Con l’escalation degli scontri contro Israele al confine meridionale del Libano, molti cittadini libanesi stanno temporaneamente fuggendo in Siria. Tuttavia, la possibilità di tornare a casa spaventa la maggior parte dei rifugiati siriani nel paese
In Siria, a Homs, sono aumentate esponenzialmente le macchine con targhe libanesi. Non sono i siriani che tornano a casa: ma i cittadini del janub, il sud del Libano, sfollati dai villaggi della provincia di Tiro e Bint Jbeil, al confine israeliano.
Me lo racconta Ahmad*, rifugiato siriano in Libano dallo scoppio della guerra civile nel 2011: fuggito, come i circa due milioni di rifugiati nel Paese, al servizio militare obbligatorio che il governo di Bashar al-Assad impone agli uomini tra i 18 e i 42 anni, nonché alle violente repressioni del dissenso da parte del regime.
Sua madre Fatima*, rimasta a Homs insieme al resto della famiglia, ha già affittato tre appartamenti a famiglie libanesi in fuga dalle conseguenze di un conflitto di cui si teme il coinvolgimento sempre più attivo del Libano, e che tuttavia al sud è già esploso, causando, dal 7 ottobre, già sei vittime civili e più di sessanta morti tra i miliziani di Hezbollah.
In un momento in cui il paese raccoglie firme per evitare l’intervento diretto nella guerra tra Hamas e Israele, chi può, è già partito.
Sono già 30,000, infatti, a detta dell’International Organization for Migration, i cittadini libanesi sfollati dai propri villaggi e ricollocati nel resto del Libano. Tra questi, un numero limitato e non ancora registrato, ha scelto una fuga temporanea in Siria, opzione contemplata nonostante il decennale conflitto non si sia ancora risolto, e la situazione socio-economica e securitaria resti allarmante.
Eppure, i viaggi in Siria, per i cittadini libanesi, non si sono interrotti: sono anzi recentemente ripresi, facilitati dalla non necessità di disporre di un visto. È il paradosso del Libano, un paese esteso poco più di 10,000 chilometri quadrati; attraversabile da nord a sud in una manciata di ore, che pure testimonia scenari socio-politici estremamente diversi; che è circondato da confini spinati, quando non insanguinati, che lo separano da due paesi – Israele e la Siria – storicamente avversari; che da parte di entrambi ha subito l’occupazione, e le cui politiche ne influenzano i delicati equilibri interni: politico-militari, come la recente e continua aggressione israeliana della Striscia di Gaza e dei territori palestinesi sta dimostrando; e demografici, visto l’esponenziale afflusso di rifugiati siriani nell’ultimo decennio. Due milioni, stando ai numeri delle agenzie di sicurezza libanesi, nonostante l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati ne abbia documentati appena 840,000.
Restare o partire
Il 90% dei rifugiati siriani in Libano, stando ai dati dell’UNHCR, vive sotto la soglia di povertà; una porzione significativa di questi manca di documenti legali; e oltre a subire deportazioni forzate oltre confine, incrementate esponenzialmente a partire dal 1 gennaio 2023, è soggetta a continue minacce e violenze su base razzista, accusata spesso dalla società libanese di essere la causa della grave crisi economica iniziata quattro anni fa, portando la valuta nazionale a perdere oltre il 98% del suo valore e due persone su tre a vivere in povertà.
Nonostante lo stato di terrore in cui i rifugiati siriani vivono in Libano, tornare in Siria non è un’opzione contemplata. Tra la morte possibile del restare e la morte certa del tornare, non c’è dubbio su cosa scegliere: così si spiega lo stato di limbo e invisibilità di due milioni di persone, molte delle quali, in assenza di mezzi legali e sicuri, tentano la via del mare verso l’Europa.
Quello dalla Siria al Libano, per i siriani, non è un confine attraversabile facilmente: lo stesso che ai libanesi è concesso legalmente e senza bisogno di un visto, ai siriani in esilio può costare la vita. Fuggendo alla coscrizione militare obbligatoria e alla repressione del dissenso da parte del regime, infatti, sono diventati dissidenti: tornare, per loro, significherebbe andare incontro a detenzione arbitraria, rapimenti, tortura e morte, come ha documentato Human Rights Watch tra il 2017 e il 2021.
A Tripoli, nel nord del Libano, lontano dal confine meridionale e fuori dalla regione di influenza di Hezbollah, dove il conflitto si avverte di meno e razzi e bombardamenti hanno la forma di notizie apprese in rete, Khaled* e Waleed* trascorrono le giornate reinventandosi di continuo, vendendo vestiti usati al mercato della domenica ed evitando di parlare della guerra. «Non sai mai di chi fidarti, questo noi siriani l’abbiamo appreso sulla nostra pelle», confessa Khaled, infrangendo la tacita promessa di riservatezza e rispondendo ai miei interrogativi.
