Con l’intervista ad Andrew Rovenko del quale in questo settimane c’è stata la sua prima mostra personale a Ferrara ed oggi espone a New York vogliamo inaugurare una serie di incontri con fotografi provenienti da vari luoghi del mondo che hanno scelto di costruire il proprio lavoro in ambiti diversi della fotografia. I motivi di questa idea sono molti ed altri senza dubbio ne scopriremo strada facendo ma evidenziarne uno è fondamentale. Con la fotografia digitale a portata di mano dentro i fotofonini e la diffusione dei social network come ha ben spiegato lo spagnolo Fontcuberta sta avvenendo un passaggio nella storia dell’umanità che mai si era verificato in questo modo: la possibilità di raccontarsi, esporsi ed auto rappresentarsi. La fotografia è la forma di espressione oggi più praticata al mondo, ben oltre la musica, la pittura, la scrittura ma in proporzione la meno studiata. Per questo abbiamo pensato potesse essere bello, oltre che utile, un confronto con chi consapevolmente ha scelto di farne la propria ricerca.
(Questa intervista è realizzata con il contributo di un gruppo di studio nato ormai cinque anni fa al quale partecipano persone che vivono in diverse città d’Italia e che si incontrano su una piattaforma on line una volta al mese).
Da quanto tempo vivi in Australia e perché sei andato lì?
Mi sono trasferito in Australia nel 2004, quindi vivo qui da quasi 18 anni ormai. Ero molto più giovane allora e viaggiare dall’altra parte del mondo sembrava una grande avventura, quindi una volta che si è presentata tale opportunità abbiamo preparato un paio di valigie e siamo saliti sull’aereo per esplorare questa terra lontana di cui sapevamo così poco. Poi una cosa dopo l’altra e divenne una nuova casa.
Da quanto ti occupi di fotografia e cosa rappresenta per te?
Faccio fotografia da ormai 20 anni ma non è stato un percorso continuo.
Ho avuto fasi “passive” e “attive”. Quando sentivo che la fotografia stava diventando una routine allora prendevo una pausa per riprendere poi dopo un pò di tempo.
Il significato della fotografia per me si evolve nel tempo poiché nelle differenti tappe della vita abbiamo visioni differenti del mondo ed esploriamo quindi temi diversi.
Mentre all’inizio ero più concentrato sul “catturare l’attimo” che stavo vivendo (che potevano essere i viaggi o le occasioni sociali), adesso cerco di esprimere sentimenti piuttosto che solamente reagire alle situazioni.
Riguardo all’imminente mostra a Ferrara, sono molto emozionato per questa opportunità di esporre le mie foto nel mondo reale ed è un’esperienza speciale portarle ad un pubblico così lontano da casa e soprattutto nella bella Italia. Spero che i visitatori le apprezzeranno, mi intimidisce esporre in un paese sinonimo di Arte e Cultura. Essere stato selezionato per il festival mi ha veramente lusingato.
Nel tuo modo di fare fotografia ti ispiri al cinema, ai libri, ad altri fotografi o ci metti solo del tuo?
Credo di aver raggiunto un’età in cui molte cose diventano nostalgiche e connettermi con i luoghi o gli oggetti che mi ricordano il passato è decisamente una fonte di ispirazione per me…Gli oggetti che stimolano l’immaginazione e che ti fanno intuire quello che possono aver visto nei loro “giorni migliori”.
Inoltre, per me che sono cresciuto negli anni ’80, i film di fantascienza sono stati una grande parte di quel mondo e hanno fatto da sfondo a molte mie esperienze di allora.
Conosci le opere “Tales from the Loop” di Simon Stålenhag e pensi che sbaglieremmo nel trovare delle similitudini tra le tue opere e i disegni di Stålenhag?
Stabilire delle connessioni e trovare similitudini è del tutto naturale e questo è il modo in cui noi essere umani cerchiamo di classificare e categorizzare le cose che ci troviamo di fronte perciò non penso ci sia niente di sbagliato in questo.
Le immagini di Simon sono assolutamente straordinarie e sono risuonate molto in me dopo che ho conosciuto il suo lavoro ma penso che si tratti piuttosto del fatto che entrambi siamo cresciuti negli stessi anni, abbiamo guardato gli stessi film e siamo stati ispirati da cose simili.
