Intervista a Magdalena Kuska, coordinatrice sul campo di OIM nella regione polacca della Precarpazia
Ad agosto mi sono recato a Medyka, cittadina polacca posizionata sul confine tra Polonia e Ucraina, uno dei principali luoghi di transito per i rifugiati ucraini che in questi mesi sono fuggiti dalla guerra. Qui ho avuto la possibilità di intervistare Magdalena Kuska, che da inizio luglio è coordinatrice sul campo di OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) nella regione polacca della Precarpazia.
Partiamo da questo: come è organizzato il lavoro quotidiano sul campo?
Abbiamo diverse attività che si svolgono nella regione della Precarpazia. OIM è qui al confine come primo punto di contatto per le persone che attraversano la frontiera: nella nostra tenda possono ricevere informazioni o, ad esempio, un po’ d’acqua e alcuni beni di prima necessità. Inoltre, le persone possono sedersi e riposarsi e le madri con bambini possono allattare. È come un primo spazio sicuro. C’è anche il banco dove i miei colleghi sono in grado di fornire informazioni, e questa è la parte più importante. Le persone non sanno dove andare e cosa fare o quali siano le loro opzioni, quindi OIM le aiuta ad orientarsi fra le varie opzioni che hanno a disposizione, spiega loro come raggiungere la fermata dell’autobus e dove gli autobus possono portarle, le sostiene nella ricerca di un alloggio e così via.
Ci sono persone che arrivano e sanno esattamente dove andranno, avendo già organizzato tutto, oppure persone che arrivano solo per un breve periodo. Ci sono però anche persone che arrivano e sono sollevate per essere fuggite dalla zona di guerra, ma che si chiedono “cosa faremo la prossima settimana?”.
Abbiamo poi alcuni criteri di vulnerabilità, con cui possiamo fare una valutazione della famiglia. Tra questi, la presenza di una donna incinta, di una madre single con molti bambini, di persone con disabilità, oppure una serie di altre condizioni che possano far sì che la famiglia venga classificata come vulnerabile e che i suoi membri siano quindi ammissibili per un sostegno maggiore. Questa è la prima fase, dopodiché, quando la famiglia o la persona viene indirizzata al centro di accoglienza Tesco [situato a Przemysl, città polacca vicina al confine con l’Ucraina. Prima di essere adibito a centro di accoglienza era sede dell’omonima catena di supermercati, nda], può trovare una sistemazione temporanea, da considerarsi come un luogo di transito. Successivamente le nostre squadre di protezione sono lì per cercare soluzioni più sostenibili per loro. Nel caso abbiano bisogno di un alloggio, abbiamo avviato delle collaborazioni con alcuni rifugi collettivi in tutta la Precarpazia, dove possiamo indirizzarli e farli soggiornare per qualche mese.
Inoltre, alcune persone non hanno i documenti, hanno bisogno di registrarsi nel sistema polacco o di una consulenza legale. I nostri team si occupano anche di questo. Ciò rientra nella prima fase degli aiuti. Stiamo anche fornendo sostegno in denaro: le famiglie che soddisfano i criteri di vulnerabilità hanno diritto a ricevere un sostegno in denaro.
Stiamo anche facendo la cosiddetta “Shelter Assistance” (assistenza ai rifugi, nda), stiamo cioè ristrutturando diversi edifici in tutta la Precarpazia. Per esempio, stiamo iniziando a coibentare gli edifici dei rifugi collettivi in vista dell’inverno. Stiamo anche valutando la possibilità di ristrutturare la scuola ucraina, una scuola che da qualche decennio offre lezioni ai bambini in lingua ucraina a Przemyśl. In questa scuola si insegnava in ucraino già prima della guerra, ora accetta anche i bambini rifugiati per consentire loro di continuare l’istruzione. La scuola ha bisogno di essere ristrutturata per poter ospitare più bambini.
