di Cafébabel
17 Febbraio 2022
L’anno che si è appena concluso è stato un anno rosso per l’Austria. Rosso, come il sangue delle donne uccise da compagni o ex-partner
L’anno che si è appena concluso è stato un anno rosso per l’Austria. Rosso, come il sangue delle donne uccise da compagni o ex-partner. Nell’ultimo decennio il piccolo Paese dell’Europa centrale ha registrato numeri preoccupanti di femminicidi. Nonostante ciò, la violenza di genere, specialmente contro le donne, fatica a trovare lo spazio che meriterebbe nell’opinione pubblica austriaca. Una forma di violenza che può avere anche altri contorni, come quelli giudiziari: il caso della piccola Diana è l’ultima cartina di tornasole.
di Francesco Barbati, per Café Babel
In Austria c’è un grande problema. Al centro della stanza dell’opinione pubblica si trova un grosso elefante. L’animale porta con sé un cartello. Una scritta in rosso campeggia accecante: violenza di genere.
A Vienna, passeggiando presso Yppenplatz, una piazza dove si respira gioventù, multiculturalità e spensieratezza, c’è un memoriale sotto forma di graffito che viene costantemente aggiornato. Ideato dalle associazioni femministe locali Viva La Vulva e Kollektiv Kimäre, mostra il numero delle vittime di femminicidio in Austria in un determinato lasso di tempo.
Trentuno. Solamente nell’anno da poco conclusosi, nel Paese dell’Europa centrale ci sono stati 31 femminicidi. Un trend spaventoso, considerato che, tra il 2010 e il 2020, 319 donne sono state uccise da partner o ex-compagni, secondo uno studio governativo del 2021.
Nel 2018, secondo dati dell’Eurostat, tra i tre Paesi UE con il più alto numero di femminicidi i cui responsabili sono familiari o parenti della vittima, figurava proprio l’Austria.
L’ultima, terribile notizia, è quella del 13 gennaio scorso. Una donna di 42 anni è stata uccisa con un colpo di pistola alla nuca dal marito 46enne. Pare che le ceneri del 2021 siano ancora nell’aria, nell’anno che è appena cominciato.
Quest’ultimo femminicidio ha innescato una serie di reazioni. La presidente dell’associazione Vorsitzende des Österreichischen Frauenrings (un’organizzazione ombrello delle Associazioni austriache delle donne), Klaudia Friebe, ha fatto appello affinché venga costituita una commissione d’inchiesta che lavori esclusivamente sulla violenza contro le donne. Il divieto delle armi da fuoco in contesti privati è un altro tema che è stato sollevato a livello politico.
Le donne stesse incontrano diverse difficoltà quando si tratta di chiedere supporto, o di denunciare le violenze subite alla polizia. Un senso di vergogna e stigmatizzazione sociale prevale nei loro confronti. Forse è arrivata l’ora di portare al centro del dibattito, e non solo in Austria, il tema della violenza di genere che può anche – e purtroppo – sfociare in omicidio. Ma cosa intendiamo per violenza di genere? E cosa è un femminicidio?
Le donne e i diritti umani violati
Ci sono tante, troppe forme di disuguaglianza nel mondo. Il filo che le lega porta inevitabilmente alla violazione dei diritti umani fondamentali. Quando si parla di disuguaglianza di genere, la violenza contro le donne e le ragazze ne è uno degli esempi più lampanti.
“Dietro la violenza di genere si nasconde (e neanche troppo bene) la società patriarcale in cui viviamo e gli stereotipi di genere che ne derivano. Si tratta di stereotipi socialmente condivisi, che conosciamo tutti e tutte, e che indicano come uomini e donne debbano comportarsi, quale sia il loro posto all’interno di una società, quali debbano essere le loro caratteristiche morali e fisiche”, afferma Elena Floriani, Project & Research Coordinator presso WAVE, la rete femminista che promuove i diritti umani di donne e bambine con sede a Vienna.
”La violenza di genere mira a controllare le donne, i loro corpi e le loro azioni”
Abbiamo contattato Elena Floriani per provare a capire cosa si nasconde dietro la violenza di genere, ai femminicidi e alla struttura di una società patriarcale trasversale, internazionale e intergenerazionale.
“Ci si aspetta che gli uomini siano potenti, sicuri di sé, aggressivi, decisi, che proteggano la famiglia. Che le donne siano delicate, sensibili, al servizio di marito e figli. Questo crea determinate strutture di potere che vedono l’uomo in una posizione dominante, e qualsiasi donna che si discosti dal suo ruolo come una persona che va rimessa in riga, zittita, controllata. Ecco, la violenza di genere mira a controllare le donne, i loro corpi e le loro azioni, per farle rientrare nel loro ruolo ben definito. Allo stesso tempo, anche gli uomini che esercitano violenza sono schiavi degli stereotipi di genere e della necessità di performare in quel ruolo che gli è stato affibbiato dalla società patriarcale”.
Questa forma di violenza è pervasiva, difficile da sradicare. Può essere subdola, psicologica, fisica, economica. Che sia nel contesto familiare, professionale, educativo, sportivo, virtuale: non c’è ambito della società che sia esente da questo fenomeno.
