Più grande di me. Voci eroiche dalla ex Jugoslavia, fino al 12 settembre al Maxxi di Roma, è una mostra coraggiosa e radicale se contestualizzata a questi primi vent’anni di XXI secolo caratterizzati in ambito culturale e istituzionale da grandi forze conservatrici e conformiste, rassicuranti.
Per spiegare la mostra mi affido a parte di una spiegazione di Zdenk Badovinac, curatrice della mostra assieme a Giulia Ferracci:
“L’aspetto cruciale per cui dobbiamo lottare oggi è la società. Ma come costruire una società oggi? Io credo che la risposta che dà la mostra sia che l’unica via possibile è quella collettiva, che la società può essere costruita da molti gesti eroici di individui all’interno di una collettività. Quindi questa questione dei gesti eroici dalla ex Jugoslavia in qualche modo tenta di riflettere sulla tradizione della Jugoslavia socialista, della lotta di liberazione partigiana, sulla lotta contro il fascismo e contro l’occupazione durante la seconda guerra mondiale, ma anche sui lati positivi del socialismo ovvero la valorizzazione dei lavoratori e il trattamento diverso riservato alle donne. Naturalmente molti dei valori del socialismo nella realtà non si realizzarono come erano stati idealmente pianificati. Tuttavia questo piano ideale era presente ed era sempre ripetuto nella realtà, quindi c’era una misura, questa cornice ideale era una misura, quindi possiamo misurare quale fosse la differenza tra la realtà ideale e realtà concreta. È un’esperienza molto importante che in qualche modo è presente in tutte le persone che vivono nel territorio dell’ex Jugoslavia. L’esperienza delle idee di emancipazione per un futuro migliore sono in effetti i nostri gesti eroici, i gesti eroici che sono ritratti nei lavori degli artisti in mostra.”
Suddivisa in otto sezioni Libertà, Uguaglianza, Fratellanza (Bratstvo), Speranza, Rischio, Individuo, Alterità, Metamorfosi, questa mostra ci parla, ci comunica qualcosa di grandioso che ha riguardato la storia passata, un modello emancipativo di convivenza e di diritti conquistati lottando in maniera collettiva, condizione quest’ultima che difficilmente vedremo riproporsi nel futuro prossimo.
Vediamo la storia di uno stato socialista nato dalla clandestinità partigiana che sembra distante anni luce rispetto alla nostra odierna realtà, impantanata in egoismi, egocentrismi, individualismi e personalismi.
Ma è anche una mostra che guarda al presente in maniera audace, come ad esempio la video installazione sulla Balkan Route Newsreel 65 dell’artista Nika Autr, appartenente al collettivo Obzorniška Fronta (Newsreel Front) in cui tramite una serie di differenti filmati in loop su una quindicina di monitor, riesce a documentare in maniera intima e dettagliata il dramma della migrazione.
I contenuti dei video sono quasi tutte testimonianze di chi si trova a percorrere la Balkan Route e, nel caso specifico, The game. Un migrante asiatico afferma che gli pare davvero strano che in Europa qualcuno possa pensarli come colonialisti, come portatori di sostituzione etnica, stoccando un ironico “I will colonaize you with filp flops” (Io ti colonizzerò con le infradito) in risposta alla potenza militare messa in campo dagli stati europei per colonizzare il pianeta; un contadino bosniaco, Boba, in evidente stato di indigenza, afferma di riuscire ad ospitare i migranti nel suo fienile perché tutto quello che ha lo divide, non risparmiando poi feroci critiche alla gestione europea delle migrazioni.
Restando sempre nella storia recente, colpiscono altri due lavori. The Sniper, opera del 2007 dell’artista sarajevese Adela Jušić, un video di 4 minuti sul padre soldato appartenente all’unità anti-cecchini della Bosnian Amry, caduto vittima di un cecchino serbo-bosniaco che l’ha ucciso sparandogli in un occhio, lo stesso occhio con cui prendeva la mira. L’opera è basata sugli appunti lasciati dal padre, un quaderno su cui è indicato il numero di soldati uccisi durante i suoi incarichi di combattimento.
È un’opera potente che intreccia il dramma famigliare, quello della guerra e il lascito che questi hanno nelle vite delle persone.
La seconda opera è iconica e imponente, nel piazzale del museo campeggiano le foto del progetto Angeli dalla faccia sporca di Igor Grubić appartenente alla sezione Fratellanza. I ritratti fotografici sono quelli dei minatori di Kolubara che, scioperando contro Milosevic, diedero il colpo di grazia alla sua caduta. Gli operai e i minatori di Kolubara decisero di scioperare perché consci del grande potere di negoziazione che avevano, il carbone che estraevano produceva il 50% dell’elettricità di tutta la Serbia. Anche loro sono stati degli eroi.
La sezione Uguaglianza affronta le questioni legate all’emancipazione femminile e svolge un importante ruolo di restituzione storica. È la sezione più potente dal punto di vista comunicativo e contenutistico in cui si affrontano contraddizioni e fasi storiche da sempre narrate solo ed esclusivamente da un punto di vista maschile.
L’artista macedone Hristina Ivanoska con l’opera Document Missing va a denunciare la mancanza di riconoscimento della storia delle donne nella società macedone. L’artista interpreta Rosa Plaveva, una delle più importanti femministe macedoni che ha combattuto per i diritti di donne e lavoratrici.
