Milano, autunno 2021

di

2 Dicembre 2021

Un libro racconta dieci anni d’informazione indipendente a Milano

Nell’ottobre 2011 nasce il sito d’informazione indipendente MilanoInMovimento. Nell’ottobre di quest’anno, per festeggiare i dieci anni di attività, la redazione ha deciso di dare alle stampe MiM21, dieci anni d’informazione dalla parte giusta della barricata (Prospero editore).

Un ampio capitolo del libro è dedicato all’analisi dei mutamenti che hanno investito la nostra metropoli (e i suoi movimenti sociali) nell’ultimo decennio. MiM nasce, infatti, in concomitanza con l’avvio di quello che potrebbe essere definito un “ciclo politico”, quello del centrosinistra al governo di Milano: nella primavera 2011 Giuliano Pisapia interrompe un ventennio di dominio della destra.

In questi dieci anni la città ha subito mutamenti radicali, e il giro di boa può essere individuato nell’Expo del 2015, un vero e proprio “turning point” non soltanto simbolico.

Uno spartiacque che ha dato fiato alle ambizioni politiche di Beppe Sala, discusso ex manager dell’Esposizione divenuto Sindaco appena un anno dopo e da poco rieletto per un secondo mandato, imponendo al contempo il cosiddetto “Modello Milano”.

Un modello, l’abbiamo scritto più volte, tronfio e autocompiaciuto, percepito in modo molto differente a seconda che si viva dentro o fuori dalla cerchia della circonvallazione, costruito sui grandi eventi e sulle “week” alla moda. Non è un caso che si sia passati, senza soluzione di continuità, da Expo 2015 alle Olimpiadi invernali del 2026 attraverso la successione ininterrotta e brandizzata di “settimane del”.

Sciopero Sociale - 14 novembre 2014 - Foto Barabra Raimondi

La nostra è diventata una Milano dove il processo di gentrificazione avanza a vele spiegate come in un gigantesco effetto domino. E dove sembra che non ci sia possibilità di trovare una soluzione intermedia tra l’abbandono al degrado più totale e la speculazione immobiliare rampante.

In questo contesto si inserisce, per esempio, il progetto del nuovo stadio nel quartiere San Siro, fortemente voluto dalle due indebitatissime società calcistiche milanesi e che porterà all’ennesimo consumo di suolo, a nuove colate di cemento nonostante la sbandierata “svolta verde” del Sindaco.

Un modello, quello milanese, che è sembrato scricchiolare nei primi mesi della pandemia nella primavera 2020, quando la città spettrale è stata attraversata dalle Brigate Volontarie per l’Emergenza, ma che ha rapidamente ripreso a correre, apparentemente incurante dell’epidemia ancora in corso, con i prezzi degli immobili in costante crescita.

Peccato che ci sia, però, una “dark side of the Moon” in tutto questo luccicare di eventi e vetrine, dai costi sociali elevatissimi: l’edilizia popolare ridotta ai minimi termini; gli affitti (spesso gestiti in nero) con prezzi vergognosi e un intervento pubblico per calmierarli inesistente; decine di migliaia di precari e working poor sfruttati e sottopagati sul cui lavoro Milano basa il suo successo; l’aumento costante dei poveri testimoniato dalle code sempre più lunghe al Pane Quotidiano o all’Opera San Francesco (così come dai dati dell’Istat relativi al 2020), la cui “gestione” è quasi completamente appaltata al terzo settore e al privato sociale.

Lavori sulla facciata del Lambretta di via Cornalia - Autunno 2014 - Foto Andrea Parapini

Di fronte a queste impetuose trasformazioni, i movimenti sociali cittadini stanno attraversando una fase di mutamento e ridefinizione. 

Se da un lato la militanza classica sembra essere definitivamente andata in crisi, nuovi temi e nuove battaglie riempiono le strade della metropoli, con alla testa Non Una Di Meno o Fridays For Future, e con aspetti di  fluidità cui non eravamo abituati.

