La notizia della morte del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, nei violentissimi bombardamenti di venerdì sul sud di Beirut, apre scorci inquietanti sul futuro del Libano. Tra massiccio sfollamento interno, timore di un’invasione di terra israeliana e fantasmi riscoperti di un nuovo conflitto civile, il destino del paese è sospeso: mentre ancora è incerto il bilancio delle vittime, i libanesi temono il peggio

È successo mentre eravamo in un appartamento di Ain El Remmaneh, il quartiere cristiano dell’inizio della guerra del ’75: il casus belli, il primo dei massacri. Casa, questo appartamento non ammobiliato se non dal vuoto di tre stanze di materassi, donne, e una televisione sempre accesa, non la si può chiamare, perché quella delle origini è sepolta sotto le macerie del janub, il sud del Libano. Culturalmente, politicamente lontanissimo dalla Dahieh sciita, Ain El Remmaneh è un mondo altro: statue di madonne e santi nelle piazze, sui balconi bandiere delle Forze Libanesi, strade larghissime e vuote. Un silenzio di spettatori, di chi questa guerra non la voleva – ma non ha avuto, non ha, la forza politica di opporla. Eppure spazialmente, geograficamente, sonicamente – vicinissimo. L’intera Beirut, ieri, all’orario del tramonto, del cielo violetto e del sole riflesso sulle finestre semiaperte, ha tremato. Per dieci, quindici, venti secondi. Forse, a pensarci, persino di più. Le bombe sono esplose così velocemente, così vicine le une alle altre – in uno dei quartieri più densamente popolati della capitale, mezzo milione di persone in pochi chilometri quadrati – che il suono, all’orecchio inesperto o sconvolto, ha ricordato più quello di una mitragliatrice: pesante 2000 tonnellate da radere al suolo una mezza dozzina di palazzi residenziali.

L’attacco israeliano del giorno che la storia racconterà come il primo dei massacri – il casus belli di ciò che potrebbe prendere la forma inquietante di una guerra civile, totale, di una nuova occupazione, premessa di un altro genocidio – l’abbiamo sentito come se stesse scuotendo le fondamenta della bolla di città che credevano, che credevamo, sicura. 

Ain El Remmaneh, due chilometri a nord di Haret Hreik, il quartiere sventrato dei sobborghi meridionali, 27 settembre. Irriconoscibile, terrorizzata, sfollata Beirut. La famiglia di un amico era scappata da un villaggio alla periferia di Tiro lunedì scorso, 23 settembre: l’atto di inizio di un nuovo tipo di guerra, i cui casi si moltiplicano all’infinito – uno per ciascuno degli sfollamenti, per ciascun martire, ciascun edificio distrutto. Per ciascuno sguardo lasciato alle spalle dai vecchi che salutano temporaneamente la terra per cui hanno speso la vita, il sangue dei figli, le lacrime di speranza di liberazione: e questa volta, lo sanno, definitivamente. Sono andata a trovarli per capire che espressione avesse, la consapevolezza indicibile del definitivo. Per portare, in cambio di mesi di ospitalità ricevuta, un supporto di amica, e un cesto di melagrane. In quindici ammucchiati nel fumo della noia – nel loro sud erano soliti respirare lo spazio aperto: adesso, l’angoscia di non tornare – accaldati, stanchi. Dopo diciassette ore di viaggio lungo una strada bombardata, da Tiro, attraverso Sidone, in direzione Beirut, hanno avuto la fortuna – la chiamano così – di essere accolti dai vicini, di non dover ripiegare sulle scuole adibite a rifugi temporanei, o peggio, sui parchi pubblici, le automobili stracolme, i marciapiedi fatiscenti. 

Tanti degli sfollati del sud, rifiutati dai quartieri sicuri per ragioni economiche, settarie, e psico-sociali – è puro terrorismo psicologico, quello che Israele è riuscito a scatenare dopo il cyberattacco ai cercapersone degli affiliati a Hezbollah, la violentissima, insensata paura dello sciita – si erano spostati a Dahieh; qualcuno – dal sud – non si è spostato affatto. Chi, da Dahieh, non se ne è voluto o non se ne è potuto andare, potrebbe essere ancora sotto le macerie, che a ventiquattro ore dall’attacco contano ufficialmente – ma inverosimilmente – centodieci feriti e quarantuno morti. Ma 2000 tonnellate trasformano un palazzo in una montagna di detriti – sei palazzi, in almeno sei montagne. E la notte che ha testimoniato decine di bombardamenti, senza sosta, sul sud della città, Dahieh, Ghobeiry, Bourj el-Barajneh – senza contare la devastazione sui villaggi del sud e della Valle della Beqaa – sfollando migliaia di libanesi, palestinesi e siriani, uccidendone un numero ancora ignoto, sembra essere ancora in corso. Con gli occhi stanchi, cerchiati di nero. 

Almeno finché non è giunta la notizia – confermata da un comunicato ufficiale del partito – della morte, l’uccisione riuscita e mirata, con strage collaterale, del Sayyed, il leader indiscusso, eternato dal sacrificio, Hassan Nasrallah.

Gli uomini piangono silenziosi. Le donne gridano, si dimenano. Per qualche secondo, il nulla. I bambini senza età restano impassibili, mentre colpi di pistola riempiono il cielo in tutto il paese – di commemorazione e celebrazione del martirio, nelle zone a maggioranza sciita, e di festeggiamento, di felicità, senso di liberazione, in quelle di opposizione al partito di Dio. Mentre sottovoce i libanesi increduli si chiedono quale fosse il senso di nascondersi proprio a Dahieh, mettendo a rischio la vita di migliaia di civili, altri osano uscire in strada, riprendere spazio, liberare vecchi rancori. A Tripoli, nel nord, mentre ieri gruppi di rifugiati siriani – vittime, a loro volta, del supporto di Hezbollah al regime di Bashar al-Assad – percorrevano le strade in carovane di motociclette, suonando i clacson, oggi, nel quartiere sunnita di Abu Samra, si è registrato almeno un episodio di violenza contro un sostenitore del gruppo sciita. 

In questa complessità, di nemici sfaccettati, alleanze instabili, comunità basate su molteplici e fragili appartenenze – settarie, politiche, o socioeconomiche che siano – è la violenza arbitraria, popolare, la violenza di massa, a spaventare. Più infame dei bombardamenti, poiché fratricida. Le strade sono militarizzate, il nome del successore – Hashem Safieddine – inizia a essere balbettato, con cautela, e Israele continua incrollabile, impunito, a bombardare Beirut, il sud, la Beqaa, lo Chouf. I molti che hanno già perso qualcuno, raccomandano di pensare ai vivi. A chi li proteggerà, da quale nemico. E ogni scoppio, ogni boato, ogni ronzio di drone sopra le teste di chi è rimasto – ogni minaccia sugli intrappolati tra i poli di queste violenze – costringe a restare in casa, per chi ne ha ancora una. A sperare di essere accolti in un nuovo rifugio, per chi l’ha persa; che qualche volontario corra il rischio di distribuire un pasto caldo, anche oggi; che la strada che li separa dai famigliari in corso di sfollamento sia percorribile – e che non si resti soli, adesso che si è chiuso il primo capitolo di una guerra la cui direzione sembrava già scritta, e invece è stata sconvolta.