“È il primo movimento di massa della storia che non chiede niente per sé,
vuole solo giustizia per il mondo intero”
[Susan George – Genova, luglio 2001]
Sabato 21 luglio 2001 non ero a Genova ma nel centro storico di Lucca, in corso Garibaldi, di fronte al mercatino dell’usato di Mani Tese. Era aperto da un anno e lo gestivamo come volontari. Da lì, quel pomeriggio cercavamo (con fatica) di contattare gli amici che erano partiti per partecipare alle manifestazioni indette dal Genoa Social Forum nei giorni in cui il capoluogo ligure ospitava il G8, il summit tra capi di Stato e di governo delle otto maggiori potenze globali.
Volevamo fare da ponte, immaginavamo di aiutarli a ritrovarsi dopo che il corteo era stato disperso nella violenza. Mani Tese era a Genova nello spezzone della Rete di Lilliput, una rete tra associazioni e campagne che era nata nel 1999, il cui nome si rifaceva al romanzo I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, in particolare l’avventura del protagonista tra i minuscoli (ma uniti) lillipuziani. Il movimento si riconosceva nel «Manifesto della Rete di Lilliput per un’economia di giustizia», corsivo mio, di cui si trova ancora traccia su Internet: «Diamo avvio alla Rete di Lilliput per unire in un’unica voce le nostre molteplici forme di resistenza contro scelte economiche che concentrano il potere nelle mani di pochi e che antepongono la logica del profitto e del consumismo alla salvaguardia della vita, della dignità umana, della salute e dell’ambiente». Erano i temi di cui si parlava nelle riunioni e nelle assemblea che in ogni città d’Italia e non solo anticiparono l’appuntamento di Genova.
La «sede», come chiamavamo il mercatino di Mani Tese, che all’occorrenza diventava spazio per le nostre riunioni o per incontri pubblici, era il nostro avamposto verso un mondo migliore: avevamo vent’anni, credevamo nell’importanza di promuovere una cultura della sostenibilità contro lo spreco – a partire dal riutilizzo di vestiti, mobili, libri e oggetti che recuperavamo nei pomeriggi di «raccolta» nelle case e nelle cantine di chi ci chiamava – e sostenevamo il movimento per un commercio più giusto, ospitando in uno scaffale prodotti del mercato equo e solidale. Nell’estate del 2000 avevamo fatto il primo viaggio nel Sud-est messicano, in Chiapas, per conoscere l’esperienza della comunità indigene zapatiste, quelle che appoggiavano l’esperienza dell’Esercito zapatista di liberazione nazionale (EZLN), l’esercito popolare insorto in armi il primo gennaio del 1994 per protestare contro l’invisibilità dei popoli indigeni in Messico. La data scelta non era casuale, tanto che la mandavamo a memoria: in quello stesso primo giorno di gennaio entrava in vigore il Trattato di libero commercio tra Stati Uniti, Canada e Messico, conosciuto come NAFTA, che liberalizzava gli scambi tra tre paesi che presentavano forti sperequazioni tra livelli salariali e di tutela e riconoscimento dei diritti dei lavoratori (a sfavore del Messico) e sussidi all’agricoltura industriale (negli Usa e in Canada). Il NAFTA era la realizzazione della globalizzazione delle multinazionali e gli indigeni del Messico la temevano.
Nell’estate del 1996, cinque anni prima di Genova, in Chiapas, in una comunità chiamata La Realidad, si era tenuto il primo «Encuentro Intercontinental por la Humanidad y contra el Neoliberalismo». Il messaggio era inequivocabile: da una parte ci sta l’umanità, dall’altra il neoliberismo. A quell’appuntamento parteciparono più di 5mila persone provenienti da 41 paesi. Nasceva lì, probabilmente, un movimento davvero internazionalista, quello che poi sarebbe passato per Seattle (contro l’Organizzazione mondiale del commercio, nel 1999), a Porto Alegre (per il Forum sociale mondiale del 2001) e infine a Genova, per protestare contro il G8. L’ultimo esempio di movimento globale prima delle esperienze più recenti di Fridays for Future e Black Lives Matter.
Dalla nostra esperienza dell’estate 2000 tra le comunità del Chiapas, intanto, eravamo tornati portando nello zaino un messaggio chiaro, che suonava più o meno così: «È bello che siate arrivati a conoscere la nostra esperienza, ma se volete davvero contribuire a cambiare il nostro mondo, iniziate contribuendo a cambiare il vostro». Era un invito a globalizzare le lotte, a farci carico dell’idea che la solidarietà non sarebbe stata sufficiente. Facevamo tutti parte di un movimento che fu chiamato no global ma in realtà era new global, chiedeva semplicemente un’altra globalizzazione.
