La seconda puntata di Incontri fotografici, una serie di incontri con fotografi e fotografe provenienti da vari luoghi del mondo che hanno scelto di costruire il proprio lavoro in ambiti diversi della fotografia, è con Valentina Vannicola: i suoi lavori possono essere inseriti nel campo della fotografia scenica, quell’area della fotografia contemporanea che si presenta come vere e proprie scene create secondo le dinamiche della cinematografia.
L’intervista è realizzata da Filippo Trojano, Giuliana Pizzuti, Patrizia Buffone, Dario De Biaggio, Riccardo Abati, Laura Altobelli, Andrea Cibra, Ercole Grispo, Rossella Casale, Paolo Vescovo.
Come nasce il tuo rapporto con la fotografia ed in particolare con la staged photography?
Il mio rapporto con la fotografia nasce dallo studio, da un percorso programmato e allo stesso tempo casuale. Sono sempre stata molto attratta dal testo e meno dalla tecnica, ho iniziato con gli studi classici proseguendo in Università con una facoltà umanistica con un indirizzo cinematografico. Ad un tratto ho sentito la necessità di provare a sperimentare alcune nozioni e dall’immagine in movimento sono arrivata alla fotografia: ero alla ricerca di uno spazio più intimo e privato in cui elaborare alcuni ragionamenti. Questo però non è da considerarsi come un passaggio o l’abbandono di un’arte per un’altra, si è trattato più che altro di una commistione, ho iniziato quasi da subito con il riproporre la struttura e la grammatica cinematografica nella costruzione di un’immagine o di una serie fotografica. Da qui nasce il mio rapporto con la staged photography, che ho cominciato a praticare senza conoscere il genere, anche perché non era una tendenza fotografica ancora così consolidata. Ciò che mi interessava era raccontare storie, sapevo che il cinema era l’apoteosi per farlo ma sentivo la necessità di portare la magia cinematografica nello spazio più silenzioso di una singola immagine.
Nelle tue immagini il tempo e lo spazio, proprio come nelle fiabe, sembrano sospesi. Sappiamo però che molte delle tue visioni sono ambientate nella Maremma Laziale, il luogo delle tue origini. Ti va di raccontarci qualcosa di questo tuo particolare legame con i luoghi dell’infanzia?
Credo che la nostra percezione estetica sia profondamente influenzata dal luogo dove siamo nati e cresciuti, almeno nei primi anni di vita. Il viaggio, gli studi, l’emancipazione o l’involuzione ci portano lontani eppure i nostri occhi sul mondo rimangono colmi delle visioni iniziali, o forse questo è quello che è capitato a me. Io ho un rapporto molto intenso con la mia terra d’origine, un luogo bello, fatto di natura e spazi infiniti, ma anche un territorio duro che a volte ho sentito troppo lontano da tutto il resto; eppure il mio sguardo è sempre saturo delle sue colline, dei suoi boschi, di vacche, cavalli e fango. La mia terra è un qualcosa di molto forte che mi porto ovunque mi trovo, la mia terra è un atteggiamento, il mio modo di stare al mondo. Di conseguenza, quando per la prima volta ho immaginato di lavorare alla trasposizione fotografica di un testo, allora di trattava di Le avventure di Alice nel paese delle Meraviglie (Lewis Carroll, 1865), mi è venuto naturale ambientarla nel paese dove sono cresciuta, coinvolgendo la mia famiglia e i miei vicini di casa nella messa in scena. Così è stato negli anni a seguire sino al raggiungimento, nel 2011, di un vero e proprio lavoro corale con L’Inferno di Dante.
Il teatro, il cinema, la scrittura; la costruzione fino ai minimi dettagli, perché questa scelta e non anche lavori fatti più di getto?
