Convinti, quando le cose vanno bene e quando le cose vanno male, che ciascuno deve fare il suo lavoro, ci troviamo come redazione di fronte a un evento globale, che concorre a mettere a nudo quelle paure che saranno l’argomento del terzo numero del nostro semestrale cartaceo.
Partendo dal testo di Angelo Miotto, abbiamo deciso – nostra vecchia passione – di lanciare un Decameron online, nella vecchia tradizione, di fronte alle paure, di riunirsi attorno al fuoco (della passione narrativa) e di raccontarsi storie.
Mandateci il vostro racconto di questi giorni di Corona virus, tra allarmismi, improvvisati esperti, legittime paure e doverose cautele. Va bene, al solito, qualsiasi linguaggio: audio, testo, video, foto. Inedito o citando altri. Scrivete a redazione@qcodemag.it e noi vi pubblicheremo.
Il contagio delle storie – 21
Nei panni degli altri – Gabriella Grasso
Seduta sul davanzale della finestra a prendere qualche raggio di sole, respiro profondamente e cerco di placare il batticuore.
Sono fortunata: negli anni ho imparato a tenere abbastanza sotto controllo l’ansia e il peggio che mi succede, oggi, se non concedo al corpo di muoversi quanto mi chiede (cioè tanto) per scaricare la tensione – quella esistenziale, non da coronavirus – è l’accelerazione del battito cardiaco, dolori muscolari, mal di stomaco, intorpidimento mentale.
Eppure sono fortunata, dicevo. Perché nonostante la clausura da coronavirus stia mettendo a durissima prova il mio equilibrio psicofisico, tra qualche camminata intorno al palazzo la mattina presto, la ginnastica casalinga, i su e giù per le scale quando vado a gettare la spazzatura, la meditazione e le videochat con gli amici, tutto sommato per ora riesco a vivere abbastanza bene, a lavorare, a dormire (seppure con un sonno più disturbato del solito), a intrattenere mia madre – sigillata in casa con mio padre, lei abituata a passare le mattinate fuori – con un paio di telefonate al giorno, fatte soprattutto con l’obiettivo di intercettare nella voce preoccupanti tracce di stress.
Dicevo che sono fortunata, perché ad altri va molto peggio.
Per giorni, prima che il governo inasprisse ulteriormente le misure, quando ancora era consentito svolgere attività fisica in solitaria e fare una passeggiata, i social network (e anche qualche giornale) straripavano di invettive contro chi usciva di casa.
Non parlo degli appelli delle autorità, dei sindaci, delle personalità pubbliche che erano e sono sacrosanti, perché – nonostante mi sembra che ci sia in giro (quantomeno nella mia zona di Milano) un grande senso di responsabilità – nella massa, o meglio nel “gregge”, come ci definiscono gli scienziati di questi tempi, ci può sempre essere qualcuno dotato meno di altri di senso civico o anche di banale intelligenza, che dichiara: “Sono tutte stronzate”, “Ma a me che me frega?”, “Tanto io non mi ammalo” e altre fantasiose idiozie.
Dunque, bene i controlli della polizia, bene gli avvisi continui a restare a casa: il sindaco di Delia, un paesino in provincia di Caltanissetta, ha dovuto denunciare pubblicamente i suoi concittadini per evitare che continuassero a organizzare barbecue in campagna e ad assembrarsi in casa in grandi numeri per scrivere sugli striscioni il mantra nazionale “Andrà tutto bene”.
Ma sui social network come Facebook, che è la nostra virtuale piazza grande, le accuse scomposte a chi usciva di casa in solitaria, le cacce al runner, addirittura le minacce di delazione, mi hanno lasciato attonita. E mi hanno fatto sinceramente pensare che questa supposta “solidarietà” e questo supposto “senso di comunità” che il terribile virus dovrebbe farci ritrovare, esistono solo nella mente degli ingenui.
Per essere solidali (dalla Treccani, alla voce Solidarietà: «Su un piano etico e sociale, rapporto di fratellanza e di reciproco sostegno che collega i singoli componenti di una collettività nel sentimento appunto di questa loro appartenenza a una società medesima e nella coscienza dei comuni interessi e delle comuni finalità») occorre mettersi nei panni degli altri.
Anche quelli scomodi. Anche quelli che, per indossarli, bisogna davvero uscire da se stessi. Operazione solitamente impedita dalla frenesia quotidiana, ma che oggi dovrebbe essere resa più semplice dal rallentare del tempo.
Credo che per compierla si possa iniziare con qualche semplice domanda.
