Tortura, covid-19 e rimpatri

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24 Marzo 2021

Storie di migrazione verso l’Europa ai tempi del Covid-19

Gli autori di questo progetto, il collettivo Brush & Bow C.I.C, hanno contattato Q Code Magazine per una partnership: il progetto è stato premiato dal Journalismfund.eu

Riceviamo e pubblichiamo il risultato di quel lavoro, tra Balkan Route e pandemia, diritti negati e responsabilità europee.

Traduzione dall’inglese a cura di Celeste Gonano

1. Storia di un rimpatrio: dall’Italia alla Bosnia

Il 13 aprile di quest’anno, il bilancio di morti a causa del coronavirus in Italia ha sorpassato i 20mila, arrivando nei titoli dei giornali di tutto il mondo. Nel pomeriggio dello stesso giorno, Saeed ha preparato con cura il proprio zaino. Un telefono, tre power bank, sigarette, un sacco a pelo e una foto dei sui figli che si trovano in Pakistan.

Durante il lockdown di marzo, Saeed è stato forzatamente detenuto nel campo per migranti e richiedenti asilo di Lipa, nel cantone bosniaco di Una Sana, vicino al confine croato. Arrivato fino a lì, era pronto per la tappa finale del suo viaggio verso l’Europa. Quella notte Saeed lasciò il campo.

Sulla strada verso il confine croato, a lui si sono uniti altri nove uomini

I migranti usano il GPS per attraversare i confini per restare lontani dalle strade principali e dai posti abitati

Per 21 giorni il gruppo camminò tra boschi e montagne attraverso Croazia, Slovenia e Italia, evitando città e strade, sempre attenti a non essere visti. Senza mai levarsi le scarpe, nemmeno per dormire.

In tempi in cui i contagi da Covid-19 erano molto alti, gli stati membri dell’Unione Europea hanno aumentato la sicurezza lungo i confini inviando l’esercito a controllarli e sospendendo la libertà di movimento come misura di prevenzione contro la diffusione del virus.

Questo ha fortemente influenzato la migrazione, dando a migranti e richiedenti asilo un’altra ragione per darsi alla macchia. Saeed e i suoi compagni lo sapevano bene. Ma, mentre attraversavano l’ultimo confine per l’Italia, pensarono che il peggio fosse passato.

Mentre scendevano le tortuose strade di montagna, il gruppo si fermò a Bagnoli, città di confine, per un caffè. Una piccola ricompensa. Dall’altra parte della strada, una donna guardò fuori dalla finestra e prese il telefono. La polizia arrivò pochi minuti dopo.

Come conferma la polizia, è grazie alle chiamate dei locali che vivono lungo le aree di confine che la maggior parte dei migranti viene intercettata dalle autorità.

Alcuni dei tracciamenti di migranti che attraversano irregolarmente i confini sono a cura della popolazione locale che avvisa le forze di polizia

Issati su un furgoncino della polizia, Saeed e i suoi conoscenti furono “passati” agli ufficiali sloveni e portati indietro al confine croato con la Bosnia in meno di 24 ore. Nessuna precauzione anti-covid fu presa e la loro richiesta di asilo fu ignorata.

Alla fine, quando il furgoncino si fermò il gruppo venne rilasciato all’aperto, in un campo, vicino all’argine di un fiume. Gli ufficiali nelle loro divise a tinta unita ordinarono loro, in croato, di levarsi i vestiti.

Alcune vesciche scoppiarono mentre la pelle di Saeed si staccava assieme alle sue scarpe. Due uomini furono picchiati con manganelli telescopici. Un altro fu frustrato con un pezzo di corda attaccato a un ramo. “Tornate in Bosnia” fu l’ultima cosa che sentirono urlare dagli ufficiali croati mentre tornavano sull’argine bosniaco del fiume.

La mattina del 7 marzo, Saeed tornò indietro a piedi nudi verso lo stesso campo bosniaco che aveva lasciato tre settimane prima. Questo fu il primo respingimento.

