24 Luglio 2020
Le calciatrici della nazionale palestinese, provenienti da diverse città e villaggi della Palestina, attraverso l’analisi di documentari ed interviste realizzate con diverse giocatrici
Quali sono le difficoltà che incontrano le calciatrici palestinesi nel loro rapporto con il mondo del calcio? Uno studio di Natali Shaheen sulle calciatrici della nazionale palestinese, provenienti da diverse città e villaggi della Palestina, attraverso l’analisi di documentari ed interviste realizzate con diverse giocatrici, è diventato un racconto collettivo che Q Code Mag pubblicherà a puntate. Le difficoltà che queste atlete devono affrontare derivano dalle differenze di genere, dalla cultura e dalla situazione economica e politica. Il confronto tra queste difficoltà e l’esperienza del calcio femminile diventa il racconto di un mondo al femminile.
Inizio seconda puntata
Un altro grosso ostacolo da affrontare è la disuguaglianza di genere.
A tale proposito nell’intervista sono state poste alle calciatrici le seguenti domande: c’è disuguaglianza tra calciatori maschili e femminili? Pensi che le squadre di calcio femminile in Palestina ricevano le stesse attenzioni rispetto alle squadre maschili, in termini di allenamenti, riabilitazione, attrezzature sportive e compensi economici?
Le loro risposte sono unanimi sul fatto che c’è disuguaglianza tra uomini e donne in tutti gli aspetti della vita in Palestina.
Per quanto riguarda lo sport, e il calcio in particolare, volendo fare un confronto tra il calcio femminile e quello maschile, si può dire che c’è molto più interesse, e quindi maggior sostegno, nei confronti del calcio maschile.
Ad esempio, nei campi di calcio, che sono già in numero limitato, l’utilizzo è prioritario per le squadre maschili. Anche i campionati nazionali femminili non ricevono la stessa attenzione di quelli maschili.
JACKLINE, a dimostrazione di ciò, ha commentato: «La Prima Lega palestinese di calcio femminile si è fermata dal 2016 e ci siamo dovute allenare con la squadra di club per due anni senza una motivazione o un vero obiettivo». Inoltre, i contributi che vengono dati alla squadra nazionale maschile per i raduni locali o internazionali sono molto maggiori rispetto a quelli che vengono messi a disposizione per la squadra nazionale femminile. Le calciatrici della nazionale vengono convocate per gli allenamenti con un preavviso di un solo mese prima dell’inizio del torneo, a differenza dei calciatori della nazionale maschile che svolgono raduni durante tutto l’anno».
DEEMA ha aggiunto: «Per quanto riguarda le attrezzature sportive, raramente i campionati femminili ne ricevono di nuove e decenti, e solitamente si tratta di attrezzature di seconda mano già utilizzate dalle squadre maschili. Inoltre la quasi totalità dei finanziamenti, sia pubblici che privati, è destinata alle squadre maschili». «Bisogna inoltre considerare che la maggior parte degli allenatori non si sente ripagata ad allenare le calciatrici in quanto non vengono considerate professioniste», ha affermato SHADEN, mentre SAJA ha detto: «Durante le partite femminili ci sono pochissimi spettatori; invece quando un maschio della famiglia deve giocare a calcio, tutti i parenti e gli amici vanno a vederlo per supportarlo».
La Palestina, unico paese al mondo sotto occupazione, ha sofferto e soffre l’occupazione israeliana sotto tutti i punti di vista, compreso quello sportivo, con le violazioni e restrizioni che essa impone alle atlete e agli atleti palestinesi, limitandone in maniera considerevole i diritti e la libertà e influenzando la loro carriera atletica e tutti gli aspetti della vita quotidiana.
Gli atleti di entrambi i sessi soffrono di limitazioni nella mobilità, soprattutto a causa dei numerosi check-point illegali israeliani (posti di controllo dell’esercito) posizionati nell’intero territorio palestinese; questi “posti di controllo” molestano e causano ritardi agli atleti che si dirigono, dalle varie città o villaggi, agli allenamenti o alle competizioni. Inoltre, le autorità israeliane molto spesso negano agli atleti palestinesi, diretti all’estero per partecipare a competizioni internazionali, i permessi di viaggio e non consentono ad atleti stranieri l’ingresso in Palestina.
