Riportando tuttə a casa – Recovery (Mental Health) Fund?

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29 Gennaio 2021

L’eredità basigliana all’ombra della sindemia Covid-19

Sindemia e crisi della salute mentale pubblica

Il secondo anno consecutivo di Pandemia ha consistentemente messo in evidenza il collasso sindemico del sistema sanitario neoliberista  globale. Voci prominenti, come quella del medico britannico Richard Horton ed editor in chief della rivista medica tra le più reputate al mondo, the Lancet, hanno certificato il fallimento dell’organizzazione privatistica ed elitista che negli ultimi 20 anni si è imposta, esportando il modello occidentale di divide nella cura da Nord a Sud e facendo della salute una brutale questione di genere, razza e classe.

Il concetto di sindemia (dall’inglese syndemic, a sua volta da syn(ergy) (‘sinergia’) o syn(ergistic) (‘sinergico’) ed (epi)demic (‘epidemia’) è stato introdotto dall’ antropologa medica Merrill Singer negli anni ‘90 a sottolineare il complesso intrecciarsi ed embricarsi di determinanti bio-psico-sociali nella produzione sociale della salute.

Horton, nel riconoscere la natura sindemica della crisi COVID-19, sottolinea le cause sociali che hanno prodotto la catastrofe sanitaria a livello globale e conclude il proprio editoriale affermando che né vaccini, né farmaci bensì una complessa visione ed  azione che si preoccupi della promozione della sicurezza alimentare, educativa, abitativa, lavorativa e (aggiungiamo noi) della salute mentale globale, potranno gettare le basi per una fase di ricostruzione sostenibile durante e dopo la Pandemia[1].

Mai come in questo momento, in Italia, si rende indispensabile considerare cosa possa significare in termini di impatto sociale la sistematica espoliazione del sistema sanitario nazionale a vantaggio di esperienze di eccellenza specialistica privata, costosissime e distanti anni luce da concetti dirimenti in salute pubblica quali quelli di territorializzazione della cura o di medicina sociale.

Nelle maglie di questa feroce operazione di monetarizzazione del bene comune, la Salute Mentale è nel corso dell’ultimo ventennio diventata emblema di una concezione prettamente elitaria e discriminatoria della cura di qualità.

L’accesso alla cura psicologica è cosa per quei ricchi che possano permettersi lunghi e costosi percorsi in strutture private. Parafrasando le parole del nostro ex assessore alla salute in Lombardia, le lussuose stanze delle terapie private che, purtroppo, ad oggi, non sono state ancora messe generosamente a disposizione di chi non se le può permettere. Eppure, in piena emergenza pandemica,  in termini di diffuso e costante stress psico-sociale, di trauma collettivo e di insicurezza percepita, ci sarebbe gran bisogno, per non dire urgenza, di accessibilità sostenibile e gratuita a servizi per la salute mentale individuale e di comunità di eccellenza.

 

 

In un rapporto del 2017 ISTAT rileva un declino della salute mentale nei giovani e negli adulti, un aumento delle depressioni legate alla lunga crisi economica, allo status economico, al genere e all’esclusione sociale delle persone sofferenti[2].

Le persone in cura psichiatrica in Italia si aggirano intorno alle 851,000 unità, con 2,8 milioni di italiani che nel 2015 hanno sofferto di depressione. Ancora più preoccupante è ciò che il sistema pubblico nazionale e territoriale riesce a mettere a disposizione della popolazione in materia di benessere psicologico e cura. Nel 2017 l’incidenza della spesa sanitaria è stata del 2,3%,  lo 0,2% del PIL nazionale. Secondo Agensir, l’Italia, ultima in Europa,  produce 9 posti letto per cure psichiatriche ogni 100.000 abitanti, contro i più di 170 del Belgio, primo Paese in Europa.