La mia pratica artistica non prevede l’improvvisazione anche se delle scelte casuali finali, a volte, determinano l’immagine. I miei lavori, in generale la staged photography, necessitano di una struttura particolarmente meticolosa, di una pianificazione, di un piano di produzione; muovono un apparato complesso che ha bisogno di un’ossatura stabile poiché coinvolge diverse sfere tecniche e soprattutto termina con l’atto finale di una messa in scena con attori non professionisti che non tollerano troppe possibilità di replica. Questa struttura è stata plasmata sin da subito, si è consolidata nel tempo e solitamente segue diverse fasi come: la scelta o la scrittura di una storia, la selezione degli episodi salienti o più rappresentativi e rappresentabili, la creazione di bozzetti preparatori, la stesura di uno storyboard, l’individuazione delle location, il lavoro di collaborazione con gli abitanti del territorio, gli abiti, i materiali di scena e, infine, lo scatto fotografico con attori non professionisti. Credo di poter affermare che il mio lavoro consista proprio nella costruzione, nella gestione e nella regia di questo apparato, la fotografia è quindi l’atto finale di registrazione di un’immagine immaginata.
Ci sono fotografi e/o artisti che sono stati tuoi maestri?
Nei miei studi mi sono nutrita di molto cinema, letteratura, pittura. Non riesco a definire un genere o un autore in particolare che mi ha influenzato più di un altro, o forse darei una risposta sterile, incompleta o addirittura scontata, che potrebbe seguire più l’aspettativa della domanda che la realtà dei fatti. Spesso ci capita di vedere nel lavoro di un autore delle influenze che egli stesso non sapeva di avere, addirittura delle citazioni di opere mai viste prima. La verità è che ciò che noi creiamo è una commistione di ciò che abbiamo esperito, studiato, letto o visto casualmente per strada; quindi più che dei maestri inossidabili preferisco immaginare un empireo sempre più ricco a cui poter attingere di volta in volta. Naturalmente vi sono dei capisaldi, come il fascino che da subito hanno esercitato in me il cinema neorealista, il realismo magico, l’attrazione per l’epica o per la simbologia della pittura sacra, non dimenticando le atmosfere rarefatte di Andrej Tarkovskij e le sue teorie fondamentali per la stesura della mia tesi di laurea sulla concezione acronologica del tempo in Won Kar-wai. Ecco, in questa frase appena conclusa molti stimoli differenti e apparentemente lontani tra di loro: forse così funziona la coltivazione del proprio empireo. Poi vi sono dei lavori, invece, che producono delle connessioni molto interessanti, cito in esempio uno dei miei ultimi progetti: Adorato Paesaggio, nato da una committenza del Laboratorio di cultura fotografica di Città della Pieve e in cui mi è stato chiesto di ragionare intorno al territorio pievese attraverso la pratica della staged photography. Da subito sono stata attratta dalla peculiare esteticità del paesaggio del Trasimeno elogiata soprattutto a partire dal Rinascimento, di lì è partito uno studio serrato di autori quali il Perugino, il Pinturicchio e il giovane Raffaello che sono di fatto dichiaratamente presenti nelle pose, negli scorci e nei colori delle immagini da me realizzate.
Uno dei tuoi aspetti operativi ricorda il cinema neorealista o ciò che facevano alcuni pittori dell’antichità nel prendere i modelli e “gli attori della strada”; come mai questa scelta e non dei professionisti?
Ciò che più mi attrae del cinema neorealista è la tensione costante tra realtà e finzione, uno dei garanti di questo equilibrio sono proprio gli attori non professionisti. Come per i modelli utilizzati dal Caravaggio, che fece scalpore proprio per aver utilizzato per la rappresentazione di figure sacre dei popolani, che hanno una potenza feroce che trabocca dalla tela e prosegue la sua narrazione all’infuori di essa. L’attore non professionista non è semplicemente una presenza nell’immagine è un significato, con la sua figura porta una storia sociale e antropologica che aggiunge una stratificazione narrativa all’immagine.
Con uno dei tuoi lavori sei entrata nella collezione del museo MAXXI di Roma, come ti fa sentire e che responsabilità ha secondo te oggi un artista?