Secondo l’EIGE, l’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere, ente autonomo dell’UE, si tratta di una violazione dei diritti umani, una forma di discriminazione che “comprende tutti gli atti di violenza di genere che causano o sono tali da causare danni fisici, sessuali, psicologici o economici ovvero sofferenze alle donne, compresi le minacce di tali azioni, atti di coercizione o la privazione arbitraria delle libertà, nella vita pubblica come in quella privata”.
“Quando si parla di violenza di genere”, continua Floriani, “penso sia importante ricordare che include anche quei fatti “meno gravi”, che se tollerati creano una base solida per discriminazioni più pesanti. Mi riferisco a catcalling, battute sessiste, linguaggio sessista, e così via. Una società che tollera questi atteggiamenti è terreno fertile per fatti di violenza di genere più efferati, dalla violenza fisica al femminicidio. Scalfire questa base, così ancorata nella società patriarcale, è necessario per contrastare la violenza di genere”.
”I femminicidi sono un problema strutturale e culturale della nostra società, e vanno trattati come tali”
L’EIGE provvede anche una definizione del termine femminicidio. Può avere un’accezione generale, riferendosi all’uccisione di donne, ragazze o bambine a causa del loro genere. Poi c’è una definizione statistica: “L’uccisione di una donna da parte di un partner intimo e la morte di una donna come risultato di azioni dannose per lei. Si può definire partner intimo un ex coniuge, un coniuge o un partner fisso, indipendentemente dal fatto che l’omicida abbia condiviso o condivida la stessa residenza della vittima”.
Domando a Elena Floriani se si può parlare di “misoginia”, quando pensiamo al femminicidio, e quanto possa pesare il “fattore” genere – a prescindere dal contesto sociale, privato o economico -, nella violenza contro le donne. “Il ‘fattore’ genere è intrinseco nei casi di femminicidio, che sono l’apice della violenza di genere. La stessa parola ‘femminicidio’ serve ad indicarne il movente, ed è per questo importantissima nella narrazione di questo tipo di crimine, che viene spesso spiegato erroneamente incolpando il contesto sociale, privato o economico, parlando di raptus di gelosia o di pazzia”, prosegue. “Ma non sono questi i moventi di un femminicidio. Il movente è uno solo: le donne vittime di femminicidio vengono uccise in quanto donne, per colpa del ruolo che devono ricoprire all’interno di una società patriarcale”.
La situazione austriaca: una breve panoramica
Tramite un’indagine della FRA, l’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali, è stato chiesto a partecipanti donne dell’UE di associare una parola che descrivesse la loro reazione emotiva al più grave incidente di violenza fisica e/o sessuale provocato da un partner fin dall’età di 15 anni. In Austria, Il 37% delle donne ha risposto con “rabbia”; il 44% con “shock”; il 67% con “terrore, paura”; “vergogna”, per il 39% di esse.
La Verein Autonome Frauenhäuser (AÖF),l’Associazione delle case rifugio autonome dell’Austria, ha reso noto un dato drammatico. Ogni mese, in media vengono uccise tre donne nel Paese. I responsabili di questi crimini sono spesso familiari, o comunque hanno una relazione con la vittima, e hanno grosse difficoltà nella risoluzione di conflitti, a meno che non facciano ricorso alla violenza.
Secondo un report pubblicato da EIGE nel 2021, il cui scopo è quello di “misurare” il femminicidio in tutta l’UE attraverso dati, analisi e indicatori specifici, nel codice penale austriaco non esiste una definizione del suddetto fenomeno. Poco male: anche nel resto dell’Unione, e persino negli altri continenti, pare non esserci una definizione standard e unanime a livello giudiziario. Tuttavia, in Austria i crimini che rientrano nella sfera del femminicidio possono essere inclusi in altre disposizioni penali, che hanno a che fare con: omicidio, omicidio colposo, danni fisici con esito fatale.
Inoltre, nel Paese alpino non c’è una raccolta specifica di dati sul femminicidio. Tuttavia, secondo il Ministero degli Interni, nel 2017 sono state 65 le donne vittime di omicidio o tentato omicidio, delle quali il 66% è stata vittima di un familiare.
Nel 2019, secondo un altro report, nel contesto di relazioni intime fra partner, 22 donne ne sono state vittime, a fronte di 1 vittima maschile. I motivi principali dietro a questi crimini sono stati: disoccupazione (48%); processo di separazione avviato da una donna (46%); controllo coercitivo (36%).
In Austria, come in Italia e altri Paesi membri, il fenomeno dei femminicidi viene molto spesso rappresentato come una sorta di emergenza, qualcosa che accade accidentalmente – a prescindere dalla drammatica frequenza che li caratterizza. I femminicidi, però, “sono un problema strutturale e culturale della nostra società, e vanno trattati come tali”, afferma Floriani. “Dal punto di vista legislativo, la Convenzione di Istanbul (la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, ndr), è uno strumento essenziale per contrastare la violenza di genere, ed ogni Stato dovrebbe ratificarla ed impegnarsi concretamente ad implementarla. Questo include anche l’impegno a finanziare adeguatamente la prevenzione e i servizi a supporto delle vittime di violenza. Purtroppo, negli ultimi anni stiamo assistendo al trend inverso, e diversi Stati stanno contrastando la Convenzione o addirittura ne sono usciti”.
