5 Aprile 2019
La metropoli e i cambiamenti post 11 settembre, attraverso il confronto tra due romanzi
“WhiteTeeht isn’t magical realism, it’s Hysterical realism”. Così, a poco tempo dall’uscita di White teeht, nel 2000, James Wood (uno dei più grandi critici inglesi contemporanei) definiva il romanzo d’esordio di Zadie Smith.
Questa ragazza, allora venticinquenne, poneva all’occhio dei lettori un nuovo modo di strutturare la forma-romanzo. Una narrazione isterica, appunto, colma di digressioni, salti temporali, personaggi e tematiche.
Tutto in un unico grande serbatoio da cui poter attingere materiale per poter comprendere comunità altre, spazi più ampi.
Il romanzo è ambientato a Londra, nel quartiere di Willesden (zona nord ovest della metropoli), nell’arco di venticinque anni, dal 1975 al 2000. Le famiglie coinvolte sono gli Iqbal: Samad, Alsana e i loro due figli Magid e Millat; i Jones: Archie, Clara e la loro unica figlia Irie. Dalla seconda metà del romanzo se ne aggiunge una terza, i Chalfen: Marcus,Joyce e Joshua,il figlio.
Gli Iqbal e i Jones fanno parte della working class della società inglese, mentre i Chalfen sono dei scienziati liberali e un pò hippy che, nonostante benestanti, continuano a vivere a Willesden (zona ben al di sotto della loro portata).
Samad Iqbal e Archie Jones sono legati da una solida amicizia e da due visioni opposte della vita. Archie è il simbolo dell’Inghilterra post-coloniale, un uomo operoso, che ha sposato una donna giamaicana (Clara), molto più giovane di lui.
Samad, invece, è un bengalese musulmano rigoroso, o almeno cosi vuole far credere. Non mangia carne di maiale, lamenta il materialismo occidentale, ha sposato una donna in un matrimonio combinato. Salvo poi, nello sviluppo della trama, bere alcolici, tradire la moglie e passare interi pomeriggi davanti alla TV.
Dall’altra parte i Chalfen. Loro rappresentano la nuova frontiera del radical chic, vestono all’indiana, mandano i loro figli dallo psicanalista fin da piccoli, mangiano solo cibo biologico e hanno una fede incrollabile nella scienza! Marcus è un genetista.
Quando lo conosciamo sta progettando un esperimento chiamato Future Mouse (Topo del Futuro). A questo topo sarà riconfigurato il DNA in modo da poter prevedere lo scoppio di malattie e cosi “controllare” la sua morte.
Gli eventi porteranno queste tre famiglie ad interagire in modo più o meno conflittuale tra di loro, riunendosi nell’ultimo capitolo in cui viene presentato in mondo visione il Future Mouse.
Il collante di una trama ricca di capovolgimenti è la comunità. Tutti i personaggi, pur provenendo da classi sociali differenti e da culture d’origine eterogenee, collaborano all’interno della narrazione. Sono uno specchio della società cosmopolita londinese pre-Torri Gemelle, intorno all’anno Zero.
Nel racconto non c’è rifiuto dell’altro, pur esistendo il conflitto, ognuno attraverso gli occhi della scrittrice viene guardato in modo eguale, grazie anche ad una narrazione ironica che non privilegia nessuno, ma tende a esaltare punti deboli e di forza di ognuno.
Tutti sul carro dei vincitori o su quello dei perdenti. L’autrice, così come la sua creazione, è il frutto di quella politica inglese post seconda guerra mondiale (gli ex-coloni avevano il doppio passaporto) che ha portato ingenti masse di persone dalle colonie al grande calderone della metropoli inglese.
Con tutti i problemi di uno choc culturale così imponente, il libro, proprio perché armonioso nella moltitudine di personaggi ed eventi, è la perfetta metafora di un percorso verso la comunità globale.
Quello che i sociologi chiamano melting pot. Un grande calderone culturale in cui si sostiene una politica di avvicinamento e non di conflitto tra culture diverse e distanti. Questa base che sembrava funzionare e di cui ci racconta la Smith, sembra sgretolarsi sotto i colpi della guerra, delle violenze e delle ideologie religiose e politiche contrastanti.