Per quanto riguarda i rifugi collettivi, OIM sta fornendo anche un supporto non economico: ci sono alcuni rifugi collettivi identificati in Precarpazia che, ad esempio, hanno bisogno di lavatrici perché hanno così tanti rifugiati che quell’unica o quelle due lavatrici che avevano prima non sono più sufficienti. Perciò noi gli forniamo questo tipo di supporto, oppure kit igienici o altri tipi di attrezzature, in modo che possano svolgere le loro attività senza problemi. In alcuni casi abbiamo assistito a persone, proprietarie di guest house, che con lo scoppio della guerra hanno deciso di aprirle ai rifugiati continuando a gestirle loro. Hanno perciò bisogno di sostegno, dato che hanno avuto molte spese per molti mesi. Quindi stiamo cercando di sostenerle in modo che continuino con il loro lavoro di accoglienza e abbiano un po’ meno oneri, anche dal punto di vista finanziario.
Credo che un’altra cosa importante, che sta suscitando l’interesse di molte organizzazioni, è che stiamo svolgendo un’attività di mappatura del territorio. Le squadre che abbiamo qui vanno da un comune all’altro per vedere e registrare quali servizi sono disponibili, sia governativi che non governativi.
Credo che questo sia più o meno tutto quello che facciamo. L’idea è quindi quella di accompagnare i rifugiati dall’ingresso al confine fino a fornire soluzioni più sostenibili e accesso al sistema polacco. Stiamo cercando di affrontare la questione da una prospettiva onnicomprensiva.
In un’intervista il Direttore generale di OIM dichiara che ci sono state discriminazioni alla frontiera basate sul colore della pelle o sulla nazionalità. Per quanto concerne la sua esperienza, può affermare lo stesso?
Sicuramente per i cittadini di Paesi terzi ci sono stati alcuni casi di discriminazione. Stiamo anche osservando alcuni atti di discriminazione nei confronti di gruppi minoritari ucraini che attraversano il confine e vengono qui e sono soggetti alla stessa legge di protezione dei gruppi ucraini maggioritari. Tuttavia, dato che il colore della pelle è un po’ diverso è facile individuare chi appartiene a un gruppo etnico minoritario e chi no. In alcuni casi abbiamo quindi effettivamente riscontrato atti di discriminazione.
E in questi casi come vi comportate di solito?
Quello che stiamo cercando di fare è condurre corsi di formazione. [Come OIM mi ha voluto specificare in una nota: “Come parte degli Standard di condotta di OIM per tutto il personale, il nostro personale deve assistere i migranti senza alcun tipo di discriminazione, quindi il lavoro inizia all’interno dell’Organizzazione e si traduce anche nel lavoro che facciamo nel campo della protezione e dell’integrazione con i partner e le autorità nazionali. Ad esempio, un’area in cui l’OIM lavora è quella dei corsi di formazione per lo sviluppo delle competenze. Nda].
In Polonia c’è il Consiglio centrale dei Rom, che opera e si batte per la parità di diritti delle minoranze etniche, in particolare della minoranza Rom. Ci stiamo impegnando con loro per fornire corsi di formazione nei rifugi collettivi. OIM tiene anche corsi di formazione per le guardie di frontiera. Inoltre, in alcuni casi particolari, se le famiglie delle minoranze etniche si trovano ad affrontare delle difficoltà, cerchiamo di sostenerle con un’azione di patrocinio o semplicemente seguiamo il loro caso: le intervistiamo, chiediamo loro quali sono le loro esigenze e poi le supportiamo. Una procedura che seguiamo con tutti indistintamente, ma a volte queste famiglie sono più vulnerabili, anche a causa delle discriminazioni che devono affrontare.
Quante persone lavorano in quest’area per OIM?