Alla domanda dove andresti, se potessi viaggiare verso qualsiasi paese, mi rispondono, senza dubbio, «a Gaza». A chi è il nemico peggiore, senza esitare: «Bashar al-Assad». A come e dove si vedono tra cinque anni, entrambi: «martiri, in Palestina». Ahmad mi aveva avvertita che è così che mi avrebbe risposto la maggior parte dei siriani. La prendiamo come una scommessa per vedere come altri reagiscono alla stessa domanda.
Khaled è nato in un campo profughi palestinese alla periferia di Homs. Sua madre è siriana, la sua balia palestinese. «Così ho due nazionalità: e se in un paese sono nato, nell’altro ambisco a morire».
«Li capiamo i palestinesi a Gaza, soprattutto noi di Homs», continua Waleed, nato in un quartiere centrale della città. «Siamo stati sotto assedio per un anno e mezzo. Tutt’oggi non c’è elettricità, se non per pochi minuti, una volta ogni cinque o sei mesi. Il cibo, quando c’era, lo mangiavamo freddo, e dalle cinque di pomeriggio in poi si stava a casa, al buio. Le strade, come sempre quando c’è la povertà, sono troppo pericolose, e troveresti gente disposta a uccidere per un tozzo di pane. Abbiamo vissuto nella consapevolezza che da un giorno all’altro ci avrebbero sterminati».
Per una generazione di siriani, il decennale conflitto, insieme alla testimonianza del massacro di centinaia di migliaia di civili – l’1,5% della popolazione, stando ai dati dell’United Nation Human Rights Office – rappresenta la cesura tra un prima e un dopo, un modo di vivere e un modo di sopravvivere, il sogno di libertà e uno di giustizia. Se confrontato alla questione palestinese, tuttavia, esso svela una grande differenza: che se il nemico è esterno, l’occupante, il colonizzatore, la tensione intestina è limitata, e il senso di unità per la causa – almeno in apparenza – è risparmiato.
Il ruolo di Hezbollah
Ciò che succede quando gli alleati, nell’uno e nell’altro conflitto, cambiano faccia, è la questione all’ordine del giorno, specialmente dopo il discorso del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, di venerdì 3 novembre.
Il discorso, trasmesso in concomitanza con le manifestazioni indette da Hezbollah per onorare i combattenti caduti dall’inizio del conflitto, è stata la prima apparizione pubblica di Hassan Nasrallah dal 7 ottobre. Durato circa un’ora e mezza, il leader del partito filo-iraniano ha ammesso che ogni possibile scenario è aperto sul fronte libanese, e che l’opzione di una guerra totale è aperta, nonostante essa dipenda dalle mosse di Israele: tanto su Gaza quanto sul confine libanese, dove gli attacchi non sono cessati.
Il ruolo del partito filoiraniano nella guerra in Siria è noto per essere stato a supporto del regime di Assad, essendo la repressione dei gruppi ribelli parte fondamentale della realizzazione del piano dell’Asse della Resistenza, un’alleanza a guida iraniana di attori statali e non statali in Medio Oriente che cerca di contrastare gli interessi occidentali nella regione, vale a dire quelli di Stati Uniti e Israele.
Consentendo al regime di riprendere il controllo delle aree controllate dai ribelli nella Siria centrale, le milizie di Hezbollah hanno migliorato l’efficacia delle forze pro-regime. L’impatto di tale coinvolgimento in Siria si è fatto sentire non solo sul campo di battaglia, ma anche in Libano, dove le crescenti tensioni settarie hanno minato la sicurezza e la stabilità.
Infatti, oltre agli obiettivi regionali condivisi, un pilastro dell’asse è il sostegno condiviso. L’Iran fornisce ampia assistenza materiale, finanziaria, di formazione e logistica ai suoi partner regionali: ad esempio, garantendo a Hezbollah circa 200 milioni di dollari ogni anno. Dopo la guerra di Hezbollah del 2006 con Israele, Iran e Siria hanno riarmato Hezbollah con armi notevolmente ampliate e più sofisticate, utilizzando la Siria come canale di passaggio di gran parte di questo sostegno, rendendola il fulcro principale della proiezione di potenza dell’Iran nel Levante, come ampiamente documentato dalla ricercatrice Marisa Sullivan nel suo libro Hezbollah in Syria.
I rifugiati siriani in Libano, alla vigilia dell’intervento che potrebbe cambiare significativamente le sorti del conflitto tra Israele e Hamas, tuttavia, non dimenticano il ruolo repressivo che lo stesso partito ha avuto in Siria. Eppure, molti di loro si augurano di poter intervenire nella guerra.
