Il genocidio armeno

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3 Maggio 2021

Il presidente Usa Joe Biden riconosce lo sterminio, nonostante l’ostracismo della Turchia

Quest’anno il 24 aprile è arrivato facendo improvvisamente rumore. A sollevarlo, l’annuncio del presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, che proprio in questo giorno ha rilasciato una dichiarazione storica, riconoscendo ufficialmente come genocidio i massacri degli armeni dell’Impero Ottomano, iniziati nel 1915.

Prima di allora, il 24 aprile era il giorno del ricordo di una storia ancora poco nota, nonostante avesse più di un secolo.  In quella data,  il governo ottomano, guidato dal partito nazionalista dei Giovani Turchi, si decise all’atto finale di una serie di repressioni e di massacri che durava già da qualche decennio e ordinò l’arresto dei leader e degli intellettuali della comunità armena.

Questo fu solo l’inizio insanguinato di quello che resterà nella memoria di molti come il Grande Male, una ripida discesa verso il baratro più nero della storia armena, dove finirono le vite di diverse centinaia di migliaia, forse addirittura  un milione e mezzo di armeni uccisi o morti di stenti e fatica durante le deportazioni forzate attraverso il deserto.

Mentre tutto intorno si combatteva la Prima Guerra Mondiale, i Giovani Turchi utilizzarono il pretesto della potenziale minaccia proveniente dalla comunità armena, vicina al nemico Impero Russo, per mettere in atto un piano cruento: sradicare l’Altro dai territori ottomani. Con mano violenta si avventarono su tutta la penisola anatolica, patria storica degli armeni, fino ai confini orientali, lasciando dietro di sé le ceneri e le rovine di una storia rimossa. 

Poi sul massacro è caduto il silenzio anche fra gli stessi sopravvissuti. Quelli che erano stati strappati dalla loro terra, vagavano sradicati e dispersi nei luoghi della diaspora. Fra gli armeni sovietizzati, il ricordo delle violenze è stato coperto da un regime totalitario che guardava con sospetto ai simboli etnonazionali. I pochi armeni rimasti o tornati in Turchia si ricavarono un posto nell’ombra per sopravvivere in uno stato che stava costruendo un nuovo corso sulla base di una narrazione che negava il passato, quello armeno e anche il proprio.  

Trascorsero oltre trent’anni, una nuova guerra e un altro terribile massacro, l’Olocausto, prima che  la memoria delle violenze subite dagli armeni iniziasse a farsi strada per tornare alla luce.

L’approvazione della Convenzione sul genocidio da parte dell’ONU, nel 1951, diede un nome all’orrore accaduto in Anatolia e un obiettivo alle diaspore, in particolare quella americane, che iniziarono a organizzare le prime rivendicazioni.   

L’impossibilità di utilizzare in modo retroattivo la convenzione impediva di affrontare la questione in un tribunale internazionale, ma non poteva fermare la diffusione di una nuova consapevolezza intorno ai tragici eventi del passato. 

Probabilmente spinta dall’effetto generato dal processo ad Adolf Eichmann, che si tenne nel 1961, e dall’emergere dei legami con l’Olocausto, negli anni Sessanta la memoria del genocidio trovò spazio nell’arena internazionale, sulla scia della commemorazione del cinquantesimo anniversario del Grande Male, che ebbe luogo nel  1965. 

Da quel momento nell’immaginario armeno il genocidio ha assunto un valore simbolico che va al di là del fatto storico. Come scrive lo storico Ronald Suny, “Il genocidio non è solo l’evento concreto delle uccisioni di massa, intraprese intenzionalmente dagli stati per eliminare un gruppo etnico o religioso, ma allo stesso tempo è  una cornice all’interno della quale le nazioni immaginano la propria storia e la precarietà del presente”. 

Al di fuori di quella cornice, il genocidio, la sua memoria e il suo riconoscimento diventano anche i confini che segnano i rapporti fra stati e ne diventano spesso ago della bilancia.

Il riconoscimento di un genocidio, quindi, non è solo un atto dovuto di giustizia, ma è anche un margine scivoloso al quale accostarsi con cautela. 