L’ufficio della Precarpazia conta attualmente circa 20 persone, alcuni di noi sono di base a Rzeszów, mentre la maggior parte è di base qui. In questo momento ci stiamo espandendo un po’ e stiamo creando una squadra mobile che si occuperà di valutare le necessità dei diversi rifugi, così che quando identificheranno dei bisogni in particolari rifugi, saranno in grado di rispondere prontamente. Sul posto la squadra sarà multisettoriale e sarà composta da diverse specializzazioni: educatori, psicologi, specialisti del coinvolgimento della comunità, mediatori culturali, eccetera. Avremo quindi un team intersettoriale e multisettoriale in grado di rispondere efficacemente. Come dicevo ci stiamo espandendo: si aggiungeranno al nostro team in Precarpazia altre sei persone, che saranno in grado di spostarsi nella regione potendo fornire una rapida risposta.
Quindi, anche se la situazione è più tranquilla rispetto all’inizio della guerra, state ampliando il vostro team?
Le esigenze cambiano. Direi che qui al confine la situazione è sicuramente più tranquilla rispetto a marzo, ma i rifugiati che sono arrivati stanno ancora affrontando delle sfide. Il sostegno del governo sta diminuendo in questo momento. La società polacca è stata molto aperta fin dall’inizio nell’accogliere le persone a casa, ci sono stati centinaia di volontari che hanno lasciato il loro lavoro e sono venuti a dare supporto. Tuttavia, questo non è ovviamente sostenibile. Se qualcuno abbandona il proprio lavoro per due o tre mesi per andare al confine a dare una mano, non può andare avanti per sempre. Pertanto, questo è il momento in cui è necessario implementare strutture e un tipo di supporto più sostenibili. Ci sono ancora molti bisogni, solo che sono diversi rispetto all’inizio.
Lei ha detto che c’è una sorta di diminuzione del sostegno da parte della società civile e del governo nei confronti degli ucraini. Lo ha spiegato con il fatto che le persone non possono aiutare per sempre. Ritiene che ci siano altre ragioni per cui questo calo sia in atto?
Dal punto di vista della società civile, è il fatto che le persone hanno finito le energie o non hanno più risorse da spendere. Dal punto di vista del governo, non ho il diritto di dare opinioni, posso avere la mia opinione personale ma non è l’opinione dell’organizzazione.
Per quanto riguarda la Precarpazia in particolare, quest’area è percepita dal governo e dalle autorità locali come un luogo di transito. Perciò quando l’afflusso di rifugiati era enorme il supporto era di alto livello. Ora, come avete osservato, l’afflusso di rifugiati è diminuito e il governo non vuole che le persone rimangano in Precarpazia, ma che si spostino in altre città o in altre regioni della Polonia. Quindi penso che da questo punto di vista si siano concentrati maggiormente sul sostegno immediato alle persone in arrivo, ma poi hanno incentivato le stesse ad andare oltre. Penso anche che le autorità stiano chiudendo i centri di accoglienza che erano stati aperti perché il movimento al confine è diminuito. […] Al momento Tesco e la stazione ferroviaria di Przemyśl sono gli unici centri di accoglienza in Precarpazia per il supporto immediato. Questa situazione è in qualche modo impegnativa per noi, perché assistiamo a questa diminuzione del sostegno, nonostante vi sia in realtà ancora un movimento costante. Le persone continuano ad arrivare. Anche ad agosto abbiamo osservato un aumento del transito e dell’afflusso di persone da quei territori orientali recentemente occupati dove è stato dato l’ordine di evacuazione. Ci sono autobus che provengono dall’Ucraina orientale, da luoghi in cui è in corso un conflitto attivo e quindi è una sfida prestare servizio mentre le opzioni effettive di allocazione delle persone stanno diminuendo.
Sembra anche che l’attenzione dei media stia diminuendo. Come giudica personalmente questo fenomeno? Pensa che possa avere conseguenze negative sul suo lavoro?
Penso che sia un processo molto naturale, spiacevole, ma naturale. Credo che ognuno di noi possa dire che, nei primi giorni del conflitto, al risveglio la prima cosa che uno faceva era guardare il telegiornale o leggere le notizie e poi l’ultima cosa prima di andare a dormire era di nuovo leggere le notizie su ciò che stava accadendo in Ucraina. Tuttavia, non è sostenibile nel lungo periodo e inoltre, in qualche modo, credo che col tempo ci si abitui a certi eventi. Adesso abbiamo preso coscienza della guerra, non voglio dire normalizzato ma sai cosa intendo, è diventato una realtà e non è più uno shock.