Detto ciò, però, il mio progetto ruota intorno all’esplorazione di luoghi reali e per me, personalmente, si tratta piuttosto di un racconto delle avventure con mia figlia avvenute nel nostro mondo quotidiano, quindi deriva da una base leggermente diversa.
Come è nata l’idea di questo lavoro e perché in pellicola?
Inizialmente non era stato concepito come un progetto fotografico quindi è una sorta di felice incidente di percorso. Viviamo a Melbourne e dall’inizio della pandemia ci sono stati 6 lockdown con un totale di oltre 240 giorni di pesanti restrizioni. In momenti come questi è particolarmente importante continuare a fare le cose, seguire i propri interessi e non soccombere all’apatia.
Poiché la nostra bimba di 4 anni aveva questo interesse spontaneo per lo Spazio, da genitori abbiamo fatto leva sulla sua passione e mia moglie Mariya le ha cucito una tuta e un elmetto da astronauta (lei ha studi da costumista teatrale e le sue abilità ci sono tornate proprio utili).
Il passo successivo è stato che la bambina ha iniziato a fare le nostre uscite quotidiane con il costume addosso e io semplicemente documentavo quelle uscite come si solito farebbe qualunque genitore, e più le avventure aumentavano più emergevano le immagini.
Per quanto riguardo l’uso della pellicola, ho molte ragioni per preferirla come supporto per il mio lavoro personale, alcune di queste ragioni sono oggettive, altre soggettive. Per citarne alcune, mi piace veramente tanto la sensazione di suspense quando non sai cosa verrà fuori dallo sviluppo. Se i risultati sono buoni è molto più appagante rispetto alla “gratificazione istantanea” a cui tutti siamo oggi abituati nella fotografia digitale.
Inoltre mi piace l’estetica di questo particolare tipo di pellicola e come si comporta nelle differenti condizioni di luce, l’aspetto già pronto che ottengo è abbastanza speciale e non richiede nessuna post produzione.
Quando scatto in pellicola sento molto l’essere “presente nel momento”, l’aspetto artigianale del creare tradizionalmente le immagini e l’avere il controllo sul processo dello sviluppo.
Cosa rappresenta per te, un nuovo mondo, un momento di rinascita?
Lasciare gli spettatori usare la propria immaginazione e trovare le proprie interpretazioni è ciò che io ritengo una delle parti più belle del guardare questi lavori perciò lascerò che sia ognuno di voi a decidere. Non c’è un giusto o sbagliato qui, queste foto sono più un invito ad esplorare i nostri pensieri e sentimenti che la comunicazione di un’idea specifica..
Una cosa che colpisce delle tue foto è la luce, mai in pieno giorno e sempre al crepuscolo o con cielo nuvoloso: è solo per motivi narrativi o anche dettato dai tempi del lockdown?
Buona osservazione!
Devo ammetterlo, non so fotografare bene in pieno giorno (proprio non ho una “visione” per questo) quindi probabilmente tendo naturalmente verso le condizioni di luce nelle quali riesco meglio a scattare. Inoltre di solito possiamo uscire dopo che ho finito di lavorare, che in genere è verso fine giornata, quindi funziona bene.
Nella tua infanzia eri curioso di conoscere il punto di vista degli adulti sul mondo o preferivi scoprire le cose da solo per conto tuo?
Assolutamente per conto mio, nel bene e nel male. Credo di aver capito troppo presto che fare la stessa domanda a differenti adulti spesso poteva portare risposte completamente diverse le une dalle altre, quindi non si può fare affidamento su di loro, imparare sulla propria pelle è il modo migliore (ma non è sempre produttivo e a volte è pericoloso).
Le tue foto evocano le sensazioni e le emozioni che tutti abbiamo provato durante il lockdown ma nelle tue foto possiamo anche rintracciare un sentimento alquanto apocalittico, sebbene poetico, che ha qualcosa a che vedere con la recente guerra in Ucraina. Gli eventi del 24 Febbraio 2022 hanno in qualche modo influenzato il racconto fotografico del tuo progetto?
Questo è un momento molto tragico per il mio paese d’origine e per un certo numero di settimane non sono più stato in grado di fare foto.
