Numeri. A Lampedusa i migranti sono numeri, per la maggior parte delle persone che vivono sull’isola. Sono numeri per l’amministrazione locale, per i gestori dell’hotspot, per le forze di polizia e per i giovani lampedusani che ti dicono ridendo “invasione”.
Ma per altri e altre no. Sono persone, sono storie, sono vite. Sono il motivo per cui vivono sull’isola in estate, ma anche in inverno, o semplicemente sono il motivo di lotta.
In 6500 abitanti ritroviamo uno spaccato d’Italia. Troviamo chi vorrebbe Draghi e chi invece si dice anti-capitalista. Trovi chi apre le porte ai migranti e chi brucia le barche. Trovi poi chi guarda al fenomeno migratorio e lo mette in relazione alla stagione turistica e al suo tornaconto.
Al Bar dell’Amicizia si parla di politica e di sport, si parla con il sindaco che arriva in motorino e beve un caffè mentre mangia uno dei tanti arancini della casa. Capita anche che esca il nome dell’europarlamentare Pietro Bartolo. Alcuni lo accusano di difendere l’invasione, altri invece lo difendono. Insomma il dibattito è acceso e complesso, certo non riassumibile in slogan.
Lampedusa è più vicina all’Africa che all’Italia, ma solo da un punto di vista geografico. La profondità dei mari che dividono l’isola da Sicilia e Tunisia è diversa e diventa anch’essa narrazione di una storia. E’ profondo non più di cento metri laddove il 3 ottobre di 7 anni fa sono morti più di 300 migranti. Arriva anche a mille nel tratto che separa il porto locale da Porto Empedocle.
Sull’Isola, all’inizio di Via Roma, una delle due principali direttrici cittadine, c’è un posto un po’ magico. Si chiama Archivio Storico, ed è uno spazio meraviglioso per capire qualcosa dell’isola, per vedere la sua trasformazione storica e incontrare una voce competente capace di tracciare una linea di connessione tra ieri e il domani.
La sera, sfruttando una panchina comunale proprio davanti alla vetrina, l’Archivio diventa una sorta di cinema in piazza. Una televisione in vetrina manda documentari su Lampedusa. Decine e decine di persone si siedono, guardano, ascoltano. Molti sono giovani. E molti ci vanno tutte le sere. Forse è un caso, ma dal lato opposto della strada c’è il museo storico.
Come tutti i luoghi d’incontro l’Archivio Storico attraversa le alterne fasi che l’isola vive: ora che il sistema di invisibilizzazione dei flussi migratori è efficiente (anche a causa della stagione turistica), e con la scusa del Covid-19, le maglie dell’hotspot si fanno più stringenti, sono le foto presenti sugli scaffali a ricordare le iniziative d’incontro e di socialità organizzate.
Si perché a Lampedusa succedono due cose, succede che la maggior parte degli sbarchi viene “accompagnato” dalla autorità italiane, le barche guidate al Molo Favaloro, dove i migranti caricati su mezzi che li accompagnano all’hotspot “scortati” da ambulanza, mezzi militari, e da una delegazione del Forum Sociale Lampedusa (unica presenza non istituzionale e non legata a forze di polizia o personale sanitario).
Oppure succede che i barchini non vengano intercettati, e che arrivino in maniera autonoma sulla costa. Mi è capitato di vedere uno di questi arrivi, all’Isola dei Conigli, sette ragazzi tunisini. Arrivati hanno chiesto come potevano contattare i Carabinieri per entrare nel sistema d’accoglienza.
E anche se non lo chiedessero la dimensione, molto ristretta, dell’isola e l’ossessione mediatica dell’invasione spinge molti lampedusani a chiamare le forze di polizia ogni qualvolta vedono gruppi di migranti in giro.
L’hotspot non dovrebbe essere un carcere, ma con le norme anti Covid è diventato più rigido il controllo, anche se solidali, istituzioni, e molti cittadini dicono “sarà quel che sarà ma noi li vediamo uscire lo stesso, c’è anche un buco nella rete che non è mai stato chiuso”.
