2 Maggio 2019
Nel suo ultimo romanzo pubblicato in italiano da Bompiani, Khaled Khalifa torna ad accompagnarci, mano nella mano, nella realtà dell’oscurità siriana, nella quotidianità della guerra che non fa sconti a nessuno, neppure ai cadaveri.
Nella Siria nel pieno della guerra, morire è cosa quotidiana. Si può morire di stenti sotto assedio, o colpiti da un bombardamento, o in fila ad un checkpoint sulla strada per l’ospedale. Si può morire giustiziati da questo o quell’altro gruppo, per aver tentato la fuga, o morire di dolore al pensiero che la tua famiglia non esista più.
Si può anche, incredibilmente, morire di vecchiaia, di cause naturali. E’ questo che accade ad Abdel Latif in un letto di ospedale, in una sera damascena. Ma non fa in tempo a spirare che urge liberare il suo letto prima, e l’obitorio poi, per far posto alle decine di persone – cadaveri – che continuano ad arrivare dal fronte.
Nabil, detto Bulbul – il figlio che assiste agli ultimi momenti del padre, e al quale il padre affida la sua ultima volontà di essere seppellito nel suo paese natale, accanto alla sorella – non ha altra scelta che iniziare il viaggio per riportare le spoglie del padre nel nord della Siria, nel lontano villaggio di Anabiya.
Disarmato e impreparato a portare avanti tale improvvisata avventura, e sapendo che viaggiare da soli in un paese in fiamme sarebbe un’impresa a dir poco suicida, chiama con sé il fratello Husseyn, con cui non parla da anni, con un recente passato da tassista e proprietario di un minivan perfetto per trasportare un simile carico speciale, e infine anche la loro inquieta ma devota sorella Fatima.
Se viaggio di famiglia deve essere, che lo sia fino in fondo. Bulbul in fondo ha già dovuto assistere alla morte del padre, che tocchi anche un po’ ai suoi fratelli spartire il fardello.
Ma nella Siria nel pieno della guerra, un semplice viaggio in macchina per compiere duecento chilometri può diventare un’esperienza totalmente imprevedibile, pericolosa ed affidata al caso o, peggio, all’arbitrarietà dei combattenti di turno, qualunque sia il loro colore. Nella Siria nel pieno della guerra, infatti, i cattivi sono tanti.
Nel suo ultimo romanzo pubblicato in italiano da Bompiani, Morire è un paese difficile, lo scrittore ed intellettuale siriano Khaled Khalifa torna ad accompagnarci, mano nella mano, nella realtà dell’oscurità siriana, questa volta nella quotidianità della guerra che non fa sconti a nessuno, neppure ai cadaveri.
Ogni chilometro, ogni posto di blocco, ogni notte nella quale i fratelli non raggiungeranno il villaggio di Anabiya, è una domanda aperta sul senso dell’esistenza e della sopravvivenza, sulla morale di chi si trova ad aggrapparsi alla vita per non finire sbranato dai cani, o dimenticato in qualche prigione, o, peggio, morto di fame. Infatti, nella Siria nel pieno della guerra, se morire è un mestiere difficile, rimanere vivi lo è ancora di più.
Momenti di solidarietà e diffidenza si alternano e convivono, non solo tra i fratelli e i differenti avventori, vecchi amici e amori mai sopiti, compagni di cella, soldati, residenti di villaggi fantasma, ma tra i fratelli stessi.
Il lungo viaggio verso la regione di Aleppo, un tempo percorribile in poche ore e ora un vero e proprio viaggio della speranza, mette a dura prova i nervi di tutti. Sono i momenti delle rese dei conti, delle lunghe riflessioni introspettive in cui ogni personaggio si scava dentro alla ricerca dei propri fantasmi e dei propri rimpianti – nella ricca e avvolgente prosa che abbiamo imparato a conoscere ed amare di Khalifa – per trovare poi conforto nella propria mediocrità.
Alla fine, chi è più eroe? Chi ha diniegato le proprie origini, per dimenticare un peccato originale, finendo ad amare la rivoluzione più della propria famiglia? Chi, tra sopravvivere nella mediocrità o rivoluzionare la propria esistenza, ha scelto la prima? Chi ha seppellito i propri figli ed attende solo di morire? Chi ha rinunciato all’amore per paura, rinchiudendosi nel proprio cono d’ombra, che ora questa morte improvvisa e scomoda sembra scuotere?
Il viaggio è l’occasione per squarciare i veli e mettersi a nudo, mentre si tenta di coprire con profumi e finestrini aperti l’odore e l’aspetto di un cadavere che si mostra sempre di più per quello che è.
Gli eroi son tutti giovani e belli finché non sono morti, e puzzano. E anche quando puzzano, l’assurdità delle dinamiche di guerra sopravvengono alla logica dell’evidenza.
“A decidere la morte e la vita è sempre un documento”, viene detto a Bulbul all’ennesimo checkpoint, mentre cerca di dimostrare che il morto è veramente morto.
Percorrere la Siria sotto le bombe permette di rendersi finalmente conto dell’assurdo abbrutimento che li circonda. Ai checkpoint ci si guarda in cagnesco, ma tutti hanno il loro prezzo, anche l’ideologia più sfrenata, quella fatta di bandiere e ritratti del Presidente, e quell’altra fatta di barbe nere e armi costose.
Eppure, mentre i tre viaggiano con il carico più faticoso e difficile mai visto, chiedendosi ad ogni posto di blocco se debbano mettersi nella fila delle persone o in quella delle merci, ci si rende conto che nella tempesta della disperazione umana, saranno salvati dai piccoli gesti di persone che nell’oscurità resistono a modo loro, aprendo le case, distribuendo cuscini, lasciandosi andare alle memorie, dando consigli per superare il checkpoint successivo. Pillole di zucchero nel veleno, che salvano la Siria dalla sua distruzione, ma ne alleviano il dolore.
Nel terzo romanzo pubblicato in Italia, Khaled ci porta finalmente e senza sconti nella Siria contemporanea, scavando a fondo nelle debolezze, memorie e psicologie di ogni individuo, lettore compreso.
Ed è un attimo, ad immaginarsi in fila ad un checkpoint senza sapere se e come se ne uscirà, ad avere paura della propria ombra, di avere il cognome sbagliato nel posto sbagliato.
Ma quando ormai si sono percorsi tutti i gironi dell’inferno, assistendo impotenti all’abbrutimento dell’umanità, allora nulla conta, neppure come si muore.
Mentre si giunge alla fine di uno straziante e stremante viaggio temporale e spaziale, chi legge capisce che non importa come finirà. Quello che conta è salvarsi, aggrappandosi a se stessi, difendendo con i denti la propria zona di conforto, la propria conchiglia, quello spazio interiore anestetizzato in cui non si ha paura, non si piange un dolore, non si giudica gli altri, ma solo e soltanto se stessi.
Questo articolo rappresenta il punto di vista dell’autrice, espresso a titolo personale