«Non ci siamo dimenticati di quello che Hezbollah ha fatto in Siria. Se uccidevano senza pietà i bambini siriani, credi che si impietosirebbero davanti a quelli palestinesi? È una bugia, e lo sappiamo», racconta Khaled. «Ciononostante, se per combattere per la Palestina devo firmare un registro, iscrivermi al partito, lo faccio. Non per Hezbollah né per Hamas: ma per la Palestina e i palestinesi», continua.
Quando nel 2011 scoppiarono le rivolte e la gente scese nelle strade di Daraa, Damasco, Homs e di altre città della Siria, il ramo di Hamas con sede a Damasco – che all’epoca era in Siria da quasi 11 anni – si schierò dalla parte dell’opposizione. Tagliato fuori dai finanziamenti iraniani, il gruppo militante palestinese si è trasferito in Qatar nel 2012, nonostante abbia mantenuto la sua influenza nei campi profughi palestinesi in Siria.
Allora, il sostegno di Hamas all’opposizione fu sostenuto da una manifestazione nella Striscia di Gaza, che sosteneva che quella siriana era una rivoluzione araba, isolando ulteriormente l’Iran e Hezbollah come unici principali alleati del regime di Assad nella regione.
Tuttavia, il sostegno finanziario iraniano per l’addestramento militare e la logistica dei materiali a Gaza, ha spianato la strada a una possibile riconciliazione tra i due gruppi militanti, implementata nella battaglia del maggio 2011, nota come “Saif al-Quds”, durante la quale, per la prima volta, è stata costituita una struttura di comando congiunta per coordinare le operazioni e la condivisione di informazioni tra Hamas e Hezbollah, sotto la supervisione di Teheran, riferisce un’analisi del Middle East Institute.
Sul piano strategico, l’alleanza tra i membri dell’Asse della Resistenza si è rafforzata, così come la nuova “campagna di unificazione delle arene”, una politica di deterrenza basata sulla creazione di un cuscinetto difensivo nel Mediterraneo orientale che coinvolge una serie degli alleati regionali non-statali per l’Iran. La campagna è localizzata intorno a Gaza, in Cisgiordania, nel Libano meridionale e nelle alture del Golan occupate, con i due fronti aggiuntivi delle milizie appoggiate dall’Iran in Iraq e degli Houthi yemeniti. Lo stesso Nasrallah, nel discorso di venerdì, non ha fatto riferimento all’influenza del partito in Siria, ben consapevole del possibile conflitto di interessi, e del necessario sostegno dei rifugiati siriani.
Possibili scenari
È infatti condivisa tra i siriani in Libano la speranza che il Libano intervenga direttamente a sostegno della Palestina, se non altro per «ritrovare una ragione di giustizia», confessa Ahmad, «e uscire finalmente dal terrore della deportazione». Con l’incremento delle deportazioni dei rifugiati siriani senza documenti a norma oltre il confine, infatti, molti di loro sono costretti a vivere nascosti, senza potersi spostare all’interno del Libano.
«Cosa mi aspetto che succederà? Finora hanno colpito solo obiettivi vuoti. Se Hezbollah lo volesse davvero, avrebbe già smantellato il suo arsenale militare», dice Waleed.
Sebbene le aspettative siano basse, per una generazione di giovani uomini sopravvissuti all’impensabile, cresce la speranza del martirio. Delusi dagli esiti della rivoluzione siriana, sono pronti a combattere per la resistenza palestinese.
Tuttavia, la concreta possibilità di spostarsi a sud, mentre i civili libanesi migrano a nord, rimane incerta, e dipendente da due fattori. Alla decisione di Hezbollah se intervenire direttamente nella guerra contro Israele, che al momento pare sospesa, seguirà quella, determinante, del Ministero degli Esteri, guidato da Abdallah Bou Habib, circa la normalizzazione della presenza dei profughi siriani nel Paese. In un’intervista rilasciata all’inizio di ottobre al quotidiano libanese Al-Joumhouria, Bou Habib ha dichiarato che il suo Ministero sta studiando delle alternative al «rifiuto» dell’Occidente di riportare i profughi siriani nel loro Paese, essendo il problema «politico e non finanziario». Senza un vero piano di normalizzazione e legalizzazione del loro status, è chiaro che l’accesso alla mobilità per due milioni di persone resterà minacciato.
Pertanto, con il continuo inasprimento della tensione al confine meridionale, resta poco chiaro il destino dei rifugiati siriani in Libano, la cui sicurezza è messa a repentaglio dal crescente razzismo causato dalla diffusione di fake news sui social media, soprattutto nel Sud.
*I nomi sono stati cambiati per proteggere l’identità degli intervistati