2. Il “gioco” della rotta dei Balcani

Piazza della Libertà, a Trieste, di fronte alla stazione dei treni principale, è la prima destinazione per tutte le persone che attivano dalla Bosnia

Dall’inizio della pandemia, l’agenzia europea Frontex ha riportato una diminuzione generale del numero di attraversamenti irregolari verso l’Europa. Questo è il caso di molti percorsi che portano in Europa tranne uno: la rotta dei Balcani, una strada che migranti e richiedenti asilo percorrono a piedi per andare dalla Turchia all’Europa centrale.

Fonte: Frontex data

Il 10 luglio, due mesi dopo quel primo respingimento dall’Italia, Saeed è seduto in Piazza Libertà, la piazza principale di fronte alla stazione dei treni di Trieste.

Giovani uomini provenienti da Afghanistan, Pakistan, Eritrea, Iraq e Syria siedono con lui in una delle panchine della piazza, formando piccoli gruppi illuminati nel sole che tramonta. Per quasi due anni, ora, questa piazza è stata il punto di ritrovo per le ‘persone in movimento’, migranti e richiedenti asilo che scappano da guerra, carestia e povertà nei propri Paesi d’origine arrivando a piedi dalla Turchia, attraverso i Balcani.

Siedono in Piazza Libertà in attesa che arrivino un gruppo di volontari che ogni giorno distribuiscono cibo, medicine e si occupano delle vesciche e delle irritazioni che molti hanno a causa delle lunghe settimane passate a camminare senza riposo.

Piazza Libertà a Trieste. Ogni giorno alle 6 di sera, volontari e dottori offrono cure alle persone che hanno appena terminato “il gioco”, camminando dai campi della Bosnia fino all’Italia

Saeed è sulla trentina, pulito, rasato e vestito in jeans strappati alla moda con scarpe impeccabilmente bianche. Potrebbe passare per un turista qualsiasi, se non fosse per le cicatrici che attraversano le sue braccia. “Ci sono due confini che sono particolarmente difficili da attraversare per raggiungere l’Europa” racconta.

Il primo è sul fiume Evros, che separa la Grecia dalla Turchia. Questa è l’unica alternativa per chiunque voglia evitare il rischio di attraversare in barca le isole greche, dove dilagano racconti di respingimenti da parte della polizia greca verso la Turchia.

Le maggiori rotte di migrazione verso l’Europa. Mappa gentilmente concessa da BVMN e No Name Kitchen. Fonte: BVMN Report Speciale sul Covid-19.

“Il secondo è quello tra Bosnia e Croazia” fa una pausa. “La strada tra questi due confini e tutta la strada che va verso l’Italia o l’Austria è chiamata ‘il Gioco’ “. “È facendo ‘il gioco’ che mi sono fatto queste” dice indicando le cicatrici.

Fare il Gioco è una delle uniche alternative per raggiungere l’Europa senza dover attraversare il Mediterraneo. Ma attraversare i Balcani è un viaggio altrettanto pericoloso, come la partita di un gioco dove bisogna non farsi prendere e arrestare dalle forze di polizia dei Paesi lungo la rotta.

Con lo scoppio della pandemia, il “Gioco” è diventato più pericoloso e difficile. Molti hanno riportato casi di violenze e abusi sessuali da parte della polizia. In Croazia, gli ufficiali di polizia hanno obbligato le persone a sdraiarsi, nude, una sopra l’altra mentre venivano picchiate e, con la vernice spray, venivano loro disegnate delle croci sulle teste; mentre tutto ciò che possedevano veniva rubato, i loro telefoni ridotti in frantumi o semplicemente gettati nell’acqua.

Uno dei luoghi dei respingimenti sul confine croato-bosniaco, vicino a Katinovac. Sul fondo del letto del fiume si possono vedere i cellulari. Questa pratica è spesso usata per ordine della polizia per ridurre le possibilità che le persone che si muovono ritrovino il proprio percorso lungo il confine o registrino i respingimenti.