La situazione a Gaza è ancora peggiore: gli atleti, insieme a tutti i civili, vivono in un’enorme prigione a cielo aperto controllata dagli israeliani, da cui nessuno può uscire o entrare. Questo blocco del territorio è iniziato 13 anni fa ed è tuttora in corso.
Tutte le calciatrici intervistate hanno affermato che gli ostacoli al diritto di movimento tra le città della Palestina e le limitazioni ai viaggi costituiscono il problema più grande da affrontare.
Questa violazione dei diritti umani fondamentali nega agli atleti palestinesi la possibilità di acquisire esperienze in ambito sportivo, venendo quindi a mancare il confronto con squadre ed atleti provenienti da realtà differenti. Di conseguenza si indebolisce il livello generale del calcio in Palestina.
L’assedio di Gaza nega alle atlete e agli atleti locali la partecipazione a qualsiasi evento sportivo, sia in Palestina sia fuori dalla nazione.
TALEEN e SHADEN confermano che «questi ostacoli limitano le nostre possibilità di allenarci come una vera squadra e di riunirci. Le ragazze che fanno parte della nostra equipe provengono da varie città della Palestina e alcune sono costrette ad attraversare diversi check-point israeliani per poter arrivare, finalmente, all’allenamento».
SAJA, che vive ad Alarraba, un villaggio palestinese occupato dagli israeliani, ha dichiarato: «Quando abbiamo una partita fuori della Palestina non posso viaggiare con le mie compagne della nazionale, passando attraverso lo stesso punto di frontiera o aeroporto; devo necessariamente utilizzare l’aeroporto israeliano di Tel Aviv mentre il resto della squadra utilizza quello di Amman (Giordania). A causa di ciò, al mio ritorno da un torneo con la nazionale in Turkmenistan, gli israeliani mi hanno trattenuto al check-point per tre ore, solo perché avevo nella valigia una sciarpa della Palestina e l’uniforme della nazionale palestinese».
«Poiché vivo a Gerusalemme – ha detto NOUR – ogni volta che vado all’allenamento devo passare attraverso il check-point israeliano. A volte mi trattengono per molto tempo e subisco lunghe perquisizioni; e questo mi fa arrivare in ritardo all’allenamento. Per evitare ciò e poter arrivare in tempo, devo uscire da casa diverse ore prima del dovuto».
«In passato – ha detto JACKLINE – quando giocavo a calcio con la nazionale e ci allenavamo a Ramallah, per arrivare agli allenamenti da Betlemme invece dell’ora e mezza che ci sarebbe voluta normalmente, impiegavamo 3-4 ore a causa dei posti di controllo e in particolare del “Container check-point”: i soldati israeliani chiudevano il check-point senza alcun motivo e costringevano i pendolari palestinesi ad aspettare per ore e ore, limitandone la libertà di movimento. Quindi, solo per gli spostamenti, dovevamo dedicare un gran numero di ore del nostro tempo e arrivavamo agli allenamenti esauste. Questa situazione si verifica tutt’ora quando abbiamo partite a Ramallah con la nostra squadra di club».
DEEMA ha aggiunto: «Oltre a tutto ciò, atleti e club palestinesi hanno affrontato e continuano ad affrontare azioni oltraggiose da parte dell’esercito israeliano. Alcuni atleti sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco, altri imprigionati ed altri ancora feriti in modo da distruggere la loro carriera sportiva; tutto ciò nella totale violazione dei diritti umani. Inoltre, molte strutture sportive sono state distrutte dall’esercito israeliano. Questo senso di insicurezza crea paura nelle famiglie palestinesi che, di conseguenza, impediscono alle figlie di fare sport perché non si può separare una situazione politica di questo tipo dalla vita sportiva. Anche il divieto di acquisto di attrezzature sportive è un grave problema per lo sviluppo degli atleti: difatti è praticamente impossibile effettuare spedizioni, in partenza e in arrivo; inoltre è quasi impossibile ottenere dal Governo israeliano il permesso per la costruzione di impianti sportivi. Inoltre, il Governo israeliano molto spesso nega i permessi di entrata in Palestina ad atleti, allenatori e a delegati ufficiali di squadre estere».
