12 Dicembre 2018
Corridoi umanitari, la risposta alle stragi in mare e alla tratta di esseri umani, a cura di Maria Grazia Patania
*foto di Francesco Malavolta
Ho pregato dio di farmi morire mentre mi torturavano. Mi hanno riportato tre volte in Libia. Hanno sparato senza motivo al ragazzo seduto davanti a me in prigione. Ci ammazzavano e ridevano. Eravamo polli da scannare”, Laurence ha la voce ferma mentre racconta cosa significhi essere salvati dalla cosiddetta Guardia Costiera Libica. “Sono partito a 16 anni perché non avevo chance nel mio Paese, la Guinea (Conakry), e io vorrei diventare calciatore un giorno. Mi hanno rapito in Algeria e poi sono stato venduto a vari trafficanti. La mia famiglia ha venduto tutto per liberarmi. La parola che mi sta più a cuore è libertà”. Laurence era fra i quasi 16.000 minori non accompagnati giunti in Italia nel 2017 e abbandonati al proprio destino. Nel 2018, fino al 2 dicembre, ne sono arrivati meno di 3500, numero che fa sorgere moltissimi interrogativi sul destino di chi non è mai sbarcato in un porto sicuro.
Quando si parla dell’attuale crisi migratoria non si può fare a meno di ricordarne l’impatto psicologico sulla salute mentale di bambini e adolescenti. Metà dei rifugiati a livello mondiale, infatti, sono donne e bambini estremamente vulnerabili a causa del potenziale rischio di sfruttamento sessuale, lavoro forzato e mancanza di istruzione. Pertanto, non si può sottovalutare il danno permanente che subiranno anche dal punto di vista psicologico. Se sopravvivono ai terribili viaggi, alle prigioni, alla schiavitù e ai traumi che ne derivano, rischiano comunque di diventare una generazione fantasma. Se anche riuscissero ad ottenere una protezione giuridica, è probabile che rimangano tagliati fuori dai percorsi educativi e in molti non andranno mai a scuola.
Oltre alla dimensione fisica, i bambini soffrono anche a causa di ferite invisibili. Un report di Save the Children (InvisibleWounds) nel 2017 ha documentato “l’impatto di sei anni di guerra sulla salute mentale dei bambini siriani” e i livelli di stress tossico provocati dalla prolungata esposizione al conflitto. Alcuni bambini non hanno mai conosciuto la pace o erano piccolissimi quando la guerra è iniziata e non sono mai andati a scuola. Fra i sintomi del trauma ci sono minzione notturna, autolesionismo, tentati suicidi, comportamenti schivi o aggressivi.
Secondo Save the Children, all’epoca del report, si era già a un “punto di rottura” dopo cui i danni possono diventare permanenti e irreversibili. Inoltre, i sintomi dello stress tossico permangono anche dopo aver lasciato la Siria, soprattutto perché nella maggior parte dei casi si finisce intrappolati in campi profughi o separati dal resto della famiglia. La dottoressa Alexandra Chen, specialista nel campo della salute mentale infantile presso l’università di Harvard, ha evidenziato che “vivere situazioni di estrema avversità nella prima infanzia può ostacolare lo sviluppo e la salute dei bambini anche una volta che la violenza è finita”.
“Metà dei rifugiati a livello mondiale sono donne e bambini estremamente vulnerabili e non si può sottovalutare il danno permanente che subiranno anche dal punto di vista psicologico”
I traumi emergono spesso anche dai disegni[1] dei bambini dove è abbastanza comune trovare armi, sangue, carri armati e altri segni della violenza cui hanno assistito. La paura del mare emerge con chiarezza e in alcuni casi viene rappresentato il naufragio di persone inghiottite dal mare davanti ai loro occhi. Lo scorso ottobre, il giornalista Lorenzo Tondo[2] e il fotografo Alessio Mamo hanno documentato le condizioni di vita all’interno del campo di Moria in Grecia dove vivono almeno 3000 minori fuggiti da Siria, Pakistan, Iraq fra gli altri paesi. Il coordinatore MSF, Luca Fontana, ha dichiarato “Benché la gran parte dei migranti che arrivano a Moria siano traumatizzati dopo la fuga da conflitti violenti nei paesi d’origine, le condizioni nel campo hanno peggiorato il trauma. Dopo due anni alcuni aspettano ancora di essere trasferiti, anche se se sanno di poter essere deportati da un momento all’altro in Turchia. Ho lavorato in Sierra Leone e Guinea in campi infestati dall’ebola, ma vi garantisco che questa è la situazione peggiore che abbia mai visto”.
