Palestina. La solidarietà dal basso al tempo del Coronavirus

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6 Aprile 2020

Nell’anno che per l’Onu avrebbe segnato l’inabilità di Gaza, è il mondo intero a rischio

Musica dai balconi, concerti, persone ammassate che ballano sui tetti. Campo di Aida, Palestina, una manciata di metri da Betlemme, dove il 5 marzo sono comparsi i primi casi di persone contagiate da Covid- 19 e la popolazione vive in quarantena da settimane. Gente ammassata prima, gente ammassata oggi: non è imprudenza, è che proprio lo spazio non c’è, nei campi. Non c’è in tempo di pandemia globale come in tempo di normalità. Perché la normalità, in Palestina, non esiste.

Un campo è un campo e resta un campo. Quando piove e quando c’è il sole, in estate o in inverno, in tempo di guerra e in tempo di pace. Una pace mai vista, da queste parti. Una guerra a bassa intensità invece costante, dichiarata da Israele contro i diritti umani.

Siamo tutte e tutti sulla stessa barca, si dice al tempo della pandemia. Ma probabilmente a dirlo è chi vede intaccato per la prima volta il proprio privilegio, chi deve fare i conti con il paradigma improvvisamente decostruito della propria libertà come valore assoluto. Qui, nelle città europee da cui scriviamo e osserviamo, è stata messa in attesa la nostra libertà. Una delle molte possibili, non l’unica, non quella buona per tutti. Un modello egemone, piuttosto, che raramente tiene conto della subalternità che si snoda tutto intorno. Non uno schema valido per chi è precario, sfruttato, per lavoratrici e lavoratori costretti a mandare avanti la macchina produttiva di questo paese malato, e da molto prima che contraesse il Covid-19. Non per chi vive recluso da sempre, che sia in un carcere, in un centro di espulsione per migranti, in un campo profughi ai confini d’Europa o in una striscia di terra assediata come Gaza.

Non si entra, non si esce. Entra il virus, ma non i medicinali. Entra il contagio, ma non i respiratori. E se il 2020 per noi è l’anno “bisesto e funesto”, per Gaza è il timer che ha finito di correre, il conto alla rovescia terminato: 2020, l’anno in cui secondo le Nazioni Unite la Striscia sarebbe divenuta “inabitabile”. Ci siamo. Suona la sveglia, e chissà se da qui, oggi, riusciremo finalmente a sentirla.

È in questi luoghi dimenticati, però, che si snodano forme di solidarietà dal basso, praticate da comunità che non hanno bisogno di imparare a diventarlo, perché probabilmente non hanno mai smesso di esserlo. Il virus è arrivato in Palestina i primi giorni di marzo. A Betlemme, tra le stanze dell’Hotel Angel, che aveva
accolto un gruppo di turisti in arrivo dalla Grecia. Duecentoventisei le persone contagiate ad oggi in tutti i territori occupati (di cui 23 nella Striscia di Gaza, dati aggiornati al 5 aprile, ndr) e una vittima a Ramallah. Ma il pensiero, subito, corre ai campi di Betlemme: Aida, a sinistra; Dheisheh, a destra. Una strada in mezzo e a pochi passi la Basilica della Natività, dalla quale distano appena un istante, restando tuttavia invisibili allo sguardo distratto di chi arriva da lontano e passa oltre.

Se il virus arrivasse là dentro, tra vicoli angusti e case ammassate, tra generatori esposti e cavi elettrici appesi, a scoppiare non sarebbe un’epidemia, ma
una catastrofe.

Ad arrivare, per ora, sono foto che mostrano quei campi deserti. Quegli stessi campi che ogni giorno, fuori dal tempo sospeso della pandemia globale, brulicano ad ogni ora di un caotico traffico di persone che fanno cose.

Forse perché qui, tra muri e torrette militari, in stato di assedio permanente, il termine coprifuoco cambia di senso. Forse perché qui isolamento è condizione cristallizzata e statica, perlopiù ignorata da un sistema che si tiene perfettamente in equilibro nella distanza esistente tra dominanti e dominati, tra
modelli da difendere a ogni costo e vita umana che perde di senso.

Forse, perché qui la libertà di uscire, fare, vivere, respirare non è mai stata poi così scontata. E quando tutto si ferma, quando non si può uscire di casa, qui significa un’altra cosa. Vuol dire che fuori lo spazio è occupato da un nemico che ha preso il tuo posto; che, diversamente dal virus, è visibilissimo, eppure ugualmente insidioso. E allora, alla paura qui si risponde con un disordinato e caotico movimento mai immobile, vitale, frenetico. Non in questi giorni, però. Non quando il contagio è alle porte, le strutture sanitarie sono fiaccate da decenni di occupazione, e mai sarebbero in grado di gestire i numeri a cui stiamo assistendo in Europa.