«L’occupazione israeliana – afferma la dott.ssa KHALIL – è una delle cause principali del blocco
dello sviluppo dello sport in Palestina e cancella la possibilità di uno stile di vita normale».
Abbiamo posto alle calciatrici la seguente domanda: «La mancanza di infrastrutture sportive in Palestina è un ostacolo per la vostra crescita sportiva?».
Tutte le atlete hanno risposto: «Si, ed è proprio questo fatto che ci ha reso forti e ci ha spinto a migliorare come atlete. Siamo state le prime calciatrici a giocare in Palestina e abbiamo affrontato mille difficoltà, fra cui quelle legate alla mancanza di infrastrutture. Siamo sempre state abituate ad allenarci in campi di cemento all’aperto, in quanto i campi al coperto erano inesistenti. Inoltre, nel periodo invernale, abbiamo dovuto annullare gran parte dei nostri allenamenti per garantire la nostra incolumità: difatti, allenarsi su un campo scivoloso in calcestruzzo avrebbe causato numerosi infortuni».
Alcune atlete hanno anche menzionato il fatto di non potersi allenare e giocare, a differenza di altre Rappresentative nazionali, su campi in erba in quanto praticamente inesistenti in Palestina.
Questa differenza ha causato non poche difficoltà, influenzando negativamente i risultati. Difatti tutti sanno quanto sia diverso giocare in un campo in erba rispetto ad un campo sintetico. Inoltre, la mancanza di palestre e di altre infrastrutture sportive, non aiuta certamente il miglioramento di una crescita sportiva.
«A questo problema – ha detto SHADEN – si aggiunge il fatto che l’utilizzo dei campi da allenamento e da gara viene dato prioritariamente agli uomini. Noi donne spesso dobbiamo lottare per ottenere anche solo due ore di allenamento durante la settimana». JACKLINE ha ribadito che la mancanza di infrastrutture sicure è anch’essa un ostacolo alla diffusione del gioco del calcio femminile nelle aree rurali. Ad esempio, le ragazze nei villaggi e nelle aree emarginate non possono giocare a calcio di fronte ai maschi a causa di regole comportamentali legate alla tradizione, ma purtroppo non esistono palestre o campi chiusi disponibili dove queste ragazze possano svolgere le loro attività sportive in tutta sicurezza. Ecco perché non giocano a calcio o, dopo i 13 o 14 anni, scelgono di svolgere altre attività sportive.
DEEMA ha detto: «Poiché la Palestina è uno stato occupato, gli atleti soffrono la mancanza di campi di allenamento, e più della metà delle squadre palestinesi condividono lo stesso campo. Inoltre, per la costruzione di stadi, campi, centri sportivi o club, è necessaria un’approvazione del governo di occupazione israeliana, che molto spesso non arriva».
Come già detto, causa fondamentale della mancanza di infrastrutture sportive è l’occupazione israeliana; più della metà delle terre palestinesi è sotto il controllo israeliano, per cui si riduce la possibilità di costruire strutture e campi sportivi che potenzierebbero lo sport in Palestina. L’Autorità Nazionale Palestinese (PNA) controlla solo il 17,9 % della Cisgiordania 14 e non è quindi neppure in grado di organizzare, nella propria terra, una maratona regolamentare, in quanto non si può sviluppare un percorso corretto con la distanza necessaria per dare validità ufficiale alla gara. Per esempio, nella “Maratona di Betlemme”, organizzata annualmente, per effettuare il chilometraggio regolamentare di una maratona i partecipanti sono costretti a correre due volte lo stesso percorso, a causa della presenza del muro di separazione costruito da Israele per limitare la libertà di movimento dei palestinesi. Questo conferma ciò che DEEMA ha espresso precedentemente.
Intervistando il giornalista sportivo MOHAMMAD ALAKHRAS di Gaza ho notato che, quando si parla delle donne nello sport, la situazione nella Striscia è molto diversa rispetto a quella della Cisgiordania.