Vale anche la pena di notare, dato che parliamo di diminuzione dell’attenzione dei media, che in tutto il mondo ci sono enormi disastri umanitari, ma sono lì da così tanto tempo che nessuno se ne ricorda, come nel caso della Somalia o del Sud Sudan. Tutte queste crisi che durano da decenni non vengono più menzionate. Certo, qui la situazione è ancora molto diversa, perché sono passati meno di sei mesi, ma si può già osservare un calo di attenzione da parte dei media.
Naturalmente ha un’influenza, forse non nel breve periodo, ma nel lungo periodo influenza i finanziamenti. In genere, dove c’è l’interesse dei media e degli occhi del mondo, c’è anche il flusso di denaro. Lo si è potuto osservare molto bene anche quando è iniziata la guerra in Ucraina, gli occhi di tutto il mondo si sono posati sull’Ucraina e il denaro ha iniziato ad affluire a sostegno dell’Ucraina, sottraendolo, almeno in parte, ad altre crisi in corso da decenni. L’attenzione dei media può influenzare, ma non solo quella dei media, bensì anche l’attenzione dei diversi governi e dell’opinione pubblica internazionale.
Quali sono i vostri rapporti con le autorità locali nel lavoro quotidiano?
Questo è sicuramente il principio cardine attorno a cui lavoriamo. Dobbiamo coordinarci strettamente con le autorità locali. Non siamo autorizzati a fare nulla senza che loro lo sappiano o lo approvino, dal momento che loro governano questo territorio noi interveniamo come supporto ai beneficiari, ovviamente. In generale, però, l’aiuto umanitario funziona in modo tale che se c’è una crisi umanitaria, ma il governo in loco è in grado di coprire tutti i bisogni, non è necessario l’intervento o il sostegno degli attori umanitari. Gli attori umanitari sono presenti quando le risorse locali non sono sufficienti a soddisfare tutti i bisogni. Questo è ciò che sta accadendo anche qui. Il sostegno del governo arriva fino a un certo livello mentre i bisogni si posizionano un po’ più in alto, così questa lacuna viene colmata dagli attori umanitari, ma il principale responsabile e rispondente rimane il governo.
Sosteniamo e manteniamo un dialogo costante con le autorità, ad esempio nel comune di Rzeszów chiediamo loro “dove individuate i bisogni maggiori?” o “quale edificio dove sostano i rifugiati ucraini ha più bisogno di sostegno?” e loro ci aiutano a identificare quei luoghi. Poi, effettuiamo il nostro controllo secondario, per verificare se è davvero così o se è in linea con la nostra strategia o con le nostre attività. Dopodiché definiamo il nostro piano d’azione. È necessario uno stretto coordinamento con il governo.
Di solito sono collaborativi?
Ci sono alcune tensioni tra le diverse intenzioni, anche tra i diversi approcci dei diversi gruppi politici, che alla fine sono responsabili dei diversi livelli di governo, dal governo locale al governo centrale. Quindi, a seconda delle diverse intenzioni, a volte dobbiamo affrontare delle sfide, ma ciò che noi, come attori umanitari, cerchiamo di fare è collaborare con i governi locali nel miglior modo possibile.
I nostri colleghi e il nostro capo missione a Varsavia conducono incontri con il governo centrale, con i ministeri, su un quadro più ampio per quanto concerne la cooperazione. Naturalmente, tutto ciò poi ricade al livello pratico qui, ma è molto importante per noi essere dalla stessa parte delle autorità locali, anche solo per una questione di cooperazione quotidiana. Il mantenimento di buone relazioni ci facilita molto il lavoro, ecco perché cerchiamo di avere un approccio aperto.
E c’è cooperazione e coordinamento con le altre organizzazioni internazionali che operano sul territorio?