Una potrebbe essere questa, per esempio.
Sappiamo cosa significa avere un attacco di panico? Ce l’hanno mai raccontato? A me sì, conosco diverse persone che ne soffrono: il senso di soffocamento, la convinzione che il cuore si stia fermando, l’intero sistema psicofisico che va in tilt. E, dopo, un senso di spossatezza, come se si fosse stati l’epicentro di un sisma. Chi soffre di attacchi di panico potrebbe aver bisogno di lasciare le mura di casa per qualche minuto al giorno: non per capriccio, ma per sopravvivenza.
Ancora: abbiamo mai sentito dire che l’attività fisica serve a sublimare l’aggressività? Se sì, sappiamo cosa significa? Io ci ho pensato, in questi giorni. Non ho grande simpatia per quegli omaccioni che passano ore in palestra a sollevare pesi grugnendo per la fatica. Anzi, quando si allenano nei miei paraggi li trovo parecchio fastidiosi. Ma oggi mi chiedo: e se anche solo uno di loro usasse inconsapevolmente il sollevamento di quei 20, 30, 40 chili per “bruciare” l’aggressività? E se vivesse con moglie e figli in 45 metri quadri e al quinto giorno di clausura senza possibilità di uscire a farsi una corsa si sentisse impazzire perché il bambino non smette di piangere, e lui non riuscisse a controllarsi, questa prospettiva mi piacerebbe? No. (Non credo sia necessario ricordare che metà degli omicidi nel nostro Paese avvengono dentro casa e che nel’88 % dei casi a commetterli è un uomo).
Dato che le variabili sono infinite e non è necessario essere esaustivi per arrivare al punto, accenno solo un’ultima domanda.
Sappiamo cosa significa avere 85 anni ed essere completamente soli in una grande città, magari con i farmaci per la depressione sul comodino, perché la voglia di vivere ci ha abbandonato da un pezzo? Forse, all’anziano signore che un paio di volte la settimana prende il suo bastone, si mette la mascherina ed esce a fare una lenta passeggiata intorno all’isolato, quell’azione serve per ricacciare in un antro buio un pensiero suicida. Non mi sembra poco.
Darei che assodato per questioni di mera statistica che non tutti possiamo sapere esattamente cosa significhi vivere in spazi molto ristretti, avere in casa uno o più bambini che esplodono di energia, accudire un genitore malato di Alzheimer o di demenza, vivere gli sconquassi ormonali della menopausa, essere in cura da anni con psicofarmaci e così via dicendo.
I disturbi psicologici sono diffusissimi nel nostro Paese. E nonostante a uscire dal cono d’ombra siano solo i casi diagnosticati ufficialmente, si parla di 17 milioni di persone che soffrono di disagio psicologico (disturbi stress-correlati, ansia, depressione e altri problemi di salute mentale) secondo la Società Italiana di Psichiatria.
Non c’è da discutere se questa del coronavirus sia o meno un’emergenza serissima: ormai è chiaro a tutti. E nemmeno la mia riflessione vuole suggerire una disobbedienza alle sacrosante regole che ci impongono la clausura.
Ma sarebbe bello che nel nome di questa “solidarietà” di cui ci riempiamo retoricamente la bocca in questi giorni, quando sulla via per il supermercato incontriamo una persona che cammina (o corre) da sola, al posto di insultarla provassimo a domandarci: “Come starà questa persona? Quanto sarà stato grande, oggi, il suo bisogno di uscire di casa per sfidare il rischio di contagiarsi, contagiare ed essere multato?”.
Nel suo intervento di qualche anno fa al Festival di Internazionale a Ferrara, l’attivista americana Angela Davis fece un’esortazione che mi parve rivoluzionaria: «Dovremmo iniziare a occuparci in maniera collettiva della cura di sé, dedicando attenzione ai traumi che ognuno di noi si porta dietro».
Quanto è avvenuto nelle ultime settimane e in parte sta avvenendo tuttora (l’insofferenza nei confronti di chi mette in naso fuori di casa, la sicumera con cui si giudica il prossimo: “Sono sacrifici per tutti!”) mi conferma che siamo lontani dal prendere sul serio la “cura di sé” e in considerazione i disagi che ognuno di noi – e alcuni più di altri – si porta dentro l’anima.
Ma se non ci proviamo, e non lo facciamo proprio in questi tempi bui, quando tutto sarà finito e il virus sarà debellato ci ritroveremo certamente vivi, sì.
Ma saremo morti dentro.