MOHAMMAD è stato coinvolto nel calcio femminile ma ha coperto ruoli importanti nelle attività calcistiche della Palestina per entrambi i generi. Mi ha informato che a Gaza non esistono squadre femminili di calcio perché alle donne è severamente vietato praticare questo sport: per motivi tradizionali, culturali e a causa delle restrizioni imposte dalle famiglie. Le ragazze stesse sono consapevoli di queste limitazioni e quindi non tentano nemmeno di praticare il calcio; sanno che dovrebbero affrontare innumerevoli ostacoli e critiche e che, alla fine, la loro ostinazione potrebbe causare gravi problemi a loro stesse e alla famiglia. Nonostante tutto fra le ragazze di Gaza vi è il desiderio di giocare a calcio. Anche loro amerebbero essere calciatrici esattamente come succede in qualsiasi altra parte del mondo – ha detto MOHAMMED.
Sempre MOHAMMAD riferisce che due anni fa il Centro per l’Azione di Sviluppo “Together”, in collaborazione con l’UNICEF e sostenuto dal Governo del Giappone, sotto la supervisione della Federcalcio Palestinese (PFA), aveva organizzato un piccolo torneo di calcio per le ragazze Under 14. La Federazione ha ricevuto numerose adesioni da ragazze che avrebbero voluto partecipare ma, sfortunatamente, l’intervento di vari enti e associazioni contrari a questa iniziativa ha fatto sì che il torneo non avesse luogo.
«La città di Gaza – dice MOHAMMAD – soffre della sua situazione politica ed economica di grande difficoltà e anche questo contribuisce a rendere più difficile per le ragazze giocare a calcio. Ma il motivo principale per cui le ragazze non praticano questo sport è, come già detto, la ristrettezza culturale imposta da alcune organizzazioni radicali e dai partiti islamici. La maggior parte di loro crede che le ragazze giocando a calcio possano influenzare l’etica e le tradizioni dell’intera comunità e per questo motivo non avrebbero diritto a praticare questo tipo di sport».
Ha aggiunto inoltre: «Probabilmente ci sono delle ragazze che giocano a calcio all’interno delle scuole femminili anche solo per divertimento e altre che probabilmente lo fanno in posti segreti al coperto, ma ufficialmente le ragazze di Gaza non sono autorizzate a giocare in pubblico: organizzazioni e partiti islamici impediscono loro di farlo. Ci sono proposte da parte della Federcalcio Palestinese (PFA) sia per organizzare tornei di calcio femminili a Gaza ma anche per istituire delle squadre femminili. Tuttavia, questo potrebbe accadere solo ad una condizione: che le organizzazioni e le parti islamiche approvassero tali attività anche se, come precedentemente specificato, proposte di questo tipo sono già state rifiutate».
Una conferma alle affermazioni di MOHAMMAD è testimoniata da documenti della Federcalcio Palestinese (PFA): questa, all’inizio del terzo millennio, ha formato una squadra di calcio femminile per rappresentare la Palestina ai campionati internazionali. Le calciatrici provenivano da tutta la Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza. Dopo la loro partecipazione ad un campionato, nel 2006, le calciatrici della Striscia di Gaza non hanno potuto continuare ad allenarsi e a competere a causa di ripetuti attacchi israeliani e, da allora, non hanno più ripreso a giocare a causa delle decisioni politiche interne. E così il calcio femminile in Palestina si è diffuso limitatamente alla sola Cisgiordania e ciò è accaduto per via degli spostamenti, apparentemente più agevoli, delle calciatrici della Cisgiordania rispetto a quelli delle atlete di Gaza.
Una calciatrice palestinese di Gaza, HALA, ha dichiarato: «Nel 2006 la partecipazione delle donne al calcio a Gaza è stata ancora più difficile a causa della distruzione del campo da parte di un razzo israeliano» e ha aggiunto: «Nel 2007, dopo che il partito islamico di Hamas è salito al potere, è diventato ancora più difficile che le donne potessero giocare a calcio. Il calcio femminile è stato ufficialmente sciolto ed è praticamente scomparso dai club sportivi gazawi».