Questi ricordi non sono una premessa: il mio vissuto, condiviso con molti, è uno dei tanti sentieri che hanno portato centinaia di migliaia di persone da tutto il mondo a Genova nel luglio del 2001. Abbiamo creduto fortemente che un altro mondo fosse possibile e che la volontà e gli interessi degli otto uomini più potenti della Terra (è così, non strabuzzate gli occhi, se cercate una foto ve ne accorgerete: non c’erano donne tra i leader globali) non rispondessero in alcun modo alle aspirazioni, alle necessità e alle rivendicazioni di 6 miliardi di persone, quante ne vivevano allora sul Pianeta.
Avevamo ragione. Anzi, citando il titolo del libro di Carlo Gubitosa e Mauro Biani, «abbiamo ragione da vent’anni» (People, 2021). Il giornalista Lorenzo Guadagnucci, nell’introduzione, scrive: «Oggi paghiamo tutti – anche gli avversari di allora – la mancata considerazione delle buone ragioni di un movimento che forse era in anticipo rispetto ai tempi della politica, ma non rispetto ai tempi della storia. Il crac finanziario del 2007-2008, le nuove inutili guerre, il collasso climatico e anche la crisi dei sistemi sanitari furono ampiamente annunciati nelle giornate di Genova».
Guadagnucci nel 2001 aveva quasi quarant’anni e lavorava al Quotidiano Nazionale. A Genova si trovò a dormire all’interno della Scuola Diaz e fu vittima, come tanti, della violenza che ha portato nel 2017 l’Italia alla condanna per tortura da parte della Corte Europea dei diritti umani. Alla «macelleria messicana» Guadagnucci ha dedicato un libro, «Noi della Diaz. La notte dei manganelli al G8 di Genova» (Altreconomia, 2002), uscito adesso in edizione aggiornata in formato epub e pdf. Quel che scrive nell’introduzione al libro di Gubitosa e Biani è amaramente vero: chi digita su un motore di ricerca «Genova» e «G8 2001» si troverà inondato da link che rimandano ad articoli sulle violenze di Genova, sulla devastazione, sui manifestanti neri incappucciati, sui processi, sulle mancate condanne, sulle promozioni dei poliziotti autori dei crimini più atroci.
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I temi («tavoli tematici» si chiamavano gli appuntamenti di approfondimento nei giorni del vertice promosso dal Genoa Social Forum) sono praticamente scomparsi. Eppure chi è nato proprio nel 2001, e oggi ha vent’anni, ha bisogno di sapere altro: deve capire perché eravamo in piazza. A loro si rivolge, idealmente, «2001-2021, Genova per chi non c’era», il libro curato da Angelo Miotto, a Genova da inviato di Radio Popolare, e uscito sempre per Altreconomia.
Quando Arianna Ciccone mi ha contattato per chiedermi questo pezzo, su indicazione della giornalista scientifica Elisabetta Tola (che ringrazio), conosciuta in quegli anni perché entrambi operavamo nella Commissione America Latina di Mani Tese, il primo pensiero è stato al corteo di giovedì 19 luglio: le manifestazioni di Genova si aprirono infatti con un «corteo dei migranti» e con uno striscione che invocava «libertà di movimento, libertà senza confini».
Erano altri tempi, e l’immigrazione non era ancora lo spauracchio della destra, per altro al governo: in questi giorni, pedalando per le strade di Milano in campagna elettorale per l’elezione del sindaco, ho ripensato a quella campagna elettorale del 2001, che Silvio Berlusconi – allora leader di Forza Italia – giocò sulle «tre i», cioè internet, inglese e impresa, mentre oggi il capoluogo lombardo è pieno di manifesti di Forza Italia – il cui leader è ancora Silvio Berlusconi – che promette lavoro, famiglia e sicurezza.
Se è vero che già nel 1998, con la legge Turco-Napolitano, in Italia si era iniziato a parlare di clandestini, cioè di persone entrate illegalmente nel territorio italiano, da espellere, solo l’anno dopo Genova sarebbe entrata in vigore la legge Bossi-Fini che inaspriva le condizioni di detenzione all’interno dei Centri di permanenza temporanea (CPT), poi diventati Centri di identificazione ed espulsione (CIE). «A Genova abbiamo organizzato il “corteo dei migranti” per uscire dalla logica dell’“emergenza” e aprire l’era dell’integrazione prima che la legge Bossi-Fini sacrificasse sull’altare della xenofobia trentamila vite umane inghiottite dal Mediterraneo», scrive Carlo Gubitosa.