In tutti gli ambiti umanitari il coordinamento è fondamentale. Se c’è una famiglia che arriva e diverse organizzazioni che forniscono lo stesso tipo di supporto, oppure se ci sono alcuni centri che non sono coperti perché non ci coordiniamo e tutti vanno a sostenere un solo centro e ci sono 5 diversi centri che non vengono supportati, non ha senso. Quindi cerchiamo di trovare questa complementarità con diverse organizzazioni, come dicevo per esempio a proposito di Tesco, dove ci sono diverse organizzazioni che forniscono diversi tipi di sostegno e, quindi, si tengono riunioni di coordinamento. Per esempio, siamo a capo del gruppo di coordinamento per la protezione all’interno di Tesco, perché c’è anche l’UNHCR che fornisce servizi di protezione. Al fine di coordinarci abbiamo un incontro settimanale per discutere i casi particolari, oppure loro ci segnalano alcuni casi perché noi possiamo fornire un supporto più adeguato, mentre noi segnaliamo altri casi a loro, eccetera. Questa cooperazione è abbastanza stretta, ovviamente ci sono sempre delle difficoltà quando ci sono diversi attori coinvolti, ma cerchiamo sempre di coordinarci.
Abbiamo un gruppo di informazione intersettoriale a livello di Voivodato nella regione della Precarpazia, in cui i responsabili regionali delle diverse agenzie, le ONG, il governo locale, il Voivodato si incontrano e discutono le varie strategie e chi fornisce quale tipo di supporto. Il tema attuale, ad esempio, è la “winterization”: ovvero ci stiamo preparando per l’inverno, poiché le esigenze cambieranno. Se ne discute a diversi livelli, ci sono diversi gruppi di coordinamento, a livello nazionale e locale. Penso anche che questo tipo di attività sia un po’ impegnativo con le ONG locali che non hanno mai lavorato in ambito umanitario e che non sono abituate a questo meccanismo di coordinamento.
Nello scenario internazionale delle crisi umanitarie, a seconda del tipo di crisi, cambia l’entità responsabile. In ciascuna area c’è sempre un organismo che guida e coordina tutti gli altri. Tutto questo in Polonia non esisteva prima, quindi la struttura di coordinamento ha dovuto essere creata da zero e, come ho detto in precedenza, alcune organizzazioni, soprattutto le ONG che non hanno mai lavorato in ambito umanitario, non sono abituate a questo tipo di coordinamento, non sono abituate a fare rapporto, non sanno a cosa serve, e ci vuole tempo per spiegargli il valore aggiunto di questa stretta collaborazione.
Lei ha prestato servizio in altre crisi umanitarie, quali sono le differenze e le somiglianze tra questa in Ucraina e le altre in cui ha lavorato?
Ci sono molte differenze. Spesso quando c’è una crisi umanitaria le strutture governative sono piuttosto deboli, diciamo. Questa è una delle ragioni per cui è necessario un supporto significativo da parte delle ONG e delle Nazioni Unite. Poi, naturalmente, ci coordiniamo con le autorità locali, ma c’è molto più potere decisionale all’interno del sistema internazionale rispetto al governo locale, perché le strutture governative locali sono molto deboli, quindi c’è molto più spazio, e anche la necessità a dire il vero, di prendere il controllo. D’altra parte, in Polonia il governo è ben consolidato e forte e quindi stiamo facendo un po’ di fatica a trovare il modo di cooperare, dato che le Nazioni Unite e le ONG sono abituate solitamente ad avere più influenza, qui invece dobbiamo adattarci di più.
Dobbiamo anche dire che, per quanto riguarda i bisogni dei rifugiati, l’assistenza umanitaria deve sempre essere calibrata sulla base del contesto locale. Di conseguenza, se le persone sono abituate ad alloggiare in case con un bagno, un letto e una cucina, non possiamo mettere a disposizione delle tende, perché sono inadeguate alle loro esigenze. Posso fare un paragone con il Sud Sudan, che è uno dei Paesi più poveri del mondo, dove la gente vive in case autocostruite con materiali locali, come pali, erba, fango, eccetera: quando sono sfollati all’interno del Paese, l’assistenza per gli alloggi che forniamo è quella di procurargli pali di legno e teli di plastica, in modo che le persone possano costruire rifugi temporanei. Il contesto è talmente diverso da far sì che la risposta sia molto diversa.