Il Sud d’Italia è l’area a soffrire di più dell’assenza di risorse con, ad esempio,  un’allocazione inferiore al 3,5% in Campania, contro la soglia del 5% fissata come limite del contributo del bilancio annuale alla Salute mentale regionale e  stabilito dalla Conferenza Stato Regioni. Cifre irrisorie.

Il privato sociale accreditato, a partire dalla seconda decade degli anni 2000, ha sempre più preso piede parallelamente a un progressivo e radicale ritirarsi del pubblico dal servizio di salute mentale territoriale e locale. Ad esempio, le Unità di tutela minori, così come i Centri di Terapia Familiare, fiore all’occhiello alla fine degli anni Novanta e inizio del Duemila delle Aziende sanitarie locali nel territorio milanese, scomparvero per lasciare spazio a cooperative private appaltatrici. I consultori familiari, vieppiù, smantellarono in quegli anni i servizi terapeutici per aumentare le funzioni di monitoraggio e valutazione, piuttosto che di erogazione di servizi.

Vacuum del pubblico solo parzialmente vicariato dal privato accreditato e che ha progressivamente portato a un deterioramento del progetto basagliano di salute mentale di comunità territorializzata contenuto nella legge 180 ed a una sostituzione dell’istituzione totale manicomiale con l’estensione del regime di trattamento sanitario obbligatorio nei reparti psichiatrici congestionati dei grandi ospedali regionali. Ad oggi, la salute mentale pubblica è di appannaggio quasi esclusivo dell’ospedale.

 

 

La china italiana di progressiva dismissione di interesse e risorse verso il benessere soggettivo e la promozione della salute mentale collettiva non collima con la crescente sensibilizzazione di organi sovranazionali come l’OMS sulla materia e di Paesi che si pongono all’avanguardia in termini di soddisfazione e qualità della vita della loro popolazione civile.

A tal proposito, uno dei pronunciamenti cardine dell’organizzazione mondiale della sanità in materia di salute mentale recita l’impossibilità di pensare alla salute nel suo insieme senza che non vi sia benessere psicologico della persona. Di conseguenza, la salute è definita come uno ‘stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non la mera assenza di malattia e infermità’ (WHO 2001, p.1). La stessa salute mentale viene pensata da OMS oltre la mera assenza di sintomi psicologici, piuttosto come un complesso e multidimensionale affare che interessa fattori socio-economici ed ambientali, comportamentali ed emotivi che devono essere promossi da politiche globali di salute pubblica[3].

La salute mentale nel sistema attuale è dunque, come la salute nel suo complesso, eminentemente una questione economica e di investimenti da parte degli Stati che riguardino la promozione della qualità della vita e del benessere soggettivo.

Ed ecco che la Nuova Zelanda ha stanziato, prima al mondo, un budget di miliardi di dollari da investire sulle fasce più vulnerabili e promuoverne, dunque, la salute mentale. La Nuova Zelanda ha disegnato il proprio intero budget per la salvaguardia e promozione del benessere dei propri cittadini. Siamo ben lungi dagli spiccioli che il nostro sistema sanitario nazionale raccoglie di finanziaria in finanziaria annualmente: 1,9 miliardi di dollari neozelandesi (980 milioni di sterline) sono stati dedicati esclusivamente alla salute mentale.

Mezzo miliardo dedicato a quelle patologie ‘leggere’ che non richiedono ospedalizzazione, mezzo miliardo ai presidi territoriali e a seguire stanziamenti per la lotta contro la violenza di genere, per la promozione della salute mentale infantile, eccetera. Raccogliendo alla lettera le indicazioni dell’OMS, la Nuova Zelanda ha messo il benessere psicologico al centro dell’investimento pubblico in materia di Sanità. E questo a prescindere da stanziamenti straordinari o di ristoro a seguito della Pandemia[4].

Oggi, l’Italia si trova a gestire, come non mai, una mole enorme di denaro iniettato dall’Europa attraverso il Recovery Fund, nel sistema nazionale. Cosa ne è della Salute Mentale nel piano di ricostruzione così come presentato dal malandato governo Conte e nelle prospettive delle sbraitanti e folkloristiche opposizioni di centro e estrema destra? Non pervenuta.