Ultimo di 13 fratelli, Saeed voleva raggiungere un cugino a Marsiglia; un’opportunità di scappare dalla disoccupazione in Pakistan e spedire i soldi a casa, alla sua famiglia e figli che si trovano a Karachi. Nonostante la sua destinazione desiderata fosse in Francia, Saeed è stato obbligato a fare richiesta di asilo in Italia per prendere tempo ed evitare di essere arrestato e riportato in Bosnia.

Non è chiaro se le politiche di confine incrementate da inizio pandemia stiano evitando o fomentando maggiormente il traffico umano.

Con le attuali regolazione sulla giurisdizione dei rifugiati, la richiesta di asilo di Saeed in Italia ha poche probabilità di essere accettata. Povertà e il sogno di un futuro migliore non sono riconosciute come ragioni valide per garantire lo stato di rifugiato in Europa.

Fonti: IOM 2020 e UNHCR 2019

Nonostante fosse un elettricista qualificato in cerca di lavoro, la richiesta di asilo di Saeed gli rende impossibile di lavorare legalmente in Italia. Per sopravvivere ha iniziato a lavorare come guida per gli altri migranti, contrabbandiere di basso livello che cerca di trarre il massimo da ciò che ha imparato durante il “Gioco”.

Tira fuori dalla tasca un telefono di seconda mano e risponde a una chiamata. “Ci sono 70 uomini che stanno attraversando le montagne dalla Slovenia che saranno lì alle 4 di pomeriggio” dice. Il grande gruppo verrà diviso in gruppi più piccoli una volta arrivati al confine italiano, spiega Saeed, in modo da non dare troppo nell’occhio. Il percorso attraverso le montagne attorno a Trieste è pieno di segni di passaggio, sacchi a pelo, scarpe e vestiti dispersi dove i gruppi decidono di fermarmi e accamparsi la notte, prima di fare l’ultima tirata fino alla stazione dei treni di Trieste.

Un sentiero di montagna nei boschi tra Italia e Slovenia. Vestiti e altri oggetti vengono spesso lasciati dai migranti nel corso del viaggio

“Quando arriveranno, sarò il loro punto di contatto. Mostrerò loro dove ricevere le cure, dove comprare una sim per il telefono e gli darò i soldi che le loro famiglie mi hanno inviato per loro attraverso Western Union”. Fa una pausa “Conosco alcuni di loro perché siamo stati negli stessi campi in Bosnia. Cercherò di aiutarli perché so cosa si prova, loro in cambio mi danno una piccola ricompensa”.

Per tutta la durata del percorso ci sono quelli come Saeed che riescono a guadagnarsi un poco da vivere sulle rotte di migrazioni irregolari. In ogni caso, non è facile riconoscere le buone intenzioni di un contrabbandiere, e non tutti i contrabbandieri sono come Saeed. “Ci sono anche contrabbandieri che riescono a fare grandi affari dal rubare soldi approfittando delle persone che hanno poca esperienza” dice.

Indicando due giovani ragazzi afghani Saeed alza le spalle: “Mi chiedono dove potrebbero andare a prostituirsi per pagarsi la prossima parte del viaggio. Ci sono molte persone pronte a ricavare soldi dalla nostra miseria”.

3. Violenza al confine e paura del contagio

Da inizio pandemia, fare il “Gioco” è diventato ancora più complicato. Per migranti e richiedenti asilo sulla rotta balcanica, significa aggiungere il rischio di infezione a quello di arresto.

“Se la polizia ti sta cercando, è difficile preoccuparsi di ammalarsi a causa del virus. La cosa più importante è non farsi arrestare e spedire indietro” dice Saeed.

Saeed è stato mandato indietro in Bosnia cinque volte prima di riuscire a raggiungere Trieste e fare richiesta di asilo in Italia. Però, in quando richiedente asilo non può lavorare e per questo motivo ha deciso di lavorare come contrabbandiere di basso livello, aiutando gli altri a raggiungere Trieste in cambio di una piccola ricompensa.