Nel 2015, oltre 98.000[3] bambini soli o separati hanno presentato richiesta di asilo, registrando il record storico dal 2006, anno in cui l’UNHCR ha iniziato a raccogliere questo tipo di dati. Se consideriamo che nel 2014 erano stati oltre 34.000 e nel 2013 oltre 25.000, è facile capire come negli ultimi anni si sia registrata una escalation senza precedenti di minori in viaggio da soli. Inoltre, i dati non sono accurati perché in alcune aree del mondo, fra cui Sud Africa e Stati Uniti, questo tipo di informazioni[4] non vengono diffuse.
Oltre l’autolesionismo e i tentati suicidi nei campi profughi della Grecia, una condizione medica dai contorni poco chiari si registra da anni in Svezia e colpisce bambini migranti, molti dei quali vengono dall’ex URSS o dal Kosovo e che decidono di “abbandonare” la vita stessa. La resignation syndrome (o sindrome da rassegnazione) è geograficamente circoscritta alla Svezia, particolare che risulta ancora oggi inspiegabile. La sintomatologia racconta il distacco da parte del bambino o della bambina dal mondo che li circonda: diventano muti, insensibili agli stimoli esterni, incontinenti e vanno nutriti e idratati artificialmente perché smettono di farlo autonomamente.
Non parlano, non camminano, rimangono a letto a volte per anni. La dottoressa Elisabeth Hultcrantz ha curato circa 40 pazienti, prestando assistenza medica gratuita alle famiglie interessate, e considera questo “stato simile al coma” come una forma di protezione dal mondo esterno dove questi bambini e bambine hanno subito traumi e violenze. Il trauma[5] inteso come fattore scatenante è ad oggi l’unico punto su cui si concorda e quest’anno, grazie al fotografo svedese Magnus Wennman[6], la storia di Djeneta e Ibadeta ha ottenuto il primo premio nella categoria “People, First Prize Singles”. L’immagine di queste due sorelle costrette a letto da una malattia incomprensibile spinge a riflettere su come per certi esseri umani non esista un posto al mondo dove potersi finalmente sentire sicuri.
Infine, a fronte delle morti in mare, è indispensabile creare percorsi sicuri e alternativi che evitino ulteriori traumi e proteggano le persone concretamente. La drastica diminuzione dei decessi in mare nel 2018 in rapporto agli anni precedenti non può infatti essere considerata un traguardo sia perché la mancanza di ONG impedisce di sapere cosa succede davvero in mare, sia perché la proporzione fra partenze e decessi è aumentata. Insomma, guardare solo a una cifra –quella degli sbarchi in Italia- non aiuterà a comprendere e risolvere umanamente i flussi migratori come farebbero invece i corridoi umanitari che mettono al riparo da ulteriori abusi persone vulnerabili che meritano protezione.
“Il bambino temporaneamente o permanentemente privato del proprio contesto familiare o che per il suo sommo interesse non può rimanere in tale ambiente deve ricevere speciale attenzione e protezione da parte dello Stato” Art. 21, Convenzione[7] per i Diritti dell’Infanzia (1989)
[1] http://www.bbc.com/news/world-europe-40580529
[2] https://www.theguardian.com/global-development/2018/oct/03/trauma-runs-deep-for-children-at-dire-lesbos-camp-moria
[3] https://www.unhcr.org/576408cd7.pdf
[4] https://migrationdataportal.org/themes/child-migrants
[5] https://doctorsoftheworld.org/blog/swedens-mystery-illness-resignation-syndrome/
[6] https://www.worldpressphoto.org/collection/photo/2018/people/magnus-wennman
[7] https://www.ohchr.org/EN/ProfessionalInterest/Pages/CRC.aspx