Qui invece mettiamo a disposizione dei rifugi, stiamo dando supporto ai rifugi collettivi posti in edifici preesistenti e stiamo anche offrendo alloggi in Airbnb ai casi più vulnerabili, affittandoli per un mese in modo che possano mettere basi più solide per il loro futuro qui. Inoltre, stiamo sostenendo le persone nell’accesso al sistema sanitario pubblico. Ci sono alcuni punti di assistenza sanitaria in questi rifugi collettivi, ma l’obiettivo principale è quello di includere le persone nel sistema sanitario pubblico esistente. Al contrario, in paesi come ad esempio il Sud Sudan o la Somalia, il sistema sanitario pubblico è quasi inesistente, quindi è necessario fornire assistenza sanitaria alle persone in luoghi remoti dove non hanno mai visto un medico. Quindi c’è un team mobile che, ad esempio, si reca in un luogo remoto due volte alla settimana, permettendo alle persone di avere accesso a servizi medici che prima non avevano. Come si può vedere è molto diverso, e sto soltanto confrontando due situazioni estreme, ma c’è molto in mezzo.
Nel caso, per esempio, in cui si verifichi un terremoto in un Paese che prima era benestante, dotato di un sistema fognario e di distribuzione dell’acqua, e il terremoto distrugge queste infrastrutture, gli attori umanitari intervengono per cercare di aiutare il Paese a ripristinare la situazione precedente alla crisi o, in questo caso, al terremoto. Quindi, se c’era un sistema fognario e una conduttura dell’acqua, preferiremmo ricostruire il sistema fognario e la conduttura dell’acqua invece di fare una trivellazione. Invece, in Sud Sudan o in Somalia, dove non c’è mai stato un sistema fognario, cerchiamo di aiutare le persone a scavare latrine vicino alle case, ad esempio, o a limitare la defecazione a cielo aperto per limitare i problemi di salute pubblica che ne conseguono. Quindi l’obiettivo è sempre lo stesso, ma il modo in cui viene attuato è molto diverso.
Qual è la parte più difficile del suo lavoro?
Penso che dipenda dal lavoro quotidiano o dalle attività che si svolgono. Sicuramente il team che siede qui nella tenda o che si trova nel centro di accoglienza ogni giorno, affronta sfide molto diverse da quelle che affronto io o i colleghi di Varsavia. Penso che, nel lavoro diretto con i beneficiari, ciò che è sicuramente stressante è che le persone arrivano qui con le loro storie difficili, con il loro bagaglio emotivo. Essendo il primo punto di contatto, incontriamo ogni giorno persone che vengono a chiedere sostegno e che per forza di cose sono molto stressate, hanno bisogno di molta assistenza. Naturalmente siamo esseri umani e perciò abbiamo un certo livello di empatia e il fatto di trovarsi ogni giorno in un ambiente che è pesantemente colpito dalla guerra influenza in modo secondario anche i colleghi che lavorano quotidianamente con i beneficiari. Le storie che le persone raccontano sono spesso molto difficili, molte persone hanno perso la famiglia, alcuni hanno visto la loro casa venire distrutta, ci sono vittime di violenze, eccetera. È molto impegnativo da questo punto di vista. Penso che sia anche importante dire che una parte dei nostri colleghi sono loro stessi rifugiati ucraini, che sono fuggiti dalla guerra e si sono trasferiti qui e ora stanno aiutando i loro compagni ucraini a stabilirsi in Polonia. Posso immaginare che le persone che vengono e condividono le loro storie abbiano un impatto ancora maggiore sui nostri colleghi ucraini.