Le norme covid sulle migrazioni hanno avuto l’effetto di spingere migranti e richiedenti asilo ancora più in una zona d’ombra, escludendoli dalle strutture che testano gratuitamente, sospendendo il loro diritto alla sanità e ignorando le misure nazionali di prevenzione contro la covid.

Questo è stato confermato da Lorenzo Tamaro, rappresentante del sindacato autonomo della polizia di Trieste (SAP). Da sotto le ampie arcate di Trieste, inzia. “La pandemia ha reso le cose più difficili per migranti e richiedenti asilo ma anche per noi della polizia”.

Per tutta la durata del 2020, la polizia italiana ha dovuto affrontare il difficile compito di fermare le entrate irregolari e al tempo stesso assolvere i compiti straordinari derivanti da due mesi di lockdown forzato.

La polizia italiana ha denunciato l’incapacità di gestire sia le migrazioni che le misure di sicurezza anticovid.

“La pandemia ha rivelato la crisi sistematica nelle politiche di migrazione in Europa, una cosa che abbiamo denunciato per anni” dice Tamaro. Si riferisce a come la polizia italiana sia al tempo stesso carente nel personale e nelle risorse quando si tratta di far fronte alle migrazioni irregolari, ancora di più durante il lockdown imposto durante la covid-19.

Con le spalle larghe, la sua voce porta con sé la consapevolezza di qualcuno che è abituato ad essere intervistato. “Gli stranieri che entrano nel nostro territorio senza autorizzazione stanno infrangendo la legge, in maniera ancora più grave dal momento in cui è in vigore un lockdown nazionale. Non siamo noi poliziotti a fare la legge, ma è il nostro lavoro assicurarci che venga rispettata”.

Nato a Trieste, Tamaro e i suoi colleghi si occupano di immigrazioni dai Balcani da anni. L’emergenza causata dai maggiori arrivi durante il periodo di lockdown in Italia ha spinto il Ministero degli Interni a richiedere lo schieramento di 100 contingenti armati italiani al confine con la Slovenia per supportare le operazioni di detenzione e arresto di migranti e il loro trasferimento verso campi per la quarantena che si trovano nella periferia della città.

Uno dei centri di screening per il contagio da Covid per migranti e richiedenti asilo in Italia si trova a Fernetti, proprio vicino al confine con la Slovenia. Il centro è composto da tende dell’esercito italiano e si trova di fronte a “Casa Malala”, centro di ospitalità per migranti e richiedenti asilo.

“Siamo ridotti a gestire sia l’emergenza sanitaria che quella migratoria senza reale supporto” dice Tamaro. “L’esercito è di aiuto nel fermare i migranti irregolari, ma poi siamo noi della polizia che dobbiamo fare lo screening sanitario senza i dispositivi di protezione personale adeguati. Questo è qualcosa in cui il Ministero avrebbe dovuto far specializzare medici e dottori, non la polizia”.

Per gestire l’aumento di arrivi sulla rotta Balcanica, l’Italia ha riportato in uso un accordo bilaterale con la Slovenia siglato nel 1996, dove viene stabilito che tutte le persone trovate senza documenti a 10 km dal confine sloveno nelle prime 24 ore del loro arrivo possono essere informalmente riammesse in Slovenia.

Secondo l’accordo di riammissione del 1996 tra Italia e Slovenia, tutte le persone trovate senza documenti a 10 km dal confine sloveno nelle prime 24 ore del loro arrivo possono essere informalmente riammesse in Slovenia.

“Secondo me il lavoro di riammissione funziona” dice Tamaro. “I contrabbandieri iniziano a portare i migranti verso Udine e Gorizia che sono fuori dalla zona dei 10 km della riammissione informale perché sanno che se fermati a Trieste corrono il rischio di essere riportanti in Slovenia”.