 

 

Sintomi e disuguaglianze

Una domanda che si sta producendo nell’opinione pubblica e tra i cittadini rispetto all’utilizzo dei finanziamenti europei del Recovery fund è sul come utilizzare questi fondi, su cosa finanziare. Ci chiediamo dunque, lasciando andare un po’ l’immaginazione, ma se una parte del fondo di salvataggio fosse realmente stanziata per intervenire sulla salute mentale in Italia, come andrebbe investita?

Partiamo ancora una volta da una (triste) premessa, cioè quello che finora dall’inizio della pandemia è stato attuato dal Ministero della Salute per intervenire sul tema della salute mentale in questo contesto.

Durante la fase 1 della Pandemia, in uno stato avanzato del lockdown, il ministero contattò le principali società scientifiche italiane di psicologia e di psicoterapia, chiedendo loro pronta adesione a una campagna di intervento di secondo livello (nello specifico si chiedevano 4 incontri di consulenza psicologica telefonica) per far fronte all’emergenza psicologica Covid-19.

Il servizio sarebbe durato un mese. Del tutto a livello volontario. Molte realtà anche accademiche aderirono e un po’ perplesse risposero alla chiamata. Dopo un mese tutto finì e la questione psicologica della crisi pandemica poteva dirsi sistemata e non se ne seppe più nulla.

Questa triste storia non è altro che l’immagine -vissuta- di ciò che accade quando i progetti di secondo livello per la salute mentale non vengono finanziati.

A questo si aggiunga, nelle settimane precedenti, una lettera allarmata del presidente Nazionale degli Psicologi che si chiedeva e chiedeva al titolare del dicastero della salute come fosse possibile che a professionisti altamente qualificati, in una condizione senza precedenti di emergenza psicologica prolungata, venisse chiesta disponibilità e azione immediata a esclusiva prestazione volontaria senza prevedere alcun budget. Un disastro.

Torniamo, allora, alla nostra domanda. Come avrebbero potuto essere spesi i soldi se, tra la ricerca di un costruttore e di un volonteroso, il nostro Primo Ministro si fosse accorto o ricordato che in Italia abbiamo un’urgenza rispetto alla Salute Mentale?

Per provare a immaginare come si potrebbe intervenire non pretendendo lavoro gratuito ma stanziando i fondi necessari, sembra fondamentale partire da una premessa sociale e politica: la situazione pandemica attuale e il suo impatto sulla salute mentale, che abbiamo definito come trauma collettivo in un nostro articolo apparso su un numero monografico dedicato a cura e Pandemia dalla rivista Jacobin Italia[5], non è naturale e neppure imprevedibile, ma conseguenza di politiche economiche e sociali specifiche.

L’agenda neoliberista, le dinamiche dell’economia politica del capitalismo globale dell’ultimo ventennio e le specifiche politiche economiche e sociali vigenti nell’Unione Europea e nei suoi paesi membri non vanno analizzati solo come fattori accessori in questa valutazione. Sono bensì fattori determinanti e strutturali delle critiche condizioni della salute mentale della popolazione, in Italia e nel Nord Globale.

I dati delle conseguenze della pandemia sulla salute mentale nel nostro Paese sono ancora incerti e preoccupanti. Sono state avviate dall’ ISS tre indagini per valutare l’impatto sulla vita quotidiana e le ripercussioni della pandemia sull’equilibrio psico-emotivo della popolazione, inclusa la domanda di ricorso a specialisti della salute mentale, di cui attualmente non abbiamo ancora i risultati.

Anche a livello internazionale ricerche epidemiologiche sull’aumento della sofferenza mentale in seguito al Covid-19 e alle politiche di contenimento della pandemia iniziano a leggersi sulle riviste scientifiche, molte sono tutt’ora in corso. Ne risulta un ampio riscontro di significativi innalzamenti di sintomi ansiosi, depressivi, disturbi del sonno, come conseguenza delle costrizioni del lockdown; in particolare nel personale infermieristico sanitario[6].