Il caso della piccola Diana
E se la violenza assumesse contorni diversi? Contorni che definiscono sentenze giudiziarie, testi legislativi o trattati di legge privata internazionale? Lo scorso anno ha fatto scalpore il caso di una bambina, Diana, e di sua madre, Julia E. Di origini austriache, Julia, un’infermiera qualificata, viveva negli USA con il suo ex-marito. Le era difficile trovare lavoro nel suo campo, considerato che i titoli professionali non le venivano riconosciuti. Si è dedicata dunque alla crescita e all’educazione della figlia Diana.
Nell’agosto del 2019, approfittando di un periodo di vacanze, Julia rientrò in Austria con la piccola Diana. Fu allora che realizzò di essere stata, a lungo e pesantemente, abusata dal marito. Quest’ultimo non ha voluto sentirne, e ha deciso di procedere con la richiesta di rientro della bambina negli Stati Uniti. La serie di processi alla quale Julia E. è andata incontro non ha avuto esito positivo. Il problema non ruotava intorno alle violenze subite dalla donna, quanto piuttosto riguardo al “sequestro” della bambina, portata fuori dai confini statunitensi. Nel maggio del 2021, la Corte Suprema di Giustizia austriaca ha deciso che Julia e Diana avrebbero dovuto far ritorno negli USA. Qualora la madre si fosse opposta, la bambina sarebbe stata rimpatriata il prima possibile da un ufficiale giudiziario.
Nel momento in cui scrivo questo pezzo, Diana si trova su un volo diretto a San Francisco. La mattina del 20 gennaio 2022, un giovedì freddo e nuvoloso, diversi agenti di polizia e un ufficiale giudiziario si sono presentati a casa di Julia E. e di sua figlia in Bassa Austria (lo stato federale che circonda la città-stato e capitale Vienna, ndr). La bambina di soli 4 anni è stata prelevata in pigiama e portata di fronte alla Corte regionale di Krems, prima della decisione definitiva di imbarcarla per due voli alcune ore dopo – il primo verso Monaco di Baviera, il secondo diretto verso gli USA.
Gruppi di attivisti e attiviste, reti di ONG e organizzazioni della società civile si sono recati immediatamente all’aeroporto internazionale di Vienna. Tra queste, WAVE, la già citata Associazione delle case rifugio autonome dell’Austria (AÖF), e la Wiener Interventionsstelle, un’organizzazione che si occupa della protezione delle vittime di violenza domestica e stalking, hanno provato in tutti i modi di impedire la partenza della piccola, non solo manifestando con cartelloni e banner, ma mostrando certificati e documenti. Un documento portato dalla AÖF faceva riferimento al fatto che la madre non avesse più alcun diritto di residenza o di lavoro negli USA, di fatto impossibilitata a rientrare.
Elena Floriani era presente all’aeroporto. “Ho provato molta rabbia verso un sistema giudiziario che vede le persone come dei fascicoli e non si cura del loro benessere e della loro sopravvivenza. Ho provato dolore nel vedere una famiglia distrutta. Ed ho provato molta frustrazione nel sentirsi impotenti di fronte ad un’ingiustizia come questa. Il caso di Diana è seguito da diverse organizzazioni che si sono riunite all’aeroporto e hanno cercato di ostacolare la sua partenza, ad esempio con un certificato medico che attesta che per motivi di salute la bambina non può volare. Abbiamo comunicato queste informazioni e il grave pericolo in cui incorre la bambina (oltre che per i problemi di salute, anche per essere da sola con il padre violento di cui ha il terrore) sia alla polizia aeroportuale di Vienna e di Monaco, dove il volo ha fatto scalo, che alle compagnie aeree, ma non è stato sufficiente”.
“All’aeroporto di Vienna la polizia e il personale di Austrian Airlines hanno addirittura ingannato la famiglia di Diana e noi tutt*, dicendo che sarebbero andati a prenderla e dando alla madre false speranze, quando in realtà non hanno fatto nulla e l’obiettivo era solo tenerci occupati”, prosegue. “Quando si sono ripresentati dicendo che l’aereo era decollato e non c’era più nulla da fare, hanno negato di aver detto che avrebbero preso Diana, nonostante i vari testimoni, sia tra di noi che tra la stampa presente”.
La decisione della Corte Suprema di Giustizia austriaca si basa sulla Convenzione dell’Aia sugli aspetti civili del rapimento internazionale di minori del 1980. Il trattato internazionale, nel contesto del diritto privato, riguarda padri o madri che hanno sottratto figlie/figli al partner lasciando il Paese in cui risiedono. Il trattato mira a regolare il ritorno dei bambini/delle bambine al partner al quale o alla quale sono stati sottratti.
La domanda è più che legittima: come può un trattato internazionale non tenere in considerazione casi in cui donne, che si ritrovano in relazioni binazionali, sono state vittime di violenza di genere, e tutto ciò che questo comporta?