Il 6 settembre, lo stesso ministero dell’Interno italiano ha riconosciuto che 3,059 persone sono state riportante in Slovenia da Trieste solo nell’arco del 2020, mille in più rispetto allo stesse periodo nel 2019.

Fonte: Eurostat

Gli osservatori dei diritti umani hanno criticato questo accordo in quanto nega attivamente ai migranti la richiesta di asilo e quindi va contro la legge europa. “Sappiamo che l’Italia rispedisce le persone in Slovenia dicendo loro che possono fare richiesta di asilo da lì. Ma i respingimenti non finisco qui” dice Miha, un compenente dell’iniziativa solidale slovena Info Kolpa.

Dal suo arioso appartamento che dà su Ljubljana, Miha spiega come la Slovenia abbia fatto riemergere l’accordo di riammissione con la Croazia nel giugno nel 2018, permettendo un aumento dei respingimenti dalla Slovenia alla Croazia.

“L’Italia manda persone in Slovenia e la Slovenia le manda in Croazia” dice Miha. “E dalla Croazia, queste persone vengono respinte in Bosnia” fa una pausa. “Quello che l’Europa sta ignorando è il fatto che si tratta un sistema coordinato di respingimenti a catena, pensato per respingere le persone dall’Europa verso la Bosnia, un Paese extra-europeo. E in aggiunta alla violazione di diritti umani, nessuno si sta preoccupando dell’alto rischio di contagio”.

Una mappa che mostra la rotta di migrazione dalla Bosnia verso l’Italia (in rosso) e le operazioni di respingimenti a catena (in rosa) dall’Italia in Bosnia.

4. Tortura alle porte dell’Europa

Una parte del confine tra la Croazia e la Slovenia si trova lungo il fiume Kulpa. I migranti provano ad attraversare il fiume nei tratti dove non è recintato. Nel 2018 e nel 2019 alcuni sono annegati nel tentativo di attraversarlo.

I respingimenti diventano sempre più la normalità, e così anche la violenza. Dal momento che il confine croato-bosniaco è un confine esterno a quelli europei, la Croazia e la Bosnia non hanno degli accordi di riammissione simili a quelli con Italia e Slovenia.

Per questo, i respingimenti non possono semplicemente essere messi in atto da operazioni di polizia. Si verificano in maniera informale. Ed è qui che ha luogo la maggior parte della violenza.

I migranti hanno pubblicato online le prove della violenza della quale sono vittime lungo la rotta Balcanica. Questo è un video pubblicato su TikTok nell’estate del 2020 che mostra i pestaggi che hanno subìto molte delle persone che provano ad andare dalla Bosnia alla Croazia e sono respinte dalla polizia croata.

Nonostante il confine croato-bosniaco si snodi per più 900 km, la maggior parte di attraversamenti del confine si verificano in un posto specifico, nel cantone di Una Sana, nella punta più a est della Bosnia.

Il confine qui non è marcato da alte recinzioni con filo spinato come ci si potrebbe aspettare. La scena alla quale ci si trova di fronte è un meraviglioso paesaggio con boschi e montagne, con tortuose strade di campagna che avvolgono gentilmente le piccole città e fattorie di famiglia.

“Le ho viste tute” dice Stepjan, guardando fuori dalla sua casa imbiancata appollaiata a meno di centro metri dal confine croato-bosniaco. È un uomo di 45 anni, nato e cresciuto nella sua città, aggiunge: “Le persone hanno usato questa strada per anni per cercare di arrivare in Europa. A volte ho dato a chi passava di qui acqua e cibo”.

Molti dei locali che vivono dall’altra parte del confine parlano tedesco. Sono stati loro stessi migranti negli anni ’90, quando questa era una zona di guerra. Quando gli viene chiesto delle accuse di violenza fisica inflitta ai migranti, Stepjan alza le spalle e risponde: “Non è compito mio dire alla polizia come fare il proprio lavoro”.