Poco più avanti troviamo I won’t let you down. So please don’t give up on me una breve storia a fumetti dipinta appositamente per la mostra sul muro del Maxxi dall’artista Darinka Pop-Mitić, in cui viene raccontata la storia di Didara Dukagjini Djordjević. Nata nel 1930 a Prizren da una famiglia albanese molto religiosa e tradizionale, a 17 anni iniziò ad insegnare alle elementari.
Nel 1950 venne invitata a Belgrado per presiedere il Fronte Antifascista femminile. Laureata nel 1963 in Storia presso l’università di Skopje, nel 1968 entra nell’Assemblea Federale per poi lasciarla nel 1973 a favore del Consiglio di difesa del popolo. La sua storia ci racconta le lotte per l’emancipazione delle donne all’interno del periodo socialista fino ad arrivare alle più recenti tensioni nazionaliste, lei sposata in matrimonio misto ha da sempre rivendicato le sue scelte: “Quell’essere mista era l’essenza della mia vita”.
Il documentario di 110 min del regista Želmir Žilnik One Woman – One Century raccoglie una lunga e intensa testimonianza di Dragica Srzentić che, dai suoi 99 anni, ci racconta la storia della sua incredibile vita, come solo il Novecento poteva generare.
Questa donna d’Istria nata vicino a Motovun (Montona) ha vissuto in otto stati: Austria-Ungheria, Regno d’Italia, Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, Stato indipendente di Croazia, Jugoslavia, Croazia e Serbia.
Una donna che si trovò a vivere a stretto contatto con le più importanti figure politiche e intellettuali legate alla storia della Jugoslavia, una partigiana combattente: dalle montagne Montenegrine sommerse nella neve, all’isola di Vis quand’era il quartier generale di Tito, fino a Londra per fare propaganda via radio. Dragica Srzentić partecipò anche alla commissione che si recò a Mosca per formalizzare la rottura tra Tito e Stalin.
In una scena del film viene documentato il suo ritorno al paese natale in Istria e incredibilmente questa anziana donna, tra una sigaretta e l’altra, inizia a parlare dialetto veneto con i suoi compaesani, un bellissimo cortocircuito della vita e della storia.
Infine il lavoro a mio avviso più impattante e monumentale si trova nella sezione Libertà, ed è l’opera del collettivo IRWIN, nato nel 1983 dalla scena punk di Lubiana, il cui nome deriva da Rrose Irwin Sélavycosì, pseudonimo femminile di Marcel Duchamp.
Imponente per dimensioni e per impatto visivo, l’installazione è una raccolta di ritratti di eroi del popolo della guerra di Liberazione, dipinti da artisti del periodo del realismo socialista e conservati per 80 anni nei magazzini del Museo della Storia della Bosnia Erzegovina.
Questi ritratti sarebbero dovuti essere inseriti nella collezione permanente del Museo della rivoluzione della Bosnia Erzegovina, ma il progetto non fu mai attuato. Il pubblico li vide esposti per la prima volta a metà degli anni Cinquanta, ma dopo quella mostra furono dimenticati nei magazzini del museo.
Il collettivo IRWIN li ha recuperati, ha aggiunto pesanti cornici nere fatte appositamente per l’esposizione e ha dato vita al progetto Was ist Kunst Bosnia and Herzegovina- Heroes 1941-1945, un progetto solenne che ci mostra i volti di alcuni degli eroi che hanno combattuto contro il nazifascismo, giovani uomini e giovani donne dipinti in abiti civili, in divisa da militare o da combattente.
Grazie a quest’opera che si espande per 20 metri in lunghezza e 4 in altezza, vediamo la storia davanti a noi, riusciamo a guardare negli occhi coloro che dovrebbero essere i nostri eroi, sono dipinti bellissimi, ricchi di una luce candida e delicata che contrasta con la durezza della lotta partigiana.
Tutti gli artisti presenti nella mostra Più grande di me. Voci eroiche dalla ex Jugoslavia è come se si fossero messi a disposizione di qualcosa, appunto più grande di me, più grande di loro, consci che quel qualcosa li avrebbe sovrastati, arrendendosi di fatto nell’utilizzare l’arte come mero esercizio edonistico e narcisistico.
Nella maggior parte delle opere presenti infatti troviamo un senso di arte sociale, necessaria a tutti e tutte, che contribuisce a farci acquisire un nuovo bagaglio emozionale e politico, nuove parole per descrivere nuove emozioni e fenomeni sociali. È tangibile negli artisti e nelle loro opere la consapevolezza di quello che è stato e di quello che è, di quello che c’era e che ora manca e di come al netto della situazione attuale manca in modo terribile.
Si percepisce un grande sentimento di perdita, ma allo stesso tempo anche quanto sia importante comunicare la vita di quegli eroi collettivi che hanno reso possibile qualcosa che va oltre le differenze, i settarismi, le ideologie e la storia, qualcosa che perfora la corazza di ognuno di noi arrivando fino al centro del nostro nucleo caldo rendendoci parte attiva, e conclusiva, della loro opera d’arte. Perché è a noi pubblico che viene data la possibilità della comprensione.