I dati che emergono da queste ricerche hanno però necessità di essere letti e compresi all’interno delle dinamiche sociali e non in modo neutro e acontestuale. Vanno viste in controluce con le ricadute concrete e le condizioni materiali sociali che hanno prodotto le politiche economiche neoliberiste di privatizzazione della cura e i tagli quarantennali allo stato sociale, alla sanità in particolare come abbiamo già descritto, infine l’erosione di diritti sociali in funzione della massimizzazione estrema dei profitti.

L’aumento delle sintomatologie di sofferenza psicologica va quindi letto alla luce della specifica difficoltà strutturale dei servizi pubblici di salute mentale, e delle comunità e centri diurni spesso ridotti a chiudere o a non poter svolgere a pieno le loro attività, e che rendono ancora più forte la difficoltà di accesso a cure psicologiche per chi non ha le risorse per sostenere i costi dei servizi privati.

“Non esiste la società, esistono solo gli individui” diceva Margaret Tatcher. E’ in questo modello economico ma anche psicologico ed emotivo, proposto e imposto da oltre quarant’anni che dobbiamo individuare i prodromi della disgregazione dei legami sociali e collettivi, dell’ampliarsi del senso di isolamento e solitudine nelle aree urbane, in funzione di una centralità unica della lavoro ipersfruttato e del consumo. Sono le caratteristiche che vediamo drammaticamente oggi anche nei sintomi di sofferenza psicologica più diffusi, pre-esistenti ed esacerbati durante la pandemia.

Le dimensioni delle disuguaglianze strutturali, di genere, razza, classe, orientamento sessuale, le condizioni di sfruttamento e ipersfruttamento lavorativo che spesso si sono amplificate durante la pandemia per diversi settori (pensiamo al settore della logistica, del delivery food, della cura della persona nel lavoro domestico ma anche della sanità), le possibilità sostanziali di accesso alle cura sanitarie generali diseguali in base alle proprie condizioni sociali vanno analizzate e comprese per il peso che hanno nel determinare le condizioni di salute mentale della popolazione civile in Italia.

Dunque, per comprendere dove e come intervenire a livello di finanziamenti per la salute mentale, non sembra sufficiente diagnosticare le forme del malessere delle società colpite dalla pandemia, ridurle a fattori individuali di natura biologica e variabili sociali secondarie, ma analizzare a fondo le cause non solo virali ma sociali, sindemiche, economiche e politiche di queste sofferenze.

Mark Fisher affronta il tema della patologia all’ombra del capitalismo biopsicologico rampante e ci fornisce una lente molto utile con cui guardare a questo nesso: “Che qualsiasi malattia mentale possa essere rappresentata come un fatto neurologico è chiaro a tutti. Ma questo non ci dice nulla sulle cause. Se per esempio è vero che la depressione generalmente comporta un basso livello di serotonina allora quello che va spiegato è perché in determinati individui il livello di serotonina sia basso. Farlo però richiede una spiegazione sociale e politica (…)”[7].

 

 

Risorse per il cambiamento

Partendo da queste premesse e queste valutazioni, verrebbe dunque spontaneo intervenire con dei potenziali fondi con il potenziamento dei servizi di salute mentale pubblici: assunzioni di massa di psicologi/he e operatrici-tori nelle strutture territoriali dedicate e nei reparti ospedalieri, miglioramento delle condizioni salariali e di lavoro in questi settori, investimento su formazioni specifiche per la fase pandemica, moltiplicazione dei posti di ricovero e di ricezione territoriale, sostegno alle comunità e centri diurni esistenti. Sarebbero tutti sicuramente interventi molto importanti e sicuramente da attuare. Ma che risulterebbero comunque insufficienti e incapaci di rimuovere le profonde determinanti socio-politiche della sofferenza mentale.