Al netto della situazione contingente nel nostro paese, il movimento di Genova aveva compreso che la questione dei migranti sarebbe diventata epocale, probabilmente il fenomeno del XXI secolo al pari di quella dei cambiamenti climatici e della crescita delle disuguaglianze, a cui oggi sappiamo essere strettamente correlata. Le Nazioni Unite hanno definito in modo chiaro chi sono i «rifugiati climatici» (aprendo così spiragli sul loro riconoscimento internazionale) e perché ogni anno milioni di persone sono – e sempre più saranno – costretti a muoversi, ad abbandonare il paese in cui sono nati. Nel suo ultimo libro, «Torneremo a percorrere le strade del mondo» (UTET, 2021), il sociologo Stefano Allievi descrive come movimenti, mescolanze, avvicinamenti tra le persone sono la norma nella vita dell’uomo: «Da quando ha assunto la postura eretta, nulla l’ha fermato dall’errare e cercare ovunque un proprio luogo, facendo della sua storia una storia di migrazioni». Il movimento del 2001 lo aveva capito, ma è una verità che i grandi non potevano accettare né riconoscere.
Invece dell’integrazione, ciò a cui assistiamo costantemente da allora è solo una lotta estenuante per spostare all’esterno le frontiere, per provare a frenare una necessità di mobilità e movimento che è inarrestabile. Per non guardare solo all’Europa, basti pensare a ciò che accade alla frontiera tra Guatemala e Messico, diventata di fatto la frontiera meridionale degli Stati Uniti d’America, al fenomeno delle carovane migranti che dal 2018 – partendo dal disastrato Honduras – attraversano a piedi il Centro America per cercare di raggiungere gli USA.
Basterebbe tornare a Genova 2001, riavvolgere il nastro, cambiare il linguaggio e capire che quelli che chiamiamo clandestini sono persone, cittadini in cerca di un futuro migliore. Non era, non è, «buonismo» (qualcuno tra i ventenni di oggi ricorda l’uso di questo lessico?), ma il punto d’arrivo di un’analisi capace di contemplare la complessità.
Lo stesso si può dire, in relazione ai brevetti legati alle emergenza sanitarie e alle terapie salvavita, per guardare a un tema rilevante per l’opinione pubblica nell’ultimo biennio caratterizzato dalla pandemia COVID-19. A Genova, si discuteva dell’importanza di ricorrere al sistema di eccezioni sulla proprietà intellettuale dei brevetti previsto dai Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights (TRIPS, gli accordi sulla proprietà intellettuale dell’Organizzazione mondiale del commercio). «Vent’anni fa abbiamo chiesto ai capi delle nazioni più ricche e potenti del mondo un sistema sanitario pubblico orientato verso il diritto alla salute e non condizionato da logiche di profitto, un sistema brevettuale meno sbilanciato verso gli interessi delle case produttrici di farmaci e un sistema farmaceutico che garantisse la salute in tutto il mondo», scrive Gubitosa nel suo libro.
Oggi è il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America, Joe Biden che durante la campagna elettorale è arrivato ad affermare che una sospensione dei privilegi legati ai brevetti sui farmaci è «l’unica cosa umana da fare». Negli ultimi vent’anni, purtroppo, la situazione è addirittura peggiorata. Lo scrive Nicoletta Dentico nel libro edito da Altreconomia: «È cambiato che in questi vent’anni gli accordi multilaterali sulla proprietà intellettuale sono stati spesso soppiantati da una proliferazione di accordi commerciali bilaterali che rendono il vecchio accordo WTO sulla proprietà intellettuale quasi una versione “benevola”; gli accordi bilaterali commerciali hanno infatti reso più restrittive le clausole sulla brevettazione e sui diritti di proprietà intellettuale. Le norme di salvaguardia nell’accordo TRIPS, come la licenza obbligatoria o l’importazione parallela, in molti casi non sono più percorribili perché gli accordi bilaterali le hanno rese inapplicabili, hanno molto circoscritto lo spazio di manovra dei governi. Di fatto quindi noi oggi ci ritroviamo un regime di proprietà intellettuale caratterizzato per diversi governi da uno standard normativo più severo di quello che era stato negoziato dal WTO negli anni ’90».