Durante il periodo dell’amministrazione egiziana di Gaza, invece, lo sport femminile era popolare e incoraggiato dai genitori e dalla comunità. La visione maschile, che proibiva lo sport alle ragazze, al tempo semplicemente non esisteva. MUAMMAR BSEISO – uno dei promotori dello sport femminile a Gaza – ha riferito: «Durante il periodo 1959-1967 non esistevano restrizioni da parte della società per quanto riguarda la partecipazione femminile allo sport, l’unico ostacolo era la situazione politica che lo rendeva più difficile». NAJWA TERZI, atleta palestinese di Tennis da tavolo degli anni ‘60, ha confermato: «La società palestinese incoraggiava le ragazze sotto tutti gli aspetti, sportivi e non, quindi sotto questo punto di vista non avevamo problemi».
Questo saggio ha voluto mettere in evidenza solo alcune fra le tante sfide che devono affrontare quotidianamente le calciatrici palestinesi. Ha voluto anche sottolineare le ragioni per le quali è difficile trovare, in Palestina, ragazze che si dedichino al calcio.
Per le donne praticare sport è molto importante e utile sotto molti aspetti, sia fisiologico che psicologico. Lo sport dà forza alle donne, le fa crescere in personalità, mentalità e abilità; consente loro di vedere e comprendere il mondo in un modo diverso e migliore. Pertanto, non avere opportunità in ambito sportivo è decisamente ingiusto. Credo che sia difficile per chiunque capire cosa significhi davvero sopportare tutte queste difficoltà senza essere coinvolti in prima persona.
Vi sono molte problematiche che non si è potuto affrontare e approfondire nel presente saggio. Per esempio, l’accettazione delle atlete che devono o vogliono indossare l’hijab: questo indumento non è ancora stato approvato da tutte le federazioni sportive e per le atlete che partecipano a tornei internazionali avere questo permesso sarebbe molto importante. Inoltre, le fabbriche di indumenti sportivi non producono abbigliamento specifico autorizzato dalle federazioni delle varie discipline per le atlete che utilizzano l’hijab. Sarebbe importante che potessero trovare indumenti sportivi adatti, realizzati con lo stesso tessuto e la stessa qualità degli indumenti che indossano le altre atlete. Come sappiamo, l’abbigliamento sportivo professionale è di grande importanza in quanto influenza realmente i risultati dell’atleta e il raggiungimento di migliori prestazioni. Per risultati di alto livello anche la differenza di un solo secondo è importante e gli abiti non professionali rallentano le prestazioni.
Nonostante queste difficoltà, le calciatrici palestinesi resistono e non cedono di un millimetro, perché credono che il potere dello sport sia tale da poter cambiare le cose e superare qualsiasi ostacolo; può riunire atleti provenienti da diverse parti del mondo incurante delle diversità di ognuno e insegna il vicendevole rispetto a prescindere da razza, cultura o religione.
Tutti devono avere il diritto di fare sport in qualsiasi modo si scelga di farlo, sempre che questo non influisca sulla libertà e sul diritto dell’altro: accettare e rispettare gli altri dovrebbe essere lo stile di vita di ogni sportivo.
Le atlete sono abituate a situazioni straordinarie e questo è esattamente ciò che le calciatrici affrontano in Palestina; devono lottare e fare sforzi incredibili per superare questi ostacoli, con pazienza e sacrifici.
Le calciatrici intervistate hanno confermato di essere pronte ad affrontare questo duro lavoro di resistenza, convinte che per raggiungere grandi risultati debbano essere fatti grandi sacrifici; si aggrappano alla speranza di poter fare, a piccoli passi, grandi cambiamenti e realizzare i propri sogni e ambizioni. Loro non si arrenderanno mai, per l’amore e la passione che hanno nei confronti del calcio stesso.
In conclusione, tutte le atlete hanno affermato: «Vivendo in un posto dove il calcio è una sfida, si sviluppa un legame più forte tra te e la palla, e tutto ciò che desideri è spingerti oltre i limiti ed essere la migliore versione di te stessa come calciatrice».
Le intervistate vorrebbero inviare un messaggio alle calciatrici di tutto il mondo che affrontano difficoltà simili alle loro: «Continuate a lottare per la vostra passione, senza mollare mai, anche di fronte ai numerosi ostacoli che incontrerete. Un giorno tutte queste difficoltà non ci saranno più e raccoglierete il vostro successo, orgogliose di non avere mai mollato».
FINE DELLA SECONDA E ULTIMA PUNTATA