Nel caso della questione armena, riconoscere il genocidio equivale a mettere in discussione, ribaltare, rifiutare, la versione turca secondo la quale i massacri sono avvenuti in uno più ampio scenario di guerra e di violenze che hanno riguardato anche altre minoranze dell’impero ottomano. Nessun intento genocidario, quindi, avrebbe mosso la mano del governo nazionalista ottomano contro gli armeni. 

Ad oggi, sono circa trenta gli stati che hanno riconosciuto formalmente il genocidio degli armeni. 

Alla lista ora si sono aggiunti gli Stati Uniti, ultimi arrivati dopo un’assenza che si può definire stridente, se si guarda al ruolo di primo piano che gli osservatori statunitensi, organi di stampa e rappresentanze diplomatiche, avevano avuto nel denunciare le violenze contro gli armeni. Fra questi, l’Ambasciatore Henry Morgenthau, impegnato fin da subito su diversi fronti, sia nel tentativo di fermare i piani spietati del Partito dei Giovani Turchi, sia nel raccogliere e divulgare documentazione sui massacri. 

La catastrofe che aveva colpito gli armeni attirò anche l’interesse  dei vertici politici negli USA. Il Congresso nel luglio del 1916 fece pressioni sul presidente Wilson perché annunciasse pubblicamente un’iniziativa di raccolta fondi a supporto degli armeni che si trovavano nelle aree interessate dal conflitto. Il presidente rispose dichiarando il 22 e il 23 ottobre 1916 Armenian Relief Days. 

Di certo, quindi, negli Stati Uniti non è mai mancata la consapevolezza, rafforzata dalla presenza di una numerosa diaspora, in gran parte arrivata oltreoceano proprio in seguito ai massacri. 

Tuttavia, l’ingresso della Turchia nell’alleanza atlantica nel 1952 e il suo inserimento nel campo occidentale nel contesto della guerra fredda ha fatto in modo che gli Stati Uniti si mostrassero accondiscendenti rispetto alla riscrittura della storia messa in atto da una parte di studiosi turchi e germinata proprio nel terreno fertile di alcune università americane. Questa versione porta avanti la tesi della provocazione da parte degli armeni, quinta colonna dei russi, e presenta la deportazione come una necessità strategica. 

Per molti decenni, quindi, nonostante le risoluzioni con le quali quarantanove dei cinquanta stati hanno formalmente riconosciuto il genocidio degli armeni, la questione del riconoscimento a livello federale è rimasta in sospeso. 

Reagan è stato il primo presidente a parlare, nel 1981, del massacro degli armeni come di un genocidio. La dichiarazione, però, non divenne un atto formale.  Al contrario, negli anni successivi l’atteggiamento degli Stati Uniti iniziò a muoversi in direzione opposta in seguito all’omicidio di Kemal Arikan, diplomatico turco, avvenuto a Los Angeles nel 1982 per mano di due militanti armeni. 

Sulla soglia del nuovo secolo, il genocidio armeno era ancora una questione spinosa e divisiva. Lo stesso presidente Barack Obama, pur avendo annunciato l’intenzione di riconoscerlo ufficialmente, è venuto meno rispetto alle sue dichiarazioni. 

Centosei anni dopo i terribili fatti avvenuti sul suolo ottomano, lo scorso 24 aprile Biden ha invece mantenuto la promessa fatta durante la campagna elettorale, riconoscendo formalmente il massacro degli armeni come genocidio.  “Ogni anno in questo giorno ricordiamo le vite di tutti quelli che morirono nel genocidio armeno avvenuto in epoca ottomana e ci ripromettiamo di impedire che un’atrocità simile accada nuovamente” 

Nella dichiarazione del presidente americano, che è stata pubblicata in forma scritta dalla Casa Bianca, si legge “Lo facciamo non per incolpare qualcuno, ma per assicurarci che quanto accaduto non si possa ripetere”.

Le parole di Biden sembrano segnare un passo importante non solo verso il giusto riconoscimento delle sofferenze degli armeni, ma anche verso l’affermazione della centralità dei diritti umani. 

Tuttavia, è impossibile non vedere in questo atto tanto atteso un affilato strumento politico attraverso il quale gli Stati Uniti hanno voluto lanciare un messaggio a un alleato indocile, la Turchia, in un momento in cui le relazioni sono particolarmente tese e complesse.  

