El Salvador non è un esempio di lotta alla criminalità organizzata bensì “un modello vincente per aspiranti leader populisti, che sognano di smantellare la democrazia restando al tempo stesso in cima ai sondaggi. Ma il degrado della democrazia e del giornalismo di cui soffre il mio Paese – dove 70mila persone sono state arrestate in poco più di un anno – è un trend globale”.
Ne è convinto il giornalista d’inchiesta Carlos Dada, 53 anni, co-fondatore e direttore di El Faro, tra le ultime voci libere di El Salvador e dell’America centrale. Lo abbiamo incontrato a Perugia, al termine di un emozionante incontro organizzato nell’ambito del Festival del giornalismo internazionale per spiegare perché si è aggiudicato il Press Freedom Hero 2022 . “Viviamo in un mondo dominato dal caos. Ma io parlo tanto, scusatemi”, dice a più riprese nel corso dell’intervista, con un sorriso imbarazzato, lui che da 25 anni lavora per svelare corruzione e abusi e per questo subisce minacce e pressioni dai governi di turno e dalla malavita organizzata. Poi, nel 2021, con altri colleghi scopre di essere tra le personalità poste sotto sorveglianza di Pegasus, lo spyware sviluppato dall’azienda israeliana Nso e acquistato da Stati che, come il suo, intendono spiare antagonisti politici come pure dissidenti, attivisti e giornalisti. Uno scandalo che ha raggiunto anche l’Europa ed è tornato d’attualità con la vicenda del “Qatar-Marocco Gate”.
L’El Salvador di cui parla Dada è quello dello stato di emergenza dichiarato dal presidente Nayib Bukele il 27 marzo 2022 dopo che nel giro di un fine settimana 87 persone sono state uccise per le strade del Paese; un’ondata di violenza questa, eccezionale anche per il Paese centramericano, da anni uno tra i primi nella statistica che quantifica il tasso di omicidi ogni 100mila abitanti.
Gli assassini sono stati attribuiti alla “Mara Salvatrucha”, insieme al “Barrio 18” il principale gruppo armato attivo nel Paese, appunto le “maras”, fameliche “formiche”, questa una delle intepretazioni del termine, che controllano intere aree delle città salvadoregne e che annoverano il traffico di stupefacenti, lo sfruttamento della migrazione illegale e le estorsioni fra le loro principali fonti di finanziamento.
Bukele ha quindi dichiarato la sua “guerra alle maras”, imponendo un’ulteriore forte virata in senso securitario alla sua strategia di gestione della criminalità organizzata, il “Plan Control Territorial” lanciato nel 2019. Negli ultimi 14 mesi il parlamento, saldamente in mano alla maggioranza, i cui esponenti siedono su 64 degli 84 scranni dell’Assemblea, ha rinnovato la misura eccezionale ben dodici volte, l’ultima lo scorso 13 aprile.
In poco più di un anno ha iniziato quindi a prendere forma il “modello” denunciato da Dada: il numero degli omicidi è diminuito in modo significativo, passando dai 50 ogni 100mila abitanti che si registravano nel Paese l’anno prima delle elezioni di Bukele, nel 2018, ai due assassini ogni 100mila abitanti annunciati per il 2022 dalle cifre ufficiali del governo. Lo stesso El Faro, in un episodio del podcast di attualità El Hilo, pubblicato nei giorni scorsi in cui si denuncia lo stato di polizia in cui è scivolato El Salvador, sostiene tuttavia che interi quartieri sarebbero “usciti dal controllo delle bande armate dopo anni” e di un’assenza di violenza di strada “mai vista prima” in alcune aree del Paese. Cambiamenti che riconfermano il sostegno al capo dello Stato: secondo tutti i principali sondaggi riportati dai media locali e internazionali, fra l’80 e il 90 per cento dei salvadoregni appoggia Bukele, rampollo di una famiglia con origini palestinesi classe 1981.
Un calo delle violenze e un aumento di consenso raggiunti appunto a colpi di arresti, in molti casi indiscriminati: è quanto emerge da un’instantanea scattata da sette organizzazioni locali per la difesa dei diritti umani e contenuta in un report dato alle stampe in occasione del primo anniversario della dichiarazione dello “Estado de excpecion”: stando a quanto riportato nel documento in 12 mesi oltre 65.700 persone sono state arrestate in El Salvador con l’accusa di essere esponenti o di avere legami con le maras. Si tratta di circa l’un per cento dei 6,3 milioni di abitanti dello Stato centramericano, che raddoppiano e diventano il 2 per cento se si somma il numero di detenuti in carcere prima dell’annuncio della misura. Le stesse realtà della società civile salvadoregna, fra le quali l’ong Cristosal e l’Instituto de Derechos Humanos della Universidad Centroamericana José Simeón Cañas (Uca), hanno denunciato la morte di almeno 111 persone in custodia dello forze di sicurezza e documentato più di 4.700 casi di violazioni dei diritti umani ai danni di oltre 5mila le persone. Nel 95 per cento dei casi la violazione riportata nello specifico dalle sette organizzazioni è l’arresto arbitrario. Sarebbero oltre mille inoltre, i bambini e gli adolescenti in carcere per effetto dello stato di emergenza voluto dall’esecutivo.
A emergere è un quadro in cui forza indiscriminata produce sicurezza, che a sua volta determina aumento di consenso per il governo: geometrie pericolose, ribadisce Dada, a maggior ragione in un contesto come quello a sud del Rio Grande.
“Bukele è diventato un modello in America Latina per l’estrema destra e le correnti liberiste, ossia per chi sogna di prendere il potere, distruggere le istituzioni democratiche e nonostante tutto restare sulla cresta dell’onda”; scandisce il cronista.
