Dopo vari film documentari che seguono, da varie angolazioni, i difficili destini migratori di individui e popoli in fuga, smascherando i vuoti e le problematicità delle politiche nazionali ed europee in tema di accoglienza (Just About My Fingers, 2012; Terra di transito, 2014; Doppio gioco a Melilla, 2015; Il consiglio di Idomeni, 2016; Split Moments, 2014), Paolo Martino torna nei luoghi che potremmo definire “originari” con Pratomagno (di P. Martino e G. Bonavias, 2019, 30min).
Pur non facendo parte della sua biografia, le valli del Pratomagno (nell’aretino) rappresentano le radici che richiamano la sua storia personale e il tema del ritorno alla terra natìa.
In questo ultimo mediometraggio un adulto rimette piede e occhi laddove era cresciuto e aveva depositato i suoi ricordi più belli, ma finisce per trovare solo pioggia e fango.
Dove sono le sorgenti di acqua fresca in cui ristorarsi? Dove sono le pecore da portare al pascolo, le mucche con il loro latte mattutino, le distese verdi su cui correre o riposare, e le cene collettive in cui c’è sempre posto per chi ha fame? Ma soprattutto, che fine avrà fatto il compagno di giochi che in una notte qualsiasi decide di intraprendere un altro viaggio della fortuna per tornare nel suo paese?
Forse questo ultimo lavoro del regista non si allontana poi molto dalle riflessioni che avevano animato tutti gli altri, si fa solo più intimo, riprendendo la tematica del viaggio e rispecchiandola su un ipotetico sé stesso, bambino e adulto. Ci dimostra inoltre che la migrazione è la condizione di base della storia personale e collettiva che viene incisa nei secoli e nei territori, con buona pace della retoriche xenofobe e razziste sempre più istituzionalizzate e delle varie politiche che vorrebbero limitare gli spostamenti umani per difendere il privilegio della cittadinanza europea.
E.F.: Lo spopolamento delle zone rurali è un fenomeno corroborato da dati sistemici, solo in parte contrastato da un recente flusso controcorrente che, complice la passata pandemia, gli affitti sempre più inaccessibili, l’enorme flusso di abitanti (turisti e no) della città, compie il cammino inverso, dalle zone urbani a quelle rurali, o comunque a conglomerati più esigui e più vivibili. Hai fatto un lavoro di ricerca su queste tematiche per scrivere il film o ti sei lasciato più che altro coinvolgere dalla storia umana di Alberto, un bambino nato a Pratomagno, e Sulayman, un adulto arrivato dal Gambia? Come ci sei entrato in contatto?
P.M.: É bastato vederli interagire pochi secondi. Ancora lo ricordo: da lontano, mentre scendevano, venivano verso la stalla. Albertino aveva in mano una pala e aveva la gestualità di un adulto e Sulayman gli camminava a fianco contemplando queste sue movenze. Capii subito che c’era un’intesa unica. Non sapevo che Sulayman sarebbe partito di lì a poco e quando l’ho scoperto è cominciato il film.
Lo spopolamento è un fenomeno sotto gli occhi di chiunque abbia una visione attenta dell’ambiente e della realtà. Tuttavia Pratomagno non nasce da un’analisi demografica e scientifica della situazione. Pratomagno nasce dall’osservazione di quello che avviene tra i protagonisti, nasce da un contatto umano che, come sempre accade quando un autore trova una storia, si è rivelato avere una funzione catartica. É molto semplice: ho incontrato i protagonisti e ho sentito che raccontare questa storia mi avrebbe fatto crescere, avrebbe fatto capire molte cose anche di me.
E.F.: Ho trovato molto azzeccata la decisione di distinguere i due piani temporali grazie all’uso di due forme differenti – il documentario e l’animazione – affidando alla seconda il compito di portarci nel futuro, in ciò che ancora non esiste e non può essere rappresentato con persone in carne e ossa . Qual è stato il processo ideativo e creativo che ha portato a questa riuscita forma di collaborazione fra due registri e fra due autori?