“Per legge, una volta che una persona arriva in territorio croato hanno il diritto di chiedere asilo” dice Nikol, un’attivista croata che lavora con l’organizzazione No Name Kitchen da questa parte del confine. “Ma questo diritto viene negato dalla polizia croata che obbliga le persone a tornare in Bosnia”.

Seduta in un bar pieno di fumo a Zagabria, sta pianificando di tornare a Bihac non appena le regole anti-covid le permetteranno di muoversi. Bihac è una città strategica nel cantone di Una Sana, è il punto principale dove i migranti che vogliono andare verso la Croazia aspettano.

Nikol sa tutto della violenza inflitta contro i migranti e richiedenti asilo che cercano di entrare in Europa. “La polizia croata consegna le persone a uomini con uniforme e passamontagna che torturano i migranti prima di obbligarli a riattraversare il confine verso la Bosnia”.

Molti migranti e richiedenti asilo che sono riusciti ad attraversare la Croazia hanno raccontato di uomini vestiti in uniformi nere e con passamontagna, una sorta di unità con il mandato picchiare e torturare i migranti prima di rispedirli indietro in Bosnia.

Mentre rimane sconosciuta l’identità esatta di questi uomini in nero, il report del Border Violence Monitoring Network mostra come questo tipo di abbigliamento è in linea con quello delle unità di intervento della polizia del Ministero degli Interni croato.

Nikol ha una galleria di immagini che mostrano le conseguenze delle violenze. “Ci sono molte prove delle torture in Croazia e sono sorpresa che ci siano ancora giornalisti che cercano di verificare quanto accade” dice mentre fa scorrere le immagini dei pestaggi sul suo telefono.

Mentre scorre, ci fa vedere, una dopo l’altra, le immagini di ferite aperte e braccia, schiene e corpi segnati dai pestaggi, dalle bruciature e dai tagli.

Continua con una serie di immagini di giovani uomini con i volti gonfi e sanguinanti e dice: “Questi uomini sono stati stesi a terra, a faccia in giù, e poi hanno battuto sulle loro teste, rompendo i nasi, uno dopo l’altro”.

Attivisti e volontari ricevono le immagini dei pestaggi e delle torture da parte dei migranti mentre subiscono i respingimenti.

“Queste sono le stesse tecniche che la polizia croata usava per terrorizzare le minoranze serbe in Croazia dopo la guerra” aggiunge Nikol.

Trovare croati come Nikol che sono disposti ad aiutare i migranti non è facile. Mentre Stepjan dice di non essere tra quelli che chiamano la polizia quando vede persone che tentano di attraversare il confine, un poliziotto dalla stazione di confine di Čabar ha apertamente dichiarato che “è grazie alle soffiate che riceviamo dai locali che sappiamo dove e quando intervenire per arrestare i migranti”.

Come conferma anche Nikol, il livello pubblico di rabbia verso i migranti è cresciuto durante la pandemia, alimentato dalla retorica contro i migranti assieme alle fake news che accusano gli stranieri di diffondere il covid.

Molta di questa narrazione è avvenuta online, sui social media. Gruppi di estrema destra hanno elogiato la violenza contro i migranti e i richiedenti asilo tramite post come quelli qui sotto, che nonostante siano stai segnalati per il loro contenuto violento, non sono ancora stati rimossi da Facebook.

Incitamento all’odio e minacce di violenza contro i migranti e le organizzazioni che li supportano e aiutano sono stati postati su Facebook e altri social media quotidianamente. Nonostante siano stati segnalati, la maggior parte di questi post non sono ancora stati rimossi.

I racconti di Nikol sono stati confermati da Antonia, un’assistente sociale al Centro per gli studi di pace in Zagreb, che sta lavorando con attenzione ad alcune sfide legali fatte alle polizia croata.