Dal canto suo, il mondo dell’autogestione sembra in questo momento sospeso tra due alternative altrettanto rischiose: una legittimazione istituzionale che, come spesso succede nella nostra metropoli, rischia di sussumere e inglobare le istanze depurandole dall’aspetto conflittuale e una radicalità minoritaria da ghetto o da Fort Apache assediato.

E mentre ci si interroga sui cosa e i come, dalle periferie arrivano segnali espressi con linguaggi nuovi e in buona parte a noi sconosciuti. Urge dotarsi di un vocabolario nuovo, per studiare, capire, agire.

La redazione di Milano in Movimento

Spazi sociali contro Expo - Piazza XXIV Maggio - Foto Archivio ZAM

Estratto da MiM21, dieci anni d’informazione dalla parte giusta della barricata (pag. 82).

Il (presunto) modello Milano è già finito

di Roberto Maggioni

Ci sono stati giorni, a Milano, in cui si è rimasti in fila otto ore per entrare al padiglione del Giappone, una sorta di tempio mitologico del non-si-è-mai-capito-bene-cosa dentro la mega giostra di Expo 2015. “Una festa con sette miliardi di invitati” recitava uno dei cartelli promozionali nei mesi precedenti l’inaugurazione. “Sarà un evento mondiale e irripetibile”.

Quanto correva Milano in quei giorni. The place to be suggeriva il “New York Times”, alimentando lo storytelling della città “in cui tutti vorrebbero vivere”.

La città grigia, della nebbia, della violenza di strada, di Tangentopoli, dei bauscia era definitivamente consegnata al Novecento. Dalla Milano da bere alla città-evento alcuni tratti non cambiano: anche la Milano di Expo non si fermava mai, un città sempre in corsa e  capace di curarsi da sola con la sola imposizione della nota mano invisibile del mercato. Uno spazio urbano da cui estrarre profitto al metro quadro, ma con il cuore in mano, sempre, perché guai a toccare la carità ambrosiana tanto cara ai milanesi. Anche quella, però, sembrava un po’ meno necessaria nella città senza problemi.

Ma la città che si cura da sola non esiste, esistono le persone che si prendono cura l’una dell’altra, esistono le comunità, i territori.

Il teorico della sociologia urbana eretica Henri Lefebvre lo chiamava diritto alla città. Al diritto alla città si appellava anche la variopinta comunità NoExpo che negli anni precedenti all’Esposizione universale aveva scandagliato a fondo ogni angolo della metropoli che si stava gettando nelle mani del grande evento, elaborando una controstoria piuttosto efficace e veritiera della condizione di salute di questa Milano.

Un lavoro politico esploso il Primo maggio 2015. Il fuoco della NoExpo Mayday e l’acqua delle spugnette arrivata il giorno dopo per spegnere definitivamente quel fuoco sono state lo spartiacque degli attivisti di quegli anni. I sei mesi successivi, la fila di otto ore al padiglione del Giappone, ha poi reso evidente che l’opposizione a Expo aveva sottovalutato, o non compreso del tutto, l’energia che sprigiona un “evento pop”.

The Ned - Tre giorni di occupazione contro Expo - Mayday 2014 - Foto Barbara Raimondi

Dalla bolla di Milano alla Milano ciambella

A cavallo di Expo Milano si è gonfiata. È aumentato il numero degli abitanti (i residenti sono passati da 1.324.169 a fine 2013 ai 1.406.242 di fine 2019, e a loro vanno sommati i domiciliati, i fuori sede, i migranti senza permesso di soggiorno), dei city users e soprattutto dei turisti. Milano è diventata una città turistica, forte di una narrazione benevola e di una brandizzazione forgiata nell’esperimento Expo.

L’amministratore del grande evento Beppe Sala si è fatto politico, e la sua giunta dal 2016 ha lavorato per una città a misura di turista.