Sicuramente entrare nella collezione di un Museo crea di per sé un senso di responsabilità ma anche di consapevolezza. Sono entrata nelle collezioni del MAXXI con due differenti lavori che hanno una genesi ed un valore differente, da non intendersi come maggiore o minore ma semplicemente come diverso. La prima acquisizione è stata nel 2020 con Universo Olivetti, in questo caso si è trattato di una committenza del Museo MAXXI sul patrimonio materiale e immateriale dell’Olivetti e della città di Ivrea, un’esperienza intensa che mi ha portato prima allo studio di una bibliografia scelta e degli archivi della Fondazione Adriano Olivetti e successivamente, una volta formulata l’idea, alla creazione dei set fotografici dentro gli edifici olivettiani eporediesi oggi patrimonio dell’Unesco.
La seconda acquisizione è avvenuta nel 2021 ed ha per me, per la mia ricerca, un senso molto profondo. In occasione del settecentenario della morte di Dante Alighieri, il Museo ha acquisito L’Inferno di Dante, un lavoro del 2011 che ha segnato il mio lavoro, strutturato la mia grammatica, un progetto realizzato con particolare dedizione, studio, mai abbandonato ma sempre nutrito e con la recente intensione di essere integrato con le altre due Cantiche.
Essere in una collezione pubblica ha sicuramente delle responsabilità e proprio per questo credo che il compito principale per un artista oggi, come ieri, sia quello di usare la propria condizione di privilegio per esprimere un’opinione, di contribuire a creare una coscienza, di scavare in profondità e dare una visione altra del mondo; su tutto, che si tratti di un’arte dichiaratamente di denuncia o meno, il suo compito è quello di dire la verità, di rimanere se stesso nonostante le strutture dominanti; continuare ad indagare, studiare, formarsi, approfondire per arrivare al raggiungimento di una voce autentica.
Come vivi il rapporto col web e la diffusione delle immagini sui social?
Oggigiorno il web ci offre delle enormi possibilità di promozione e diffusione del nostro operato, per un artista contemporaneo è diventato una parte integrante del proprio lavoro. Allo stesso tempo è uno strumento talmente potente che può divenire anche controproducente nel caso di un errato utilizzo, poiché sempre più spesso ciò che noi creiamo, come ciò che noi siamo, viene confuso con quello che postiamo. Io non credo di essere un soggetto particolarmente attivo sul web, non lo sono tanto quanto dovrei ma allo stesso tempo ho abbastanza cura della mia presenza virtuale e sono molto attratta da tutta quella sfera. Mi intrigano la grammatica, lo stile, i tempi, le pause, ho dei gusti precisi; di sicuro non riesco a star dietro alla richiesta di produzione o alla velocità di interazione ma sono cosciente delle potenzialità narrative dello strumento e allo stesso tempo sono una fruitrice di questi infiniti archivi estemporanei che ogni giorno posso scorrere sul mio cellulare.
Ci parli delle tue esperienze di insegnamento?
Mi piace avere un rapporto con gli studenti perché sono linfa incontrollata che dà linfa al mio lavoro. Non posso concentrarmi su un’esperienza o su una classe in particolare poiché ognuna ha avuto le sue rivelazioni o complessità. Che si tratti di un corso o di una singola lezione, credo che l’insegnamento abbia anzitutto enormi responsabilità: che tu sia tra i banchi, in cerchio o dietro una cattedra sei nella condizione privilegiata e onerosa di esprime dei pensieri, delle opinioni, dei concetti che verranno accolti, confutati, comunque assorbiti. Quindi un’esperienza che va preparata, meditata, formata.
Diverse giovani fotografe italiane stanno lavorando molto bene nell’ultimo periodo con riconoscimenti importanti: Di Prospero, Ricci, tu stessa, c’è un filo conduttore che unisce queste donne artiste?
Non so se vi sia un filo conduttore, l’unica certezza è che siamo contemporanee e quindi probabilmente espressione di un preciso tempo storico insieme a tanti altri artisti della nostra generazione. Di sicuro bisogna stare molto attenti, a non fare un collegamento di genere poiché la produzione artistica non ha un genere, è un qualcosa che va oltre il genere, che deve andare oltre. Altrimenti si può cadere nell’errore di valutare un lavoro partendo da questo, dunque svalutandolo o sopravvalutandolo in partenza.