“Continuiamo a ricevere testimonianze di persone che sono state attaccate agli alberi, terrorizzate con colpi di armi sparati vicino ai loro volti, alle quali hanno sfregato liquidi che causano pizzicore sulle ferite aperte, sulle quali hanno messo vernice spray, abusate sessualmente e picchiate con mazze e tubi di gomma su testa, braccia e gambe”.

Nel luglio di quest’estate, un reclamo anonimo di un gruppo di ufficiali di polizia croati è stato reso pubblico dal difensore civico croato. Nella lettera, gli ufficiali denunciavano alcuni dei loro superiori per essere violenti nei confronti dei migranti, suggerendo che la violenza sia di natura sistematica.

Copia del reclamo anonimo spedito al difensore civico croato dagli ufficiali di polizia che denuncia la violenza verso i migranti e i richiedenti asilo commessa da loro colleghi. Una traduzione in inglese è disponibile nei link a fine articolo

Questa era anche l’opinione dei dottori di Trieste che si offrivano volontariamente per curare le ferite delle persone che arrivavano in Italia dopo aver attraversato Croazia e Slovenia. I loro racconti confermano che la violenza di cui vedono spesso i segni sui corpi non è solo la conseguenza di azioni di dissuasione da parte della polizia ma piuttosto ha lo scopo di causare ferite permanenti che potrebbero rendere futuri viaggi impossibili da intraprendere.

Dottori, attivisti e volontari si sono mobilizzati lungo la rotta Balcanica dando assistenza medica, legale e informazioni per aiutare le persone che prendono parte al “Gioco”. Molte di queste sono solo iniziative informali, nate dalla mancanza di qualsiasi tipo di misure statali.

Né la polizia di Stato croata né quella slovena hanno risposto a questi reclami attraverso i loro uffici stampa. Il portavoce europeo per gli Affari Interni, invece, ha risposto riportando che “le autorità croate si sono impegnate a investigare le accuse di maltrattamento lungo il confine, a monitorare la situazione da vicino e a mantenere informata la Commissione sui progressi  fatti”.

L’Europa ha inviato un team di monitoraggio per incontrare il ministro degli Interni croato, ciò nonostante continua ad aggiungere soldi al Fondo interno per la sicurezza croata inviando più di 100 milioni di euro dal 2015 per gestire la migrazione attraverso un sistema di visti, polizia e sicurezza ai confini.

Fonte: Commissione UE

5. Al punto di partenza…

Persone in fila per la distribuzione del cibo fuori da uno dei campi dell’Organizzazione Mondiale per la Migrazione lungo il confine bosniaco-croato nell’inverno del 2020.

I respingimenti da Italia, Slovenia e Croazia verso la Bosnia finiscono con i migranti che fanno ritorno a strutture sovraffollate, campi, tende o case occupate illegalmente in condizioni antigieniche e inumane, spesso senza acqua corrente o elettricità.

“Queste persone hanno viaggiato per migliaia di chilometri, per mesi e ora sono alle porte dell’Unione Europea. Non vogliono tornare a casa” ha ammesso Slobodan Ujic, direttore del Servizio per gli Affari Esterni bosniaco, durante un’intervista per Balkan Insight a inizio anno.

“Non siamo inumani, ma ora abbiamo 30,000, 40,000 o 50,000 disoccupati e 10,000 migranti illegali… siamo diventati un parcheggio per i migranti che vogliono andare in Europa” ha aggiunto Ujic.

Oggi migliaia di persone in Bosnia stanno affrontando un inverno nevoso senza strutture adeguate dove rifugiarsi. Da inizio gennaio il cattivo tempo è aumentato con piogge e nevicate, rendendo la vita in tenda e negli edifici abbandonati senza riscaldamento, una nuova causa di preoccupazione a livello umanitario.

I campi dell’Organizzazione Mondiale per la Migrazione in Bosnia sono stati montati per assistere i migranti bloccati in Bosnia. Dato che la Bosnia non fa parte dell’Unione Europa, questi campi offrono solo un posto temporaneo dove stare mentre la maggior parte delle persone cerca di fare richiesta di asilo in Europa.