Nei decenni precedenti il turismo milanese è sempre stato senza infamia e senza lode, mediocre nei numeri e nelle opportunità. La Mayday e San Precario avevano fatto girare il nome di Milano in mezzo mondo, Expo ha sepolto anche quell’immaginario per fare spazio alla città globale connessa con le altre capitali mondiali. Non paragonabile a Venezia, Firenze o Barcellona, anche il turismo 2015-19 ha avuto un forte impatto sulla città; un turismo che ha contribuito a gonfiare il prezzo delle case, spinto dagli affitti brevi delle piattaforme come Airbnb e dai progetti urbanistici della città. Milano ha accolto a braccia aperte il capitalismo magico delle piattaforme e della gig economy.

Così, vivere a Milano è diventato sempre più caro, la casa di proprietà è diventata sempre più strumento di diseguaglianza, i piccoli proprietari sono diventati più voraci dei palazzinari, interi settori di città si sono gentrificati spontaneamente.

Quanto mancava all’esplosione della bolla di Milano? Non lo sappiamo, anche se guardando al solco tra quartieri popolari e resto della città e alla nascita dei quartieri brand come NoLo, le crepe erano già evidenti. Nulla di particolarmente nuovo, le città liberiste sono esattamente questo, città escludenti. Il Coronavirus ha bucato la bolla prima del tempo.

Oggi la Milano pandemica, o post pandemica come tutti ci auguriamo, si ritrova svuotata al centro e piena attorno. La città ha smesso di essere l’eventificio in cui si era trasformata: celebre resterà il flyer di “Yes Milano” 2020 commissionato dal Comune e che raccoglieva tutte le week dell’anno: gennaio/febbraio Fashion week; marzo Digital week; aprile Art week e Design week; maggio Food city e Arch week; giugno Photo week e di nuovo Fashion week; settembre Green week e Movie week; ottobre Montagna week e Design city; novembre Book city e Music week.

Torneranno gli eventi, ma i milanesi hanno ricominciato a vivere i quartieri e la città di prossimità sarà la città del prossimo decennio.

Durante la pandemia le periferie hanno tenuto viva e in vita la città, l’antagonismo dei movimenti si è trasformato in mutualismo, cura, solidarietà con il lavoro delle Brigate volontarie per l’emergenza. Alle ragazze di porta Venezia agitate da Myss Keta si sono aggiunte quelle di Calvairate cantate da Comagatte. Mentre la circonvallazione interna dei Bastioni si ciclopedonalizza, la città nuova prende forma oltre la cerchia della 90/91.

Un’amministrazione lungimirante investirebbe nella vivibilità dei quartieri, nella scolarità per tutti, nella cultura e nella creatività nelle periferie. Non opprimendo gli spazi ribelli e di libertà che sfuggono alla cultura istituzionale.

La città delle zone disegnate a spicchio è definitivamente sepolta, i collegamenti del trasporto pubblico dovranno rimodularsi sulle direttrici circolari, non più centro-periferia, per muoversi nella ciambella Milano. Il fatto in tal senso più rilevante dell’anno pandemico sono stati i riot di corso Buenos Aires di fine ottobre. Se nel resto d’Italia in quegli stessi giorni protestavano gli adulti colpiti dalla crisi, per una sera nelle strade di Milano a squarciare il silenzio del coprifuoco ci sono andati i figli di quella stessa crisi.

Una manifestazione un po’ trap e un po’ ultras, che i commentatori social di sinistra hanno perlopiù liquidato con vecchi schemi destra-sinistra. “Sono fascisti, sono irresponsabili”. Così come irresponsabili e teppisti sono stati bollati i rapper di San Siro che un pomeriggio di aprile 2021 hanno resistito alla Polizia nel loro quartiere, scoprendo poi che l’immaginario della periferia cantato da quei ragazzi era ed è nelle orecchie dei figli della borghesia (di sinistra) milanese.

Quanta distanza tra le otto ore di coda fuori dal padiglione del Giappone e il silenzio della Milano pandemica squarciato dalle piazze trap. Stare nei quartieri, agganciare amicizie, renderle politiche, lasciare che sprigionino creatività, non ingabbiarle nei vecchi schemi (della sinistra): lo spartiacque oggi è questo, un modo di praticare il diritto alla città urbano, meticcio, solidale.

Milano non si vende - 19 settembre 2020 - Foto Matteo Colò