“Non sono un esperto di criminologia – prosegue il suo ragionamento -, ma come giornalista so che la strategia della repressione non funziona sul lungo periodo. Guardo al passato: in tanti ci hanno provato, col risultato che le gang non sono state sconfitte, ma si sono semplicemente trasformate. Chiediamoci piuttosto perché esistono, e la risposta è nel tessuto sociale corrotto che nessuno si è preoccupato di riparare. Bisognerebbe invece partire da quello che diceva monsignor Romero, che venne assassinato e due anni fa fu canonizzato a Roma: ‘Non risolveremo mai la violenza se non affronteremo le cause da cui ha origine la violenza stessa”.
Il messaggio del religioso, secondo il direttore di El Faro, “è più urgente che mai. Se Bukele crede di risolvere le cose arrestando 70mila persone – spiega Dada -, non solo si comporta da illuso ma viola anche i diritti umani. La metà della gente arrestata non aveva niente a che fare con le bande, eppure le sono stati tolti i diritti costituzionali, mentre i leader delle gang sono ancora in giro, hanno negoziato la loro liberazione col governo, e il governo li ha rimessi in libertà. Il dittatore non ha mai esitato a trattare con quella gente. Ma quella che vedete oggi in El Salvador non è giustizia. È vendetta. Il dittatore si sta vendicando di coloro con cui ha accettato di negoziare, e lo hanno tradito”, chiosa Dada in un riferimento ai negoziati segreti fra dirigenti delle maras e governo e alla successiva presunta rottura del patto che avrebbe contribuito a innescare la repressione del governo, una tesi questa, documentata e sostenuta dalla redazione di El Faro anche con una serie di inchieste pubblicate negli ultimi due anni.
Un lavoro che sarebbe una delle cause dell’atteggiamento ostile del governo nei riguardi della testata, anche oggetto di alcune inchieste su presunti casi di riciclaggio di denaro ed evasione fiscale. Da qualche settimana il giornale ha anche spostato la sua sede legale in Costa Rica: “Laggiù la testata è fuori dal raggio d’azione di Bukele”, afferma Dada. “La maggior parte dei nostri cronisti però resta in El Salvador. Essendo tuttavia un quotidiano che da anni tratta di America centrale, trovo un’evoluzione naturale che si sia spostato da un Paese all’altro”.
La questione non riguarda solo El Faro però, e si iscrive in un contesto più ampio e più difficile. “Lo stato di salute del giornalismo e della democrazia in El Salvador? Pessimo”, si schernisce il giornalista, che poi amplia lo sguardo oltre i confini del Paese governato da Bukele, un angolo di terra bagnato dall’Ocean Pacifico incastonato fra il Guatemala e l’Honduras.”Non siamo i soli. In tanti Paesi – dice il direttore- la democrazia viene smantellata e i giornalisti diventano bersaglio dei regimi che si sostituiscono alle democrazie. A partire dal 2018, questa dinamica in America Latina si è accelerata. Negli anni ’90, con la fine delle dittature, si decise che ogni paese avrebbe gestito da solo le proprie differenze politiche. Ma oggi quelle istituzioni vengono distrutte e così non esiste più spazio per il dialogo”. E ciò che è peggio, “questo sistema resterà in piedi ancora per un bel po’”.
Nonostante quest’ultima osservazione, per Dada la dinamica si può rompere:
“Dobbiamo farlo – esorta il cronista salvadoregno -, soprattutto noi giornalisti che crediamo nei valori democratici e nella libertà, dobbiamo unirci, dalla Slovacchia ad El Salvador, perché stiamo affrontando lo stesso problema”. Eppure, proprio l’enorme difficoltà a fare questo lavoro “sta regalando al giornalismo latinoamericano la sua epoca più bella, con grandi inchieste, tanto coraggio”.
Quest’ultimo serve anche per far fronte a minacce nuove e sempre più pervicaci, come lo spyware di fabbricazione israeliana Pegasus. Dada è una fra le 50mila persone – giornalisti, attivisti, politici – che in tutto il mondo sono state spiate e intercettate con questo strumento tecnologico, come rivelato dalle 17 grandi testate internazionali che hanno animato il “Pegasus Project”, un’iniziativa coordinata dalla ong francese Forbidden stories e resa possibile anche dall’assistenza tecnica della ong Amnesty International e in modo particolare del suo Security Lab. In El Salvador le persone sottoposte a sorveglianza tramite Pegasus sono state almeno 35, come emerge da un approfondimento sul versante salvadoregno della vicenda curato dal Citizen Lab dell’Università di Toronto e dalla ong Access now.
“Mi sono sentito invaso” commenta il reporter, “perché per più di cento giorni persone a me del tutto sconosciute sono penetrate nel mio smartphone e hanno avuto accesso a foto, video, persino alle conversazioni con la mia compagna o mio padre”, perché Pegasus permette di attivare il microfono senza che il possessore del telefono se ne accorga. “Hanno vissuto in casa mia, scoperto dove abitano le persone a me vicine. Sul piano personale si sono presi la mia intimità”, denuncia il giornalista. Ma è su quello professionale, prosegue Dada, che probabilmente “hanno vinto: nessuna fonte vuole più parlare con un giornalista che viene spiato. Io e i miei colleghi abbiamo dovuto sviluppare altri modi per comunicare con i nostri contatti ma molti di loro ci hanno chiesto di non chiamarli mai più”.
E la reazione dell’Ue a tale scandalo, che pure ha riguardato diversi Paesi dell’Unione? “Deludente”, conclude.