Allo stesso tempo è vero che di migranti sull’isola non se ne vedono. Non se ne vedono quando nell’hotspot sono in 200, ma anche quando sono in 1200. La sera capita di vedere qualche gruppo di giovani girare per via Roma, sono pochi, pochissimi. E non sai mai se sono migranti, turisti o qualche lampedusano.
Certo non pare di vivere in un isola invasa, dai migranti. Se un invasione esiste è quella delle forze di polizia. Sono a centinaia fissi a Lampedusa, arrivano ad essere migliaia nei periodi “più caldi” degli sbarchi. A queste si sommano anche le forze militari che sull’isola sono una presenza storica. Non pare nemmeno che l’Isola viva in emergenza. L’emergenza, legata al rispetto della dignità umana, inizia però quando nell’hotspot iniziano ad esserci più di 192 persone, un emergenza che riguarda la vita di chi è li “ospitato” non certo un emergenza per chi vive l’isola.
Lo scontro estivo con il governo agito dal Sindaco di Lampedusa e dal governatore della Sicilia ha molti rivoli e risvolti politici, e certo parte da un presupposto: il sistema d’accoglienza post “Salvini” non funziona. Non funzionava prima e ora è ancora peggio.
E la politica, nazionale ed europea, non ha interesse, parrebbe, ad affrontare in maniera seria e responsabile la questione “migranti”, lasciando alla retorica e alla propaganda politica la vita di milioni di persone.
Ma lo scontro agostano nasceva anche dalla necessità di definire il ruolo dell’hotspot e dell’Isola stessa. Lampedusa non vuole e non può trasformarsi in Lesbo come invece avrebbe voluto fare Maroni nel 2011, ovvero trasformarla in una sorta di grande discarica umana per fermare i flussi. Ma non può nemmeno accettare che l’hotspot sia costantemente pieno, non può accettarlo perché questo significa accettare una situazione di degrado costante per chi è ospitato, e allo stesso tempo rischiare che la presenza migrante sia un detonatore di proteste che il Sindaco non vuole gestirsi visto il complesso equilibrio su cui vive la sua maggioranza.
Qui i migranti sono semplicemente numeri. Numeri che riempiono hotspot e navi quarantena al largo dell’isola. Sono numeri che vengono spostati nel “sistema di (non) accoglienza”. Numeri che vengono raccontati da telegiornali e giornali locali, perché appunto tra forze di polizia e turisti, gli spostamenti dei migranti dall’approdo all’hotspot è quasi invisibile. Tanto invisibile che isolani continuano a credere che durante il governo Salvini gli sbarchi fossero terminati e che il porto di Lampedusa fosse inaccessibile ai migranti. Mentre i registi ufficiali raccontano ben altro.
Ma mentre tutto questo succede Askavusa, Mediterranean Hope, Sea Watch, il Comitato 3 ottobre, tanti singole e tante singole, della parrocchia e non solo, lavorano con le persone, le incontrano, ci parlano, insegnano italiano (quando si può), assistono agli sbarchi portano un briciolo di umanità, raccontano storie di persone e provano a tracciare una narrazione diversa dell’Isola. Narrazione di prossimità, di presenza, di quartiere.
Una narrazione incapace di imporsi a livello mainstream dove è più facile dipingere Lampedusa come l’isola dell’accoglienza o l’isola che odia i migranti.
Una narrazione che ti dice che Lampedusa non è né una né l’altra cosa, è un luogo di confine e come tale ha al suo interno i sogni e gli incubi del confine ingigantiti dalla retorica e dal potere politico, Lampedusa è un mondo immerso nell’Italia e nell’Europa di oggi, vive le stesse contraddizioni figlie delle macerie sociali, umane, relazionali create dal neoliberismo e proprio per questo vede nel turismo, nei suoi luccichii e inganni, una via d’uscita dall’abbandono che la geografia avrebbe a lei regalato se non fosse diventata una dei centri d’osservazione mondiale per la gestione del fenomeno migratorio.