P.M.: La collaborazione fra me e Gianfranco Bonavias è nata proprio su questo film, anche qui su impulso della produzione, di Tommaso Orbi in particolare. L’idea di unire i due linguaggi ha creato molte sfide, per entrambi. Sia io che Gianfranco ci cimentavamo in una co-regia per la prima volta, pertanto il processo creativo andava costruito in itinere, insieme al film, e si è creato anche un metodo per lavorare insieme. Fin dall’inizio ci è sembrato che le potenzialità dell’animazione andassero sfruttate al massimo nella costruzione di un immaginario futuro. Le scritture sono state molte e il risultato finale è una sintesi estrema.
E.F.: Nel mediometraggio sentiamo questa stupenda complicità amicale tra un bambino nato a Pratomagno e un giovane uomo che ci è arrivato dopo un (sicuramente) traumatico viaggio per mare dal Gambia. I due si muovono in un contesto incantato in cui i loro gesti e il loro stesso vivere appare in completa armonia con il paesaggio e la fauna del luogo. Solcano i fiumi insieme, dialogano con gli animali, si riposano sui prati estivi, si capiscono con poche parole. Quanto Pratomagno – e, per estensione, qualsiasi luogo in cui si recupera un contatto con la natura, con gli animali e con il tempo – facilita questa amicizia spontanea e pura?
P.M.: La risposta è sicuramente affermativa, ma lo è nel senso che la natura rappresenta uno spazio ormai marginale rispetto a quello che la società riserva per l’uomo. Pertanto ogni spazio marginale è un luogo vero, d’incontro, come può esserlo anche la periferia di una grande città europea, o il centro di Napoli, per capirci. Questo luogo (Pratomagno, ndr), anche se così armonioso e delicato, in realtà ha in sé tutte le contraddizioni della vita stessa. E tuttavia non le respinge, anzi le accoglie.
E.F.: L’avvenimento che sembra aprire simbolicamente le porte di un futuro a tinte fosche è il desiderio di Sulayman di tornare nella sua terra, come se la sua dipartita (che non vediamo ma di cui si parla) facesse deflagrare la vita su questa montagna tra il Valdarno superiore e il Casentino, determinandone il suo abbandono. Qualè la connessione fra questo “oscuro presagio” e il paesaggio desolante che Alberto ritrova quando torna nel posto in cui è cresciuto?
P.M.: Sicuramente c’è una relazione fra la partenza di Sulayman, il suo desiderio di tornare a casa, e lo scenario apocalittico che evoca il film, quindi la grande pioggia, la fine delle terre emerse, l’alluvione, etc. La grammatica del film, però, parte da un altro aspetto che è distribuito in tutta l’opera e cioè che Albertino, parallelamente alla partenza di Sulayman (e all’esperienza di questo addio), dovrà fare i conti con la fine di una fase della sua vita, quella della prima infanzia (che poi è l’infanzia di tutti), e con l’urgenza e l’impellenza di entrare in una nuova fase. Credo che in tutti quanti noi adulti l’infanzia eserciti questo doppio ruolo: da una parte un’età imbalsamata della quale ricordiamo molte belle cose ma, allo stesso tempo, c’è il mistero di esserci passati, sopravvissuti, senza neanche ricordare bene come. Sono anni di cui ricordiamo pochissimo e questo, secondo me, è un fatto molto misterioso.
E.F.: Quest’ultima domanda vale per Pratomagno quanto per tutti gli altri lavori che hai fatto finora. Cosa entra di te nelle immagini, nella scrittura, nella fotografia, nei personaggi che vediamo di fronte a noi? Cosa ci lasci attraverso i tuoi film? E in questo in particolare?
P.M.: Il tema del distacco e del viaggio, che si compie sempre nel ritorno. Anche qui Pratomagno è stato di grande aiuto perché Sulayman, andando controcorrente rispetto a quello che è la nostra comprensione del fenomeno migratorio, ha deciso di tornare nel paese natale. Ma in verità il viaggio lo si compie sempre quando si torna, che lo si faccia fisicamente o che si ragioni, una volta arrivati, su chi eravamo prima di partire. C’è un legame fortissimo con questo tema in tutte le opere. I primi tre film che ho fatto li ho chiamati “La Trilogia del Viaggio” (per uno dei tre non c’è stata ancora un’anteprima) e affrontano in maniera più diretta il tema del viaggio. Con Pratomagno invece il lavoro ha assunto una parvenza più simbolica e più poetica.