Rispetto all’impegno sociale che avevano le fotografe italiane del secolo scorso come Letizia Battaglia o Lisetta Carmi, quale filo senti di avere con loro e quali invece sono stati tagliati?
Ho osservato più volte con ammirazione il lavoro di Letizia Battaglia, lei ha vissuto i tempi complessi in cui era faticoso essere l’unica donna in una redazione di uomini, i tempi in cui la questione di genere era un tema forte su cui si è spesso scontrata. La sua è una fotografia potente, che ha documentato gli anni di piombo, i delitti di mafia scuotendo gli animi e l’opinione pubblica. Ugualmente lodo il lavoro di Lisetta Carmi, il suo sguardo sull’India e sui caruggi di Genova. In ogni caso si tratta di generi fotografici lontani dal mio, che ho amato, assaporato, studiato ma di cui non posso seguirne il filo perché facente parte di una branca della fotografia differente: sarebbe come ricercare delle affinità tra un documentario e un film di finzione o di fantascienza.
Spesso in molta fotografia contemporanea di ambiti diversi si ritrova una sorta di assenza nel volto dei personaggi o le persone fotografate; di solito inquadrate di 3/4 con lo sguardo verso un punto esterno all’inquadratura, con una certa apatia nell’espressione del viso; questo è presente anche in alcuni tuoi scatti, come quelli realizzati all’interno dell’università La Sapienza. Cosa significa, e perché secondo te viene fatto in modo così diffuso?
Nel mio caso lo sguardo che finisce fuoricampo è una scelta funzionale allo sviluppo della diegesi. Lo sguardo in macchina presuppone un rapporto con lo spettatore, per utilizzare termini cinematografici, potremmo dire più precisamente che corrisponde ad un’interpellazione, un chiamare in causa qualcuno e quindi apparire come il segno di “un’enunciazione enunciata”, cioè il caso in cui il soggetto dell’enunciazione viene dichiarato esplicitamente, dove l’enunciatario si afferma nell’enunciato minando in qualche modo l’apparato di finzione. La seconda motivazione di questa scelta è ancora una volta legata alla diegesi dell’immagine: spesso lo sguardo del personaggio è rivolto verso l’esterno creando con questo una forma di comunicazione e aprendo così i limiti dell’inquadratura, come a dichiarare un dialogo oltre questi, quasi ad annullarli e offrendo allo spettatore la possibilità di ampliare la percezione narrativa, estenderla oltre il campo visivo ed immaginarne altri possibili sviluppi.
In alcuni casi capita a molti fotografi che arrivino dei lavori commissionati che aprono strade di ricerca inaspettate; nel tuo caso ricordiamo quello per L’Espresso, dove simulasti la vita su Marte. Vuoi raccontarci di qualche altra esperienza particolare?
Nell’ultimo periodo ho lavorato in Portogallo ad una committenza, per il Festival Todos e l’Istituto Italiano di Cultura di Lisbona, in cui mi è stato chiesto di ragionare sul quartiere periferico lisboneta di Santa Clara. I tempi di una committenza sono solitamente molto serrati, per di più in questo caso mi trovavo all’estero, in un contesto abbastanza complesso e mai visto prima; forse proprio questa particolare condizione ha generato una ricerca molto profonda, una totale immersione dentro una storia, un progetto, un nucleo di persone. Anche in questo caso, ho iniziato con lo studio di una bibliografia scelta, seguito dall’analisi del tessuto sociale e territoriale attraverso un periodo di residenza. Soprattutto in questa fase ho avuto la possibilità di confrontarmi con i paesaggi e gli abitanti del luogo mettendo in atto le dinamiche tipiche della mia ricerca, sino al coinvolgimento degli abitanti per la creazione di un racconto fotografico che passa per la messa in scena di meticolosi tableaux vivant. Il progetto prende spunto dal mito fondativo di Lisbona che vede come protagonista Ulisse, figura che incarna l’idea del viaggio inteso come esplorazione, peregrinazione, abbandono, sfida e approdo. In quest’ottica la metafora del viaggio viene utilizzata per narrare la freguesia di Santa Clara, punto di incontro di molteplici realtà etniche e sociali, ma viene estesa anche a tutto il Portogallo, terra ai confini della terra, porta protesa verso il mare. Le immagini, allora, attraverso la messa in scena del mito, di episodi storici o legati alla tradizione, propongono un affresco del territorio della periferia lisboneta dove ogni elemento diventa un simbolo e il segno di una memoria.