D’altra parte, si tratta ancora di una situazione emergenziale. Infatti, anche se dura da quasi sei mesi, rimane un assetto molto nuovo, rispetto alle crisi che ci sono state per 15 anni, dove il sistema è davvero ben consolidato. Quindi stiamo ancora faticando un po’ per il fatto che tutto è nuovo, il sistema è nuovo, c’è ancora mancanza di personale, le assunzioni sono ancora in corso per alcune posizioni, la situazione sta cambiando, è dinamica, quindi anche la parte di coordinamento è impegnativa da questo punto di vista. Le cose non sono ancora ben consolidate. Ci sono molte domande che non hanno ancora trovato risposta e i processi sono ancora in fase di definizione. Credo che dal punto di vista del coordinamento queste siano le grandi sfide.
Come detto in precedenza, lavoriamo anche con partner esecutivi, come le organizzazioni locali, che hanno svolto alcuni tipi di attività sul territorio e quindi noi, come OIM, invece di implementare quelle attività da soli, finanziamo un’organizzazione locale che può fare questo lavoro per noi, perché conosce meglio il contesto locale e dispone di risorse. Queste organizzazioni, d’altra parte, non sono abituate a lavorare in un contesto umanitario, non sono quindi abituate a scrivere una proposta di progetto, a definire un quadro logico. C’è una parte molto tecnica che deve essere fatta, perché nel sistema delle Nazioni Unite operiamo all’interno di questo quadro. Le persone non sono abituate a questo ed è necessario quindi sviluppare molte capacità per lavorare a stretto contatto con i partner in modo che siano in grado di soddisfare i requisiti richiesti, anche quelli di rendicontazione. La prima cosa che facciamo è la cosiddetta Partner Capacity Assessment (Valutazione delle capacità dei partner, nda) per verificare se hanno processi di approvvigionamento adeguati, un codice di condotta, politiche di prevenzione dello sfruttamento e degli abusi sessuali e tutte le altre parti amministrative di cui semplicemente non dispongono perché operano su una scala ridotta e non hanno mai lavorato in un contesto internazionale più ampio in cui questo è un requisito standard.
Un’ultima domanda: cosa vi aspettate dalle prossime settimane/mesi?
Questa è un’ottima domanda a cui stiamo cercando di dare una risposta, per essere preparati, per essere pronti a fornire assistenza alle persone che arriveranno. Ci sono molti punti interrogativi: non sappiamo cosa succederà in Ucraina, come si evolverà il conflitto, non conosciamo i piani esatti del governo, cosa cambierà in termini di risposta centrale in Polonia. Sappiamo che l’inverno sta arrivando, e questa è la base delle nostre ipotesi, e di conseguenza supponiamo che probabilmente il numero di persone che attraversano il confine aumenterà, dato che la crisi economica in Ucraina si sta aggravando e l’accesso al riscaldamento delle case è molto limitato e costoso e in alcuni luoghi non funziona. Quindi, ci aspettiamo che a causa di questo e del fatto che l’inverno è rigido sia in Ucraina che in Polonia, ci sarà un maggiore afflusso di persone in cerca di rifugio qui. Questo è ciò che ci aspettiamo. Stiamo quindi cercando di prepararci, come dicevo, coibentando i rifugi collettivi e preparando i cosiddetti beni non alimentari. Ad esempio, in questo momento i colleghi stanno lavorando a una lista di cose di cui probabilmente avremo bisogno, come coperte e vestiti. Stiamo lavorando all’elenco dei diversi articoli che potrebbero essere necessari, in modo da averli quando arriverà il momento e le persone inizieranno ad averne bisogno. Dobbiamo anche rendere questo posto più caldo (riferendosi alla tenda di IOM per la prima accoglienza, nda), in modo che quando le persone arrivano dopo aver aspettato per diverse ore dall’altra parte del confine possano trovare un posto caldo qui dentro, soltanto per poter riposare un momento e poi continuare. Penso che l’inverno porterà alcuni cambiamenti e alcune esigenze diverse. Per questo motivo, ci stiamo concentrando soprattutto sulla “winterization”.