Sopratutto negli ultimi vent’anni. La data di partenza per raccontare il cambiamento rispetto all’opera di cui abbiamo parlato prima è l’11 settembre 2001. Da quella data in poi il mondo è stato sconvolto da numerose guerre.
Questi conflitti si ritrovano immancabilmente anche nelle opere letterarie, quella che è più vicina al 2001 e simmetricamente opposta a White Teeth, si intitola Saturday, di Ian McEwan, e pubblicata nel 2005, ma ambientata nel 2003.
In quel sabato del 15 febbraio 2003 in cui Londra è bloccata da una gigantesca manifestazione contro l’invasione dell’Iraq da parte delle truppe statunitensi.
Il protagonista è Henry Perowne, un neurochirurgo che vive nell’elegante e ricco quartiere di Fitzrovia. La narrazione si svolge tutta in quel sabato. Un giorno come un altro per il protagonista che dovrebbe concludersi con una cena per il ritorno della figlia Daisy da Parigi.
Così non andrà. Un banale incidente in auto mentre si recava in palestra consente a Perowne di conoscere Baxter ,un delinquentello affetto dalla sindrome di Huntington, una malattia neuro degenerativa che lo porta ad avere raptus violenti.
Perowne, colpito allo stomaco dopo una lite conseguente all’incidente, riesce a scappare, ingannando il suo carnefice promettendo una cura che non esiste. La giornata continua pressoché piatta finche la cena tra parenti viene stravolta proprio dall’arrivo di Baxter, pronto a vendicarsi, sconvolto dalla sua malattia prende in ostaggio tutti i parenti.
Perowne riprende il discorso sulla patologia di Baxter e lo convince che esiste una cura. Baxter abbassa la guardia e proprio in quel momento il neurochirurgo – con il figlio Teo – lo scaraventano giù dalle scale. La narrazione si conclude con l’operazione di Buxter che aveva sbattuto la testa dopo la spinta e il ritorno a casa del protagonista.
Ora, quale altra visione sul mondo rispetto a White teeth ci mostra Saturday?
E’ bene partire dall’autore. McEwan, rispetto alla Smith, proviene da una famiglia borghese, inglese da generazioni e quindi non può non descrivere il suo mondo, il suo status sociale. Mentre la Smith rende attraverso i suoi personaggi un senso di comunione con la società, il personaggio di Perowne costruito da McEwan sembra non voler scendere a patti con l’altro, con il diverso (Baxter).
In White teeth poi, avevamo isolato un pensiero e cioè “esiste il conflitto ma non il rifiuto”.
Qui invece, Perowne non ne vuol proprio sapere di accomodare Baxter, lo inganna, vuole toglierselo dai piedi per continuare a svolgere la sua vita da benestante.
Non è un Chalfen che va incontro al ceto sociale inferiore. Questa visione della realtà viene giustificata dagli eventi. Dopo la caduta delle torri gemelle la società ha iniziato a vedere la globalizzazione e il conseguente melting pot come un pericolo, un ostacolo alla propria serenità.
Il rifiuto dell’altro, quindi, come salvaguardia del proprio status. Un altro elemento importante che era stato considerato in White Theet era che l’opera sembra essere una grande metafora della globalizzazione, proprio perché costruita come un grande serbatoio di eventi.
In Saturday invece cogliamo un altra metafora.La scheggia impazzita (Buxter) che turba la serenità dell’esistenza (quella della famiglia Perowne) cosi come l’attentato delle Torri gemelle ha stravolto il nostro sguardo sulla vita in un lampo.
A sostenere questa tesi c’è anche la componente temporale. Mentre in White Teeth veniva ripercorsa la vita dei protagonisti in venticinque anni, in Saturday assistiamo allo stravolgimento continuo degli eventi nell’arco di una giornata.
Simbolo quindi della globalizzazione post Torri gemelle, veloce, lineare, dove gli eventi diventano importanti e dopo non lo sono più in brevissimo tempo (grazie anche allo sviluppo di internet). Due opere quindi, come due quadri di due epoche molto vicine che un evento ha stravolto e deviato in cammini diametralmente opposti.