiono immediatamente a causa della carestia, ma il cui sistema immunitario è indebolito e la diffusione di malattie prevenibili finisce per ucciderne migliaia. Nei bambini piccoli, la fame danneggia in modo permanente la crescita fisica e lo sviluppo cognitivo. Un’intera generazione di bambini palestinesi viene debilitata e lentamente uccisa. Queste condizioni sono interamente create dall’uomo, determinate dallo Stato coloniale israeliano con il pieno appoggio degli Stati Uniti e di altre potenze globali.
Le lotte palestinesi per porre fine al genocidio di Gaza hanno cercato di risvegliare la coscienza del mondo. Abbiamo cercato di piantare i semi di un nuovo mondo. Eppure, come questa lotta rivela così dolorosamente, questo “deserto di mondo” si accontenta di adorare un colonialismo risorto. Forse è questo che intendeva il presidente israeliano Isaac Herzog quando ha detto che questa guerra è «destinata – davvero, davvero – a salvare la civiltà occidentale, a salvare i valori della civiltà occidentale».
Quali sono questi valori? Perché gli Stati Uniti non smettono di inviare armi a Israele e iniziano ad esercitare una pressione genuina e incisiva per fermare il genocidio e a permettere che cibo, acqua e cure mediche raggiungano immediatamente le nostre famiglie a Gaza? Cosa ci insegna in questo momento l’investimento del mondo nella fame, nella morte, nella distruzione e nella scomparsa dei palestinesi?
In mezzo a questo orrore, come possiamo continuare a trovare il coraggio di sognare, desiderare, piangere e infuriarci contro questa risorta conquista coloniale, contro qualcosa che apparentemente non abbiamo il potere di fermare? Anche se tutte le armi del mondo sono rivolte contro di noi, anche se sembra che stiamo solo urlando nel vuoto, non abbiamo il lusso di voltarci dall’altra parte. Il nostro lavoro attraversa il paesaggio d’amore intergenerazionale di un dolore infinito e la crescita di Gaza nella vastità dei nostri cuori; assicura che il nostro popolo sia per sempre protetto e nutrito nel grembo della terra – scavando un tunnel sotto di essa, lontano dallo sguardo e al di là della portata del culto coloniale transnazionale della morte.
Essere palestinesi e riversare il nostro amore e le nostre vite nel movimento di liberazione palestinese in questo momento – in questo Tempo dei Mostri – significa vivere e morire nella ribellione contro questo colonialismo risorto e nella solidarietà maligna tra gli Stati colonizzatori bianchi. Dagli Stati Uniti a Israele e oltre, la loro complicità rende questo genocidio non solo possibile, ma crea anche l’impossibile realtà sul campo a Gaza.
I palestinesi sono una delle ultime testimonianze che un futuro senza colonialismo è possibile. In questo momento, noi continuiamo a prepararci per un futuro senza colonialismo mentre così tante potenze in tutto il mondo si preparano per un mondo senza palestinesi. La nostra presenza e persistenza rivelano una pericolosa verità. Non siamo solo esempio di amore e di vita nei modi più preziosi e precari, siamo anche un esempio di ciò che è reale. Questo genocidio dimostra come il colonialismo resista nel ventunesimo secolo. Di fronte a questa terrificante verità, al di là di ogni categoria o strategia, il nostro popolo a Gaza rappresenta la più potente espressione di amore duraturo oggi possibile. La lotta per porre fine alla conquista coloniale delle nostre terre e del nostro popolo a Gaza è una lotta per la liberazione di tutti i popoli.
La nostra lotta richiede un dolore che va ben oltre ogni capacità umana riconoscibile, perché sappiamo che non c’è ritorno al prima del genocidio. Siamo già in un tempo e in uno spazio diversi. Stiamo già vivendo in un nuovo mondo. Il nostro dolore collettivo è un portale attraverso il quale tutto il nostro popolo viene violentemente spinto verso un futuro, non solo di sfollamento e di non appartenenza, ma verso un futuro in cui solo noi resistiamo al nostro completo sradicamento.
Ci ribelliamo a un mondo futuro senza palestinesi. Il nostro amore di sfida, anche se sentiamo che una parte di noi è già morta, non è una sconfitta. La nostra profondità intergenerazionale di sentimenti non è la nostra debolezza, ma la nostra arma. Se la nostra profondità intergenerazionale è sempre anche spirituale, allora la nostra tenacia è sempre anche la nostra spiritualità. Il nostro amore, smembrato e sepolto sotto le macerie, ci impone di crollare, di pregare e di conservare la nostra vittoria mentre conserviamo il nostro dolore; è solo grazie a una vastità di spirito che possiamo ancora trovare un modo per sentire.
E cosa sentiamo? Cosa insegniamo? Un mondo senza palestinesi è un mondo colonizzato e condannato. I palestinesi insegnano una fondamentale verità decoloniale, che il mondo attuale non è ancora in grado di comprendere: Gaza ha liberato tutti noi. Questa verità invita tutti coloro che desiderano costruire un mondo nuovo a diventare palestinesi, a gettare la propria sorte con i miserabili della terra come posizione di soggetto radicale che rifiuta la brutalità coloniale e immagina qualcosa di diverso. Noi palestinesi siamo già dall’altra parte, sopravvivendo, persistendo e insistendo sulla vita di fronte alla nostra scomparsa.
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* Devin G. Atallah
È professore presso l’Università del Massachusetts Boston (UMB). È un palestinese della diaspora statunitense e cilena. Con i suoi colleghi, il dottor Atallah ha sviluppato una guida alla guarigione decoloniale palestinese, CURCUMs Trees: A Decolonial Healing Guide for Palestinian Community Health Workers, disponibile in inglese e arabo con Mayfly Books.
Sarah Ihmoud
È un’antropologa chicana-palestinese che lavora per valorizzare le esperienze vissute, le storie e i contributi politici delle donne palestinesi e del femminismo palestinese. È membro fondatore del Palestinian Feminist Collective, membro del consiglio direttivo di Insaniyyat, la Società degli antropologi palestinesi, e professoressa presso il College of the Holy Cross di Worcester, MA.