Probabilmente, senza le istanze poste dal movimento di Genova oggi non saremmo qui a parlare di un minimum tax globale sul reddito delle multinazionali: anche se l’accordo sul 15% preso a Venezia, a luglio 2021, dai paesi del G20, è senz’altro «ribassista» e non mette in discussione in modo radicale i complessi meccanismi di architettura che permettono di eludere il fisco, senza la discussione avviata vent’anni fa oggi non saremmo a questo punto.
Nel 2001, guardando a un altro problema emerso dalla globalizzazione, cioè il volume illogico di transazioni finanziarie, speculazioni che riguardavano tutti gli aspetti della vita umana, comprese le materie prime agricole, si parlava anche di una tassa globale sulla transazioni finanziarie, la Tobin Tax, «un’imposta estremamente limitata su ogni compravendita di valute, che non avrebbe impatti sulle normali operazioni di import-export, ma che diventerebbe via via più pesante per chi realizza molte transazioni in tempi brevi per guadagnare su piccole oscillazioni dei prezzi», come scrive sul numero 47 (luglio-agosto 2021) del Granello di Sabbia, periodico di ATTAC, Andrea Baranes, oggi presidente della Fondazione Finanza Etica e membro del Consiglio di Amministrazione di Banca Etica. Il controllo dei movimenti di capitali era uno dei temi chiave per il movimento alla fine degli anni Novanta: se ci avessero ascoltato, questo avrebbe potuto proteggere l’umanità dalla grande bolla dei mutui subprime, quella che ha caratterizzato il decennio 2000-2010 influenzando di fatto la nostra vita fino all’arrivo della nuova emergenza legata alla COVID-19.
Genova, insomma, ha gettato tanti semi, come ricorda il bel progetto del Festival dei Diritti Umani – insieme a Goodidea Style, Radio Popolare e Fondazione Roberto Franceschi Onlus – dedicato a raccontare un altro mondo ancora possibile e chiamato, appunto, «Semi di Genova». La narrazione per immagini e voci muove da 9 parole chiave. È Danilo De Biasio, direttore del Festival dei Diritti Umani, a raccontarcene alcune: «Le violenze che hanno insanguinato Genova hanno oscurato la forza innovativa rappresentata da migliaia di persone che avevano ragionato e discusso in quei giorni sulle grandi disuguaglianze indotte dal neoliberismo. Riscoprire quel pensiero critico, valutarne la capacità premonitrice è il miglior modo per celebrare il ventennale del G8. Non tutte quelle analisi hanno retto alla prova dei fatti, alcune pratiche si sono interrotte, ma solo chi è in malafede può negare che in questi vent’anni le disuguaglianze “si siano allargate e rese più dense” (Andrea Morniroli), che siano frutto di “politiche fiscali che premiano i ricchi” (Sabina Siniscalchi); o che ci sia stata “una fusione tra l’apparato militare e quello poliziesco” (Salvatore Palidda); che il femminismo “non si fermi più al dato biologico ma prenda in considerazione il patriarcato, l’omotransfobia, il razzismo” (Jennifer Guerra)». Sotto le macerie di Genova sono rimasti i semi che non hanno mai smesso di germogliare, come prova a testimoniare anche questo articolo.
A proposito di semi, a Genova si parlava anche di agricoltura. Questi i termini (da una lettera della organizzazione non governativa Crocevia, impegnata in battaglie per la sovranità alimentare): «Vogliamo un’agricoltura contadina, perché questa ha una dimensione sociale basata sul lavoro, sulla solidarietà tra produttori e consumatori ma anche tra regioni e contadini del mondo, altrimenti le regioni più ricche e gli agricoltori più forti lederanno il diritto alla vita degli altri, e questa logica non ha futuro. Per nessuno».
Vent’anni dopo, potremmo riscriverla senza cambiare una virgola, anche se qualche passo in avanti è stato fatto: alla Camera è stata approvata nel 2021 una Legge che definisce e promuove l’agricoltura contadina, che è quella fatta dalle aziende agricole condotte direttamente dal titolare, dai familiari o dai soci di una cooperativa costituita esclusivamente da soci lavoratori, che praticano modelli produttivi agroecologici, favorendo la biodiversità animale e vegetale, la diversificazione culturale e la conservazione del territorio nei suoi aspetti ambientali e paesaggistici fondamentali. Le aziende agricole contadine trasformano le materie prime prodotte nell’azienda, avvalendosi di metodologie tradizionali locali e producono quantità limitate di beni agricoli e alimentari destinati al consumo immediato e finalizzati alla vendita diretta ai consumatori finali, svolta in ambito locale. Ora andrà al Senato. Sappiamo anche meglio come funzionano le dinamiche all’interno della grande distribuzione organizzata (GDO), grazie al lavoro encomiabile dell’associazione Terra! che dopo averci fatto spalancare gli occhi sul fenomeno occulto delle aste al doppio ribasso per l’approvvigionamento dei beni venduti nei supermercati quest’anno nell’ultimo rapporto dedicato alla filiere agricole ha affrontato il tema dei regolamenti comunitari che obbligano a vendere solo frutta e verdura esteticamente «belli».
