A Lisbona, sulla strada in cui i tram si arrampicano fino al castello, c’erano due carceri. Il poeta svedese Tomas Tranströmer (Nobel della letteratura nel 2011) li vide in una sua poesia degli anni ’60.
In uno, dice, c’erano i detenuti comuni, che accennavano dalle sbarre e chiedevano di essere fotografati. L’altro, lo informò il tranviere come sghignazzando, era per i politici. Già da alcuni anni quel carcere per i prigionieri politici è un museo, Museu do Aljube, che racconta la detenzione ai tempi della dittatura e, da qualche mese, nell’ala delle esposizioni temporanee, ospita una mostra di una fotografa italiana, Augusta Conchiglia, aperta fino al 31 dicembre.
Nel 1968 Augusta Conchiglia entra nell’Angola in lotta contro le truppe coloniali portoghesi insieme al regista Stefano De Stefani e, per diversi mesi, armata di due Nikon, convive con i guerriglieri del MPLA (Movimento Popular de Libertação de Angola).
Ha solo vent’anni e un’esperienza come fotografa teatrale, al Piccolo di Milano, all’ombra di Giorgio Strehler. Da allora non ha mai smesso di seguire le alterne vicende sia dell’Angola che di tanti altri paesi africani, prima come fotografa, poi come analista politico-sociale.
Ancora oggi le sue foto continuano a girare e quando la incontro a distanza, nella sua casa di Parigi, si appresta ad andare all’inaugurazione di un’altra esposizione che include parte del suo prezioso lavoro, al Palais de Tokyo, dedicata a Sarah Maldoror, cineasta molto legata ai movimenti anticoloniali nonché moglie del poeta e politico angolano Mário Pinto de Andrade.
Perché, a un certo punto, hai smesso di fotografare? Scarsa fiducia nel mezzo?
No, è che da una parte, vivendo in Africa, diventava difficile seguire il percorso delle mie foto e venderle. Non si inviavano facilmente come oggi e molti se ne appropriavano. Ogni tanto le ritrovavo accompagnate da didascalie totalmente false. Una volta scoprii che addirittura Channel 4 usava foto mie con dietro la scritta Novosti.
Raccontaci come sei arrivata in Angola nel 1968. Pochi anni prima, il protagonista di Prima della rivoluzione, di Bernardo Bertolucci, diceva: “Ma oggi chi è disposto a scioperare per la libertà dell’Angola?”
Eppure gli italiani sono scesi in piazza per l’Angola e il Mozambico. Hanno attirato parecchi giovani e diverse forze politiche. Dopo le lotte contro la guerra in Vietnam e contro il fascismo spagnolo (indubbiamente più conosciuto), ci fu un interesse per le colonie portoghesi, soprattutto a Milano, anche se poi a Roma, nel 1970, ebbe luogo la Conferenza di solidarietà con i popoli delle colonie portoghesi, che consacrò questo rapporto speciale dell’Italia con i movimenti di liberazione e contò anche sulla presenza del papa. Fatto curioso, perché l’Italia, come membro NATO, non era destinata ad avere questo ruolo. Negli altri paesi membri i dirigenti dei movimenti di liberazione non erano per nulla graditi, né avevano il visto per entrare.
Quindi l’Italia si poneva come membro atipico?
Sì. Ho anche cercato di capire meglio il perché e le circostanze furono anche un po’ casuali. All’epoca c’era un gruppo legato a Fanfani che si occupava di casi simili in America latina e poi si allargò alle colonie portoghesi. Sta di fatto che Agostinho Neto, il quale non poteva recarsi in nessun paese della NATO, quando era in Europa usava regolarmente l’Italia come paese di transito verso l’Africa. Io e Stefano De Stefani volevamo fare un documentario sul Vietnam, ne parlammo con Joyce Lussu, che ci disse no, il Vietnam lo conoscono tutti, andate in un posto dove il vostro lavoro rappresenterebbe un contributo a rivelare nuove realtà.