Però, ci si può dare da fare. Ed è qui, nello spazio che corre tra i vicoli dei campi e Betlemme, che è stata creata la prima squadra di volontari: 300 persone, tra medici, psicologi, terapeuti, attiviste e attivisti di lungo corso, impegnati per sostenere la popolazione dal basso con forme di organizzazione che – raccontano – “ricordano i tempi e i modi dei Comitati di Resistenza popolare della Prima Intifada”.

Fu a quell’epoca che gli stessi villaggi nei pressi di Betlemme, come Beit Jala e Beit Sahour, furono a lungo isolati e assediati, la popolazione costretta a una quarantena preventiva. Non per evitare il contagio di un virus sconosciuto, ma perché le strade erano infiammate dalla Prima Intifada, e l’assedio imposto dalle
autorità militari israeliane era il modo di fiaccare una popolazione resistente.

Le cose non andarono esattamente così: fu in quegli assedi che la popolazione palestinese sviluppò le forme più creative di resistenza e mutualismo, sopravvivendo per mesi nelle proprie case, usando i balconi come oggi noi li
usiamo: per parlare e per suonare, per riconoscersi e confortarsi, lanciarsi messaggi di speranza e possibilità. Fu in quelle quarantene imposte dalla potenza occupante che nacquero i Comitati di Resistenza popolare, gli orti comuni, le scuole autogestite nei fienili, gli ospedali popolari, forme di home economy ante litteram per boicottare l’economia dell’occupante. Sono i figli di questa storia che oggi si trovano chiusi nelle proprie case per fronteggiare il rischio del contagio, abituati a un’esistenza che ha fatto della capacità di resistere a condizioni inumane la sua stessa essenza. Sono quei figli che oggi stanno tornando a praticare e riscoprire quei modelli di solidarietà e mutualismo.

Perché se in Palestina lo Stato non esiste, esistono però le persone che si sanno aiutare.

Che si organizzano per sanificare autonomamente i vicoli dei campi e le strade, raccogliere i rifiuti, informare la popolazione, distribuire aiuti alle famiglie più fragili – 370 i pacchi alimentari consegnati dai Comitati popolari solo ad Aida in queste ore – assistere gli anziani, mettere su linee telefoniche di sostegno
psicologico. Se non esiste lo Stato, se non ci sono le strutture, ci sono però le possibilità della solidarietà.

Quella che dai villaggi fra le colline risparmiati dal virus fa arrivare a Betlemme frutta e verdura; da Hebron le mascherine auto-prodotte da calzolai che si sono reinventati nello spazio di poche ore, e dove già si sta sperimentando la produzione autonoma di respiratori. Perché è contagioso il virus, dicono, ma pure la speranza.

E mentre a Gaza i contagi aumentano, e gli ospedali si preparano al peggio, Israele bombarda la Striscia e distrugge una piccola clinica attrezzata nella Valle del Giordano. Nel quartiere di Sur Baher, a Gerusalemme, confisca le scorte di cibo raccolte per essere donate alle famiglie più bisognose, e arresta i volontari che
disinfettano le strade in autonomia. Perché a quel peggio non c’è mai fine, soprattutto quando non sai da dove arriva.

Intanto, giovani artisti gazawi dipingono mascherine colorate per distribuirle alla popolazione assediata, o creano sculture di sabbia per ricordare alle persone di stare a casa. Nascondendo dietro a un sorriso la consapevolezza che se il contagio si diffondesse qui come accade in Europa, per Gaza sarebbe davvero la fine. E no, in quel caso non saremmo affatto sulla stessa barca.

“Paesi più forti del nostro hanno avuto modo di prepararsi alla gestione dell’emergenza, diversamente da noi, che in stato di emergenza viviamo da oltre 70 anni, sottoposti ad un’occupazione esterna”, scrive la giornalista palestinese Mariam Barghouti. “Ma ci stiamo provando. Nei villaggi le famiglie stanno mettendo
a disposizione le case disabitate per chi deve affrontare la quarantena. Gli hotel hanno offerto le proprie camere allo Stato. Dai villaggi arrivano donazioni di frutta e verdura. Ci stiamo provando. E stiamo provando a farlo bene”.

Intanto, tra i vicoli dei campi con guanti e mascherine si continua a manifestare: per la libertà dei prigionieri politici, ad esempio, detenuti in condizioni disumane da Israele già prima, ora doppiamente esposti al rischio di un contagio che, se arrivasse nelle carceri, sarebbe fatale. Ed è ancora da quei vicoli che è arrivato all’Italia un messaggio toccante, quando nelle nostre città le vittime del virus toccavano quota 800 in un giorno: “Non abbiamo dimenticato la solidarietà degli amici italiani”, c’era scritto sui cartelli portati dalla popolazione di Aida.

Oggi, chi è abituato a resistere da sempre fronteggia questa nuova sfida, trovando il modo di riderci sopra.

“In fondo è la prima volta che il coprifuoco ce lo imponiamo da soli, invece che subirlo da Israele” commenta sorridendo qualcuno, tra i vicoli di Dheisheh.