Ma poi ho scoperto che forzarmi a fare le cose normali mi aiuta ad affrontare lo shock e l’ansia ed è una buona terapia per la mente quando tutto il resto cade a pezzi.
Io cerco intenzionalmente di non riflettere sulla guerra nel mio lavoro ma siamo una combinazione di esperienze ed emozioni ed essendo Ucraino, da questo nuovo contesto è a volte impossibile fuggire.
Le tue foto sono da considerare come sequenze connesse di una storia oppure come immagini singole separate che rappresentano degli stati emotivi? Approfondendo: c’è una differenza tra la storia raccontata da tutte le foto nel loro insieme e la storia raccontata da ogni singola foto?
Bella domanda! Per il momento queste immagini sono pezzi di un puzzle, ogni pezzo contenente la propria piccola storia.
Ma c’è decisamente la storia più ampia di un viaggio, da cui queste “cartoline” sono prese.
Poiché questa storia è ancora in fase di scrittura io stesso non so ancora dove condurrà e se sarò mai in grado di raccogliere tutti i pezzi mancanti per completare la grande immagine ma speriamo che questo accada un giorno e che io sia in grado di vedere di cosa si tratta.
Si dice che spesso i fotografi mettano nelle foto che fanno la loro storia personale. Notavamo che ad esempio la bambina astronauta sembra avere un’espressione del viso ricorrente in varie foto. E’ fatto di proposito per esigenze narrative? Pensi che ci siano somiglianze con te da bambino?
Come qualsiasi papà orgoglioso mi piace pensare che lei somigli a me da bambino ma non per la questione dell’espressione del viso.
In qualche modo ci aspettiamo che i bambini debbano essere “stravaganti” o che fingano. Alcuni adulti addirittura assumono un modo differente di parlare quando si rivolgono ai bambini ma lo trovo inutilmente paternalistico e non molto rispettoso. In queste foto mia figlia non fa finta, lei è semplicemente se stessa. E quando siamo soli, come in queste scene, la nostra espressione è di solito la stessa, abbastanza neutra e non accentuata quindi penso che questa espressione ricorrente sia autentica rispetto alla natura di questo progetto.
A tua figlia piace questo progetto e il travestimento da astronauta o avrebbe preferito un’altra maschera?
Finora le piace questo ed è come un “comfort familiare” ora… Ma i bambini cambiano spesso e domani potrebbe avere un’idea diversa quindi non ho nessuna illusione e seguo il flusso.
C’è qualcosa che l’ha particolarmente incuriosita o divertita dei luoghi scelti come location e delle pose assunte?
Cambia di volta in volta. Di solito l’ultima nuova location è quella più divertente perché rappresenta un’esperienza nuova e di solito chiede di tornarci diverse volte finchè la novità non finisce.
Il molo galleggiante del “Mariner Mission” è stato decisamente un pezzo forte soprattutto perché iniziava a dondolare nelle onde delle scie delle navi container che passavano.
Hai pubblicato una frase con scritto: “Se a volte si mettono dei limiti alla creatività, gli stessi possono essere dei booster” “…ossia degli incentivi. Che limiti hai messo nelle tue foto?
In pieno lockdown potevamo stare fuori solo 2 ore ed entro il raggio di 5km da casa, quindi dovevamo saper guardare “bene” per trovare l’ispirazione.
Un altro limite è quello della pellicola, con solo 10 scatti a rullino veramente ti costringe ad alzare il tuo standard e ad evitare qualsiasi scatto inutile.
Stai pensando all’idea di raccogliere le foto in un libro e magari qualche casa editrice te l’ha già proposto?
Si, è assolutamente una cosa che rientra nei piani futuri ma non ho ancora avuto abbastanza tempo per concentrarmici nel modo giusto.
Comunque, se dovesse accadere, farò in modo di essere sicuro che il libro copra la storia di un viaggio.
Intervista realizzata da Alessia Farina, Andrea Cibra, Dario De Biaggio, Ercole Grispo, Filippo Trojano, Giuliana Pizzuti, Laura Altobelli, Paolo Vescovo, Patrizia Buffone, Riccardo Abati, Rossella Casale.
Traduzione a cura di Patrizia Buffone