È un’eredità di Genova 2001, senz’altro, anche questa capacità di analizzare e raccontare la complessità e di agire sui fenomeni complessi perché solo così – senza semplificare – si possono davvero cambiare le cose. In questo contesto, sono quasi surreali le parole dell’economista italiano Carlo Cottarelli: nel 2001 lavorava al Fondo Monetario Internazionale e nel luglio del 2021, intervistato dall’Huffington Post, ha detto: «Quei movimenti guardavano in avanti e chi allora guidava l’economia e la finanza internazionale si rendeva solo in parte conto dell’entità dei fenomeni che stavano accadendo». Il Fondo per cui lavorava Cottarelli era allora uno dei ‘nemici’ per definizione di chi protestava con il neoliberismo sfrenato e contro le politiche economiche fondate sul debito e su un’iniqua distribuzione della ricchezza mondiale. Il Fondo Monetario Internazionale era responsabile dei Piani di aggiustamento strutturale che avevano impoverito i paesi in via di sviluppo, cancellando ogni possibilità di costruzione di uno stato sociale.
S., una mia amica che era a Genova, con cui ho condiviso il link dell’intervista a Cottarelli, mi ha risposto così: «Fanculo a tutti quelli che si permettono di dire 20 anni fa avevano ragione e 20 anni fa erano dall’altra parte a giudicare, ad additare, a prendere le distanze, ad infangare… Fanculo».
Credo abbia profondamente ragione. Se ripenso a quel movimento del 2001 e torno alla mia esperienza personale maturata in quegli anni in Chiapas e in Honduras, sono convinto che quel movimento debba tantissimo ai popoli e ai movimenti indigeni. Vent’anni dopo, purtroppo, la «questione indigena» oggi è rimossa, dopo il grande protagonismo – in particolare in America Latina – nella prima decade del Duemila. Il legame diretto con la Madre Terra e una visione sistemica che vede l’essere umano in relazione diretta con gli altri elementi naturali, quelli che nel mondo occidentale definiamo «beni comuni», alimenta una straordinaria capacità di analisi. Avevano già capito anche che per frenare gli effetti disastrosi dei cambiamenti climatici avremmo dovuto limitare l’impatto antropico, ma nessuno ci ha ascoltati.
Ripenso all’esempio di Berta Caceres, leader indigena lenca in Honduras, fondatrice del COPINH. È stata uccisa cinque anni fa, nella notte tra il 2 e il 3 marzo 2016. Solo quest’anno, a inizio luglio, è arrivata la condanna del presidente della società idroelettrica incaricata di realizzare una diga sul fiume Gualcarque, corso d’acqua sacro per gli indigeni lenca. È stato considerato co-autore del delitto. Quando conobbi Berta, nei primi anni Duemila, quindi a cavallo di Genova, il suo COPINH con altre due organizzazioni in Guatemala e in Messico stava «montando» una campagna popolare contro le «IFIS», le istituzioni finanziarie internazionali, cioè le banche multilaterali che prestavano risorse per macro e micro-progetti, spesso legati allo sviluppo di energia da fonti rinnovabili ma che non tenevano assolutamente in considerazione gli effetti di quegli interventi sui popoli originari, sugli indigeni. Lei sapeva leggere la connessione estrema tra questi aspetti.
Un anno prima di essere ammazzata, a San Francisco in California aveva ricevuto il premio Goldman, Nobel alternativo per l’ambiente. Quel giorno pronunciò un discorso di tre minuti che ancora oggi mi scuote quando l’ascolto: «Svegliamoci! Svegliati umanità! Non c’è più tempo. Le nostre coscienze saranno scosse dal fatto che stiamo solo contemplando l’autodistruzione basata sulla predazione capitalista, razzista e patriarcale. Il fiume Gualcarque ci ha chiamato, così come gli altri che sono seriamente minacciati. Dobbiamo andare. La Madre Terra militarizzata, recintata, avvelenata, dove i diritti elementari sono sistematicamente violati, ci chiede di agire. Costruiamo società in grado di coesistere in modo giusto, dignitoso e per la vita». Un altro mondo (è) possibile.