Individuiamo due piani su cui fondare un piano di intervento di salute mentale che provi ad andare oltre: la riduzione di disuguaglianze strutturali e la promozione di strutture territoriali mutualistiche e partecipate.

Per quanto riguarda il primo livello, pensiamo che gli interventi necessari siano piuttosto evidenti: sono più che mai urgenti delle politiche di radicale redistribuzione economica, che intervengano sui salari e i redditi di chi ha poco o nulla, attraverso l’istituzione di un salario minimo europeo e di un reddito incondizionato di base per fare solo qualche esempio, che ripensino alle radici il welfare state per farlo tornare ad essere realmente universale, che permettano un accesso reale e più che mai gratuito a diritti che dovrebbero tornare inalienabili come la casa, una sana alimentazione, l’accesso alla cultura e all’istruzione.

E’ necessario, prendendo spunto dalla Costituzione italiana, rimuovere gli ostacoli economici e sociali alla salute mentale, oggi accessibile solo da chi vive in condizioni di agio, intervenendo in modo sostanziale sulle disuguaglianze strutturali e sulla violenza quotidiana motore della nostra società. Mettere al centro le condizioni e le specifiche esperienze e necessità di lavoratrici e lavoratori, disoccupati/e, delle donne, le persone LGBTIAQ+ e persone razzializzate.

Si tratta di ribaltare gli obiettivi e le priorità delle politiche economiche nazionali, europee e globali, per ri-centrarle sulla cura e sulla vita delle persone, sulla dignità della persona prima della tutela dei grandi interessi economici privati. Tale forma di intervento potrebbe essere  definita come un piano di politiche della cura contro le disuguaglianze, che intervenga su un miglioramento sostanziale delle condizioni di vita e lavoro della società come condizione fondamentale per migliorare il benessere soggettivo e la salute mentale collettiva.

Per quanto riguarda il secondo piano di intervento, quello che interessa le strutture territoriali, senza cui il primo piano non avrebbe gambe per camminare da sé, partiamo da un parallelismo: il quesito cruciale della sanità generale rispetto alla situazione pandemica ci sembra essere ancora la ricostruzione di strutture di medicina territoriale, constatando che quello che esiste a livello di medicina generale e di medicina di base sia totalmente insufficiente.

Cosa significa sviluppare oggi delle strutture di psicologia territoriale? Ci sembra che oltre agli spazi pubblici esistenti, che risentono di una strutturazione dei servizi pubblici specifica che andrebbe anch’essa messa a critica insieme al progetto neoliberista che li ha intaccati, possano esistere e già si stiano praticando delle possibilità alternative.

Ci riferiamo a tutte quelle realtà collettive e comunitarie, spazi bene comune, centri associativi, centri sociali, comitati di quartiere, sigle sindacali, società professionali, gruppi di cittadine/i informali, che stanno mettendo in pratica interventi solidali nell’emergenza per rispondere alle necessità impellenti della pandemia (dalla spesa, alla cura dei bambini, alla casa, al reddito, alla salute), e in particolare a quelle esperienze specifiche di sostegno psicologico solidale gratuito, costituito da sportelli volontari attivati da psicologi/he e psicoterapeuti spesso in collaborazione e in rete con altre attività solidali.

Queste esperienze hanno da anni o a volte da decenni un importante radicamento sociale, spesso nei quartieri popolari e periferici delle metropoli o nelle piccole città di provincia, e nella pandemia sono state catalizzatori di un’attivazione sociale ampia nel rispondere a questi bisogni e nel ricostruire relazioni comunitarie, mutualistiche e collettive, mantenendo le distanze fisiche necessarie alla tutela dal virus ma intervendo sull’isolamento sociale brutale che si è amplificato in questi mesi. Relazioni solidali che rispondendo a bisogni di vita e sociali fondamentali stanno avendo anche una funzione importante sul benessere e la salute mentale dei territori in cui sono presenti, svolgendo un’atipica e imprevista funzione terapeutica nelle comunità.