Joyce Lussu aveva già tradotto Agostinho Neto all’epoca, mi pare.
Aveva fatto nel 1963 la prima traduzione internazionale delle poesie di Neto. Lei si era anche presentata in Portogallo con una lettera dell’editore Il Saggiatore (cioè Mondadori) per incontrare il suo autore, che all’epoca era in carcere, ma la polizia politica, la PIDE, non glielo permise. Così ricevette il manoscritto dalla moglie. Noi accettammo il consiglio di Joyce, incontrammo Neto, di passaggio a Fiumicino, il quale ci avvisò che sarebbe stato faticoso e pericoloso, ma ci sentivamo pronti. Ci rivedemmo nei loro uffici in Tanzania e da lì, attraverso lo Zambia, attraversammo la frontiera. Fu un momento storico di convivenza in queste zone che creò dei rapporti umani indimenticabili. Ci siamo chiesti a lungo come sarebbe finita, perché sembrava impossibile che alla fine del percorso ci fosse la vittoria.
E invece arriviamo alla fine del colonialismo portoghese, a cui però non corrisponde la pace.
La guerra degli anni successivi all’indipendenza è alimentata da interessi stranieri, non c’è nessun dubbio. C’è un gruppo che perde ed esce di scena, l’FLNA, mentre l’UNITA diventa una forza militare notevole che si contrappone al MPLA grazie al sostegno fisico dell’esercito sudafricano. Diventa uno strumento, come lo era con i portoghesi, cosa che tendiamo a non ricordare. E così finisce che oggi l’UNITA possa rivendicare un passato anticoloniale.
E saltiamo ancora nella fase che segue la morte del leader dell’UNITA, Jonas Savimbi
Cio’ che si tende a dimenticare oggi sono le condizioni nelle quali il paese è diventato indipendente; con la continuazione del conflitto con il Sudafrica razzista, la partenza della maggioranza dei quadri tecnici portoghesi, cioè di tutti quelli che avevano in mano l’economia, era molto difficile rimettere in piedi il Paese. Per non parlare delle pressioni internazionali, una sorta di vero e proprio complotto. Kissinger riuscì a bloccare l’estrazione di petrolio per quasi un anno, già dopo l’arrivo alla Casa Bianca di Carter, col pretesto che a Luanda c’era un regime. Tutto contribuì a bloccare anche lo sviluppo delle forze democratiche esistenti in fase embrionaria.
La corruzione assume grandi proporzioni durante la lunga presidenza di José Eduardo dos Santos. Come vedi questi ultimi anni, con il nuovo presidente João Lourenço? Il Paese si sta rigenerando o è solo un attacco mirato al clan che governava precedentemente?
Basta leggere i giornali per vedere come tutti i giorni c’è la caccia al funzionario che ha approfittato di questo o quel finanziamento e invece di finanziare la scuola si è fatto l’appartamentino. La caccia alla corruzione è a tutti i livelli, anche se evidentemente la famiglia dos Santos era quella che deteneva il grosso del potere economico. Ma non sono loro gli unici a essere colpiti oggi. Se poi uno si va a leggere i rapporti delle banche internazionali che lavorano con l’Angola, quasi tutti dicono che la situazione è nuova e che si può investire, perché non c’è più da pagare intermediari e la giustizia è affidabile nella risoluzione dei conflitti. La situazione, insomma, mi sembra diversa, anche se non facile, dato anche il crollo del prezzo del petrolio (che ora, però, è risalito). Per concludere, tengo a dire che c’è un problema di revisionismo su tutta la storia di questo paese, ma anche del Mozambico che ha pure vissuto una guerra di destabilizzazione e le forti pressioni del regime segregazionista di Pretoria. Si tende infatti a non voler ammettere le condizioni reali con cui hanno dovuto fare i conti, non ultima, le conseguenze di una lunghissima dominazione coloniale.