Portogallo, tra elezioni e pandemia

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15 Gennaio 2021

Mentre nella prima fase sembrava essere andato tutto bene, proprio alla vigilia del voto si mostrano crepe nella gestione del Covid-19

La sera dell’11 gennaio scorso nei telegiornali portoghesi, con i palinsesti già stravolti dall’impennata dei contagi degli ultimi giorni, ha fatto irruzione un’ultim’ora che dava come positivo al Covid-19 il Presidente della Repubblica, Marcelo Rebelo De Sousa.

La notizia, corretta il giorno dopo da altri due test negativi che smentirebbero il primo, suonava doppiamente notevole. Intanto andava ad aggiungersi ai report preoccupanti sull’ondata pandemica più pericolosa che il Portogallo abbia finora affrontato, e poi Marcelo (qui lo chiamano tutti così) è non solo il popolarissimo presidente in carica, ma anche il candidato in testa ai sondaggi per le elezioni presidenziali del prossimo 24 gennaio.

Elezioni attualmente in bilico, malgrado il Ministero degli Interni abbia imbastito in fretta un piano per favorire il voto anticipato e predisposto seggi speciali mobili per poter votare anche nelle case di riposo, noti focolai di contagio.

Il paese è infatti tornato al confinamento stretto e, se l’appuntamento elettorale non dovesse subire rinvii, potrebbe toccare un nuovo record di astensionismo (nel 2016 votò meno della metà degli aventi diritto).

Sta di fatto che, decretate il 13 e in atto dal 15 gennaio scorso, le nuove misure di contenimento arrivano già con notevole ritardo rispetto alla spaventosa evoluzione dei numeri: 10 mila casi e oltre cento decessi giornalieri, con un indice Rt al momento assestato su 1,2 e regioni che contano quasi mille infetti per centomila abitanti.

Cosa ha spinto il Portogallo e il suo governo a bruciare quel capitale di esperienza che nella primavera scorsa aveva fatto parlare di eccezione e addirittura di “miracolo” portoghese? Forse l’essersi creduti davvero investiti da miracolo divino. O forse, più probabilmente, la tentazione di vedere fin dove si poteva arrivare nel calcolo costi/benefici di una riapertura moderata ma decisa, in un paese la cui economia vive soprattutto di turismo e consumi interni. Non a caso qui si erano levate voci di protesta sempre più forti da parte del settore della ristorazione, complice qualche volto famoso fra gli chef stellati e televisivi, mentre questo o quell’intellettuale riscopriva addirittura il modello svedese che gli svedesi stavano per sotterrare.

Possiamo dire che il Portogallo della rentrée autunnale, con scuole, negozi e ristoranti aperti (sia pure con le ovvie misure di profilassi) è parso intenzionato a ritentare sommessamente la scommessa del primo Boris Johnson, quello che puntava a una rapida immunità di gregge ed esortava gli inglesi ad accettare la perdita dei propri cari (almeno finché lo stesso BoJo non cadde vittima del virus).

Ora che anche i portoghesi devono fare un passo indietro, tutti accusano la “movida” natalizia, sebbene la politica abbia fatto ben poco per evitarla. La notizia del test positivo al presidente in carica suonava quasi come l’ennesimo karma del morbo nei paesi che si azzardano a non prenderlo sul serio.

E il Covid-19 non è l’unico elemento di disturbo in una campagna presidenziale ben diversa dalla passeggiata che fino a poco più di un anno fa tutti predicevano al professor Rebelo de Sousa.

Non che la sua vittoria sia per ora in dubbio, ma non è certamente un buon momento per il paese che dall’inizio di quest’anno ha assunto la presidenza del Consiglio europeo, raccogliendo il testimone dalle mani di Angela Merkel, protagonista di un semestre che resterà, comunque la si pensi, nella storia dell’Unione. Si comincia, per restare in Europa, dallo scandalo della nomina del giudice portoghese alla neonata procura europea che indagherà su eventuali crimini finanziari legati ai fondi Ue.

A Lisbona la selezione pare essersi svolta sulla base di un curriculum ritoccato, che favorirebbe un giudice più mansueto rispetto alla procuratrice scelta da una giuria europea indipendente. Colti in fallo, al governo minimizzano, ma non è la congiuntura ideale, questa, per farsi diagnosticare la “febbre polacca” di controllo sul potere giudiziario. Così il caso è giunto al Parlamento europeo, che mercoledì prossimo dovrebbe interpellare António Costa in persona, visto che il premier sarà a Bruxelles per illustrare le priorità della sua presidenza rotativa.

Ma le elezioni presidenziali di gennaio portano un’altra novità sul piano politico nazionale. Mentre i partiti tradizionali, come spesso avviene qui, ne approfittano non tanto per rodare strategie e coltivare alleanze attorno a un candidato comune, quanto piuttosto per regalare visibilità al proprio, in questa corsa di tutti contro tutti si fa notare un concorrente nuovo: André Ventura, fondatore, leader e deputato (per ora) unico di Chega!

Il nome del partito si scrive proprio così, con il punto esclamativo, e significa “basta”. Nella nazione con uno dei più bassi tassi di accoglienza di migranti in Europa, Chega! sta forse riuscendo a raccogliere la rabbia che monta sempre nei periodi di crisi, quella contro il diverso, sia esso lusofono (gli zingari portoghesi) o allofono.

Provenendo non a caso dal sottobosco dei programmi tv di commento calcistico, al candidato Ventura finora va ascritta l’impresa di aver trasformato le tribune politiche in gazzarre da “processo del lunedì”, con una capacità speciale nell’azzannare i candidati di sinistra.

Un avvelenamento del discorso politico già incupito dal triste caso di Ihor Homeniuk, il cittadino ucraino bloccato per accertamento dalla polizia di frontiera all’aeroporto di Lisbona e ritrovato morto con chiari segni di percosse. Una vicenda che si è fatta strada a fatica nell’opinione pubblica, però oggi macchia la coscienza di un paese che ama credersi tollerante, ma è finora rimasto nella retroguardia della politica migratoria europea che si trova ora a coordinare per i prossimi sei mesi.

È su questi temi che André Ventura si dimostra a suo agio e al momento i sondaggi lo danno al 10% circa. Disputa il secondo posto ad Ana Gomes, la socialista indipendente che, essendo cane troppo sciolto, non ha l’appoggio del suo partito, la cui dirigenza preferirebbe il presidente in carica, ma non può dirlo apertamente perché viene dal partito di opposizione, il socialdemocratico, esponente della vecchia destra liberale che pare sull’orlo di sfaldarsi e nell’arcipelago delle Azzorre già governa grazie ai voti di Chega!

Il primato di Marcelo per ora non dovrebbe essere insidiato (virus permettendo), ma più di un indizio rende lecito il sospetto che, nel giro di poche tornate elettorali, una nuova destra in Portogallo potrebbe fagocitare la vecchia. Responsabilità in più per la sinistra.