 

 

Pensiamo che sono questi i luoghi dove possono nascere delle nuove strutture di psicologia comunitaria e territoriale. Luoghi in cui si possono produrre interventi di supporto ai problemi e alle sofferenze psichiche, ma che per la loro modalità aperta, inclusiva, orizzontale e collettiva possano essere luoghi in cui dare spazio alle proprie risorse. Spazi e relazioni in cui chi vive nella marginalizzazione quotidiana possa costruire da sé forme di cura, ascolto e di relazione terapeutiche, nel segno della solidarietà reciproca.

Le realtà solidali che in più si spingono a rivendicare maggiori diritti, al contrastare le causa economiche e sociali della povertà e delle disuguaglianze anche attraverso forme conflittuali e di lotta, portano con sé una dimensione terapeutica. Autori di una certa tradizione “eretica” della psicologia clinica e di comunità, come Frantz Fanon o Ignacìo Maria – Barò, sottolineavano come la liberazione dalle proprie sofferenze psichiche passi anche dalla lotta per liberarsi dalle catene economiche, sociali e politiche di oppressione. Lottare, anche durante la pandemia che viviamo, è una strada di miglioramento della propria salute mentale oltre che delle proprie condizioni materiali di esistenza.

In questo senso, in questi luoghi autogestiti e mutualistici può avvenire un processo di democratizzazione della psicoterapia e del prendersi cura della salute mentale della società. In questi luoghi è possibile mettere in discussione molti dei diktat che spingono la psicoterapia a divenire una cura dell’élite, e la messa in discussione concreta delle forme di mercificazione e di proprietà privatistica aprono a possibilità nuove per pensare una nuova accessibilità alle cure psicologiche.

In queste realtà le figure professionali psicologiche hanno le possibilità di costruire percorsi di condivisione di strumenti terapeutici in maniera aperta, per tramutarli in strumenti collettivi e comunitari, e dove si possa dare vita anche a forme di lavoro psicologico fuori dalle logiche del mercato. E’ in questo tipo di realtà e relazioni che c’è la possibilità di ripristinare e sviluppare pienamente centri di terapia familiare, consultori pubblici, gruppi di auto e mutuo aiuto, progetti psico sociali e psico-educativi, nuove forme di assistenze domiciliari per persone con disagio medio e medio grave del tutto gratuiti e di alta qualità.

In una frase, si potrebbe mettere in opera, probabilmente per la primissima volta nella storia della salute mentale italiana, il piano territoriale e di comunità sognato e progettato dalla mente visionaria di Franco Basaglia. Ovvero centri non gestiti dai gangli del potere psichiatrico foucaultiano ma, come teorizzato e praticato da tante figure dalla metà del ‘900 legate da un filo rosso che potremmo definire “psicologia rivoluzionaria” (dallo stesso Basaglia, Roland Laing e David Cooper nel vecchio continente, a da teorici decoloniali quali i già citati Frantz Fanon, Martìn-Barò, Paulo Freire fuori dall’Europa), restituiti alle comunità oppresse in un percorso di liberazione dai vincoli violenti del capitalismo contemporaneo.

Intervenire a sostegno di queste esperienze di autogestione e mutualismo non significa forzatamente volerle integrare nel sistema pubblico, ma piuttosto rivendicare una trasformazione radicale degli impianti legislativi locali e nazionali e, conseguentemente, di accesso e stanziamento dei finanziamenti pubblici, facilitando la nascita di nuove forme di partecipazione sociale.

Esperienze collettive dal basso che nella crisi non solo di finanziamenti dei servizi pubblici, ma di una complessiva crisi politica dello Stato all’interno del brutale progetto neoliberista, ci spingiamo a definire (contro)istituzioni alternative, fondate sull’autogestione e la cura della vita.