In Bosnia circa 7,500 migranti si sono registrati in 8 campi gestiti dall’UNHCR e dall’Organizzazione Mondiale per la Migrazione. Il numero stimato di migranti e richiedenti asilo nel Paese, però, arriva a 30,000. 3.5 milioni sono stati recentemente inviati dall’Unione Europa per gestire la crisi umanitaria, ai quali si aggiungono gli oltre 40 milioni di euro donati alla Bosnia a partire dal 2015 per costruire e mantenere i campi provvisori.

Con l’inizio della pandemia, questi centri di ricezione sono diventati più che altro centri di detenzione all’aperto con le autorità bosniache che trasferiscono forzatamente e confinano i migranti in queste strutture nonostante il sovraffollamento e le condizioni inumane.

Immagini da satellite del campo dell’Organizzazione Mondiale per la Migrazione a Lipa, 30 km a sud di Bihac.

“Sono stato preso dalla casa occupata illegalmente dove mi trovavo dalla polizia bosniaca e messo nel campo di Lipa, alcuni chilometri a sud di Bihac, per oltre un mese” racconta Saeed. “Avevamo un solo bagno per 10 persone, non avevamo elettricità e solo un pasto al giorno”.

Il 23 dicembre 2020, il campo di Lipa, casa per oltre 1,300 persone, è stato chiuso perché le ONG si rifiutavano di gestire il campo a causa delle condizioni inumane e della mancanza di acqua corrente ed elettricità. Questo arrivò in un momento in cui la chiusura dei campi era anche stata esortata dalle autorità bosniache locali del cantone di Una Sana, messe sotto pressione dalle elezioni, a chiudere le istituzioni. Mentre le persone venivano evacuate, quattro residenti, che secondo quanto riportato sarebbero stati frustrati dal fatto di venir evacuati senza avere un altro posto dove andare, hanno dato fuoco al campo.

Il campo di Lipa, dove si faceva la quarantena, costruito nel cantone di Una Sana all’inizio della pandemia da covid-19, è stato bruciato al suono il 23 dicembre, si dice, a opera di alcuni ex residenti come forma di protesta contro la chiusura del campo.

Il trauma di affrontare un lockdown forzato in quelle condizioni avrà effetti e ripercussioni permanenti sulle persone che l’hanno vissuto. “Ho ancora incubi sul quel posto e sul quel viaggio” dice Saeed, evitando il contatto visivo.

“La maggior parte delle notti sento i cani abbaiare e mi ricordo della corsa. Ma nei miei sogni sono paralizzato al suolo e non mi posso muovere”.

Quando Saeed è riuscito a scappare dal campo di Lipa nel giugno del 2020, gli ci sono volute tre settimane per tornare a Trieste, sempre camminando. “Ora passo le mie giornate qui” indicando attorno a sé Piazza Trieste, con i palmi della mani aperti.

Mentre parla, Saeed è raggiunto da due amici. Una lunga cicatrice corre attorno a una linea di pelle scoperta sulla testa di uno di loro: un bastone di un ufficiale di polizia in Croazia. L’altro si è bruciato la punta delle sue stesse mani per evitare che potessero rilevare le sue impronte digitali e rispedirlo in Grecia.

Trieste è solo una destinazione per quelli che iniziano il “Gioco” dalla Bosnia. La maggior parte delle persone poi raggiunge la sua destinazione nei Paesi dell’Europa del Nord.

L’assurdità delle politiche di migrazione europee è segnata sui loro corpi. Il trauma stampato nelle loro menti.

“Sogno di essere capace di guidare una macchina in Francia, come una persona normale, sulla strada con solo davanti a me luci verdi dei semafori e nessun ostacolo a fermarmi”

L’illustrazione fatta a mano di Saeed
Questo articolo è stato prodotto dal collettivo Brush & Bow C.I.C ed è stato sviluppato con il supporto di Journalismfund.eu.