Come era facilmente prevedibile, la reazione della Turchia non si è fatta attendere. Dopo l’annuncio di Biden, il 24 aprile, il Ministro degli Affari Esteri Mevlüt Çavuşoğlu si è subito espresso negativamente riguardo alla posizione del presidente Biden. “Le parole non possono cambiare la storia o riscriverla” ha commentato su Twitter “Non accetteremo lezioni dalla nostra storia da nessuno. L’opportunismo politico è il più grande tradimento nei confronti della pace e della giustizia. Respingiamo completamente questa dichiarazione che è basata sul populismo”. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha fatto eco, dichiarando che le affermazioni di Biden sono infondate e dannose per le relazioni fra Stati Uniti e Turchia.

A ben guardare questa dinamica di azione e reazione, più che un atto rivolto a sanare le ferite di un passato tragico, l’arrivo della dichiarazione di Biden appare come un fattore in grado di scatenare ulteriore tensione, non solo fra Stati Uniti e Turchia, ma anche fra Turchia e la vicina Armenia, dove sono più vivi che mai i fantasmi della minaccia turca, risvegliati ancora una volta dalla guerra per il Nagorno-Karabakh combattuta lo scorso autunno contro l’Azerbaigian, alleato delle Turchia.

L’antropologa Tamar Shirinian dipinge l’Armenia di oggi come un paese attraversato dal senso di pericolo. “Secondo le stime ufficiali – scrive – più di quattromila giovani sono stati uccisi nella guerra del 2020. Molti dei loro caschi sono stati raccolti e recentemente collocati in un parco pubblico a Baku per celebrare la vittoria dell’Azerbaigian” E mentre si celebra il successo in Azerbaigian, paese ostile visto dagli armeni come l’erede che sta portando a termine l’opera degli ottomani, l’Armenia si ritrova intrappolata in un circolo di revanscismo e vendetta. I movimenti nazionalisti popolari si allineano con le élite costituite da oligarchi e criminali nel chiedere le dimissioni del Primo Ministro Nikol Pashinyan. L’Armenia ora è concentrata sulla morte e sul lutto piuttosto che sulla vita, pensa a fare la guerra piuttosto che a costruire la democrazia e su questo scenario, prosegue, il futuro che si profila all’orizzonte è qualcosa che somiglia più al passato che a una nuova fase finalmente libera dall’onere di accumulare tombe.  

Shirinian si mostra fiduciosa rispetto agli effetti positivi che i riconoscimento del genocidio da parte di Biden potrebbe avere sui traumi armeni: “Non sono così ingenua – commenta – da credere che il riconoscimento da parte degli Stati Uniti del genocidio armeno – che potrebbe spingere o meno il riconoscimento della Turchia – metterà fine a questo trauma e alle ferite costantemente sanguinanti […] Il riconoscimento, tuttavia, è certamente un passo verso qualcos’altro. Il riconoscimento potrebbe finalmente segnare la tomba del genocidio, contrassegnarlo come un evento storico – un evento che una volta si è verificato in passato – piuttosto che un progetto in corso”.

Eppure ci si chiede, guardando lo sfondo delle relazioni turco-armene sul quale la dichiarazione di Biden risuona, se la strada del riconoscimento formale possa andare anche in direzione della riconciliazione e della ripresa del dialogo fra Armenia e Turchia.

Alcune voci, come quella del filosofo franco-armeno Marc Nichanian, mostrano scetticismo e parlano del genocidio come una vera ossessione che impedisce l’elaborazione del lutto e, infine, la pacificazione.  

Hrant Dink, giornalista armeno di Istanbul e promotore del dialogo turco-armeno ucciso nel 2007 da un giovane nazionalista turco, guardava al genocidio da una posizione nettamente anti-imperialista e si mostrava critico nei confronti delle risoluzioni ufficiali emesse nei parlamenti stranieri, che a suo avviso non facevano altro a replicare le stesse manifestazioni di forza della Turchia. Le sue riflessioni lasciano intendere che il riconoscimento del genocidio,  un atto politico che parla la lingua dei governi e delle carte internazionali, possa offrire sicuramente il termine corretto, ma di certo non la soluzione della controversia.  

memoriale del genocidio a Erevan, Armenia, foto di Maria Izzo