Perché la pandemia chiarisce un concetto spesso lasciato ai margini delle politiche dedicate alla salute mentale: l’obiettivo non può essere riadattare socialmente chi soffre psichicamente, pensare la terapia come reinserimento nei ritmi del modello sociale capitalistico lasciando indietro gli irrecuperabili, ma piuttosto cambiare radicalmente questo modello. Queste esperienze hanno la potenzialità di essere gli strumenti per questo cambiamento.

 

 

Trasformare la società per guarire

Il concetto di Recovery (pensato come recupero, ripresa, guarigione) non può che essere inteso dal nostro punto di vista basato sulla giustizia sociale e sull’uscita dalle logiche di mercato e di salvataggio di grandi monopoli economici. La necessità è salvare le persone e le loro vite, fisiche e psichiche, e le politiche economiche devono tornare a centrarsi su questo presupposto imprescindibile.

La crisi pandemica, o nel suo complesso sindemica, in questo scenario è una possibilità, nella grave diffusione di sofferenza psichica, per migliorare la salute mentale della società, e per farlo serve un ribaltamento di prospettiva, un cambiamento radicale delle nostre vite.

Abbiamo urgenza di finanziare quale prospettiva di sviluppo per salvarci dalla pandemia? Ammettere il finanziamento di quello stesso modello di sviluppo che è causa e fattore determinante delle condizioni di sofferenza generale e mentale di massa nel mondo è una scelta suicida.

Le proposte elaborate tracciano una strada alternativa, e possono essere concepite come uno sviluppo e spinta ulteriore del pensiero basagliano: Franco Basaglia proponeva di accogliere la diversità nella comunità come intervento fondamentale nell’eliminazione dell’istituzione manicomiale e nella trasformazione del rapporto alla follia nella società.

Pensiamo che oggi l’urgenza sia di cambiare la comunità per vivere diversamente, liberandoci delle strutture sociali che causano sofferenza psichica e fondando la società sul prendersi cura collettivamente della salute mentale di tutte e tutti.

A tal proposito concluderemmo questa breve e un po’ sognante ricognizione, ricordando il bivio davanti al quale la salute mentale pubblica italiana, debitamente rifinanziata, si troverebbe. Il pensare la cura in chiave neoliberale e capitalistica, ovvero come una via di riadattamento sociale di ciò che risulti maladattativo e disfunzionale all’agenda del Potere, o il ripensare la cura e il benessere psicologico come propulsore di cambiamento sociale. Noi siamo per questa seconda opzione.

 

 

Insieme al laboratorio He.Co.Psy e altre realtà del mutualismo e della salute mentale dal basso, i due autori stanno attualmente lavorando per dare vita e promuovere “PoliticaMente”, gruppo di lavoro per una salute mentale sociale, partecipata e sostenibile. 

 

Le immagini sono tratte dalla pagina Instagram Disegni per la Salute Mentale

 

[1] Horton, R. (2020). Offline: COVID-19 is not a pandemic. Lancet (London, England), 396(10255), 874.

[2] Giorgio Alleva (2017). Presidente Istituto nazionale di Statistica, La salute mentale in Italia: cosa ci dicono i dati dell’Istat. XXI Congresso Nazionale della Società Italiana di Psicopatologia Roma, 22 febbraio 2017.

[3] WHO (2014). Promoting Mental Health. Geneva.

[4] New Zealand ‘wellbeing’ budget promises billions to care for most vulnerable. The Guardian Eleanor Ainge Roy in Dunedin, Thu 30 May 2019.

[5] Firenze, D., Veronese, G., (2020) “La zona grigia della pandemia” in “La cura”, Jacobin Italia, n.7, Edizioni Alegre.

[6] Brooks, S.K., et al., The psychological impact of quarantine and how to reduce it: rapid review of the evidence, The Lancet, 03/2020 e 7. Pappa, S., et al., Prevalence of depression, anxiety, and insomnia among healthcare workers during the COVID-19 pandemic: A systematic review and meta-analysis, Brain, Behavior, and Immunity, 2020.

[7] Fisher, M., (2009), Realismo capitalista, Not nero editions.