Il progetto dal titolo Ulisses, desembarque em Santa Clara sarà inaugurato a Lisbona durante il festival Todos nelle giornate del 10 e 11 settembre 2022, presso la Escola Maria da Lus Deus Ramos.
Che rapporto hai con la stampa delle tue immagini, ci racconti come arrivi a quella fase e cosa è per te un’immagine sulla carta?
La stampa dell’immagine ha un ruolo fondamentale, come se riconoscessi in questa l’opera finale, quella realmente conclusa. Finché l’immagine rimane digitale può assumere diverse sfumature, colorazioni, tagli, poi finalmente arriva la stampa che in qualche modo chiude un lavoro donandogli compostezza, sradicandolo dalla turbolenza dell’incertezza e dell’infinita possibilità di modifica di un file; una volta che l’immagine è stampata diviene compiuta e libera dalle minacce di infinite variazioni impercettibili sul tema. Soprattutto mi riferisco ad un tipo di stampa fine art, che viene seguita da dei professionisti che conoscono i miei files, i miei colori e anche i miei dubbi. In questo credo che sia molto importante stabilire un rapporto di fiducia con il proprio stampatore, io penso di averlo raggiunto con lo studio Digid’A che da anni segue le mie stampe, ha imparato a gestire le mie cromie, i miei gusti ed io a comprendere quali sono i passaggi che faranno prima di andare in stampa, come toccheranno la saturazione, i contrasti. Naturalmente non in tutti i casi vi è la possibilità di portare a termine un lavoro con un proprio team, a volte vi sono anche altri validi professionisti che vengono coinvolti in un progetto oppure dei casi in cui l’allestimento richiede delle immagini su altri supporti o dimensioni; in ogni caso la stampa rimane l’atto finale ed ho sempre una particolare tensione nel vederla esposta per la prima volta, è come una prima: non si può tornare indietro e da quel momento sarà offerta al pubblico nella sua matericità.
Sei mai passata dall’altra parte della lente e come è per te farti fotografare?
Non mi piace troppo essere fotografata, mi piace raccontare ciò che sta intorno a me o all’infuori di me, di noi. Non mi sento troppo a mio agio nell’immagine.
Ci racconti di una foto mancata?
Esterno giorno, alba, gli anni degli inizi. Il meteo, di cui sono un’ossessiva consultatrice, aveva stabilito che quella mattina ci sarebbe stata foschia, i giorni precedenti erano stati carichi di umidità e le colline erano perennemente avvolte da una nebbia densa. Appuntamento per le 5.00 di mattina all’entrata del bosco, il buio rende ancora i colori assopiti ma io ho già il presentimento che sarà una mattina tersa. Arriviamo sul luogo, con me circa sette persone tra comparse ed aiutanti, prevalentemente amici o familiari. Ormai è chiaro: non ci sarà alcuna nebbia quella mattina, ma spero comunque fino alla fine in una particolare condizione di luce. Tutti sono coscienti, sanno che siamo lì per la nebbia che non c’è ma senza dire nulla indossano i propri costumi e s’iniziano ad arrampicare sulla quercia stabilita come programmato. La performance dura poco, il tempo di far scivolare qualcuno da un ramo e poi mi arrendo, ancora non mi era mai capitato, confesso, ammetto: lo scatto non può essere realizzato, non vi sono le condizioni, non è come lo avevo immaginato e non ne rimarrei soddisfatta. Tutto rimandato.
Forse credo che oggi, molti anni dopo quell’alba, non potrei permettermi un errore simile o comunque la possibilità di non trovare una soluzione, un’alternativa. Eppure ogni volta che passo di fronte a quella quercia penso a quanto sia più bella la sua sostituta.