«Quando le ho proposto di stabilirci qui, la prima reazione di Aiza è stata: “Mai e poi mai”. Le informazioni che abbiamo su questo paese si limitano ai nostri pregiudizi nei confronti degli immigrati che vivono in Russia». A Biškek, la capitale del Kirghizistan, un piccolo stato dell’Asia centrale stretto tra il Kazakistan e la Cina, il tempo pare essersi fermato. Con i suoi larghi viali alberati, gli edifici brutalisti, le statue di Lenin e i condomini prefabbricati dell’epoca di Brežnev, questa minuscola città circondata dalle montagne sembrerebbe non essersi accorta del crollo dell’Unione sovietica. Per le strade si parla nella lingua di Puškin, e ancora oggi la dipendenza economica da Mosca resta profonda: oltre un quarto del pil kirghiso è rappresentato dalle rimesse provenienti dalla Federazione e più di un milione di persone su appena sei milioni di abitanti lavora in Russia, svolgendo le mansioni più umili in un ambiente saturo di razzismo e xenofobia.
Con lo scoppio della guerra, il flusso si è invertito. Dallo scorso febbraio, alcune centinaia di moscoviti e pietroburghesi, attivisti e giovani di orientamento liberale, si sono rifugiati in questo angolo di mondo soggetto all’influenza russa fin dalla fine dell’800, per sfuggire alla violenta repressione o semplicemente rifarsi una vita fuori da un paese in cui l’aria era divenuta irrespirabile. Tra loro, Sergej e Aiza, marito e moglie, quasi trentenni, interprete e traduttore lui, avvocata lei, i cui preconcetti nei confronti del Kirghizistan non poggiavano certo su basi ideologiche: «Oggi mi vergogno, mi rendo conto che la mia era ignoranza», ammette Sergej. La giovane coppia rappresenta una tipologia di russo magari non del tutto consapevole delle dinamiche coloniali, ma nemmeno lontanamente intrisa di nostalgia imperialista, anzi desiderosa di spogliarsi di quello sciovinismo che, ne stanno prendendo coscienza, ha portato all’attuale disastro.
Se Biškek non rappresentava una destinazione di prima scelta per la diaspora russa, le cose sono cambiate dopo l’annuncio della mobilitazione, quando la città è stata presa d’assalto. Oggi chi può scappa, non importa dove. E il Kirghizistan fa parte di quella manciata di stati ancora facilmente accessibili ai russi, che per entrare non hanno bisogno di un visto e nemmeno del passaporto internazionale: basta quello a uso interno. In questo momento, non c’è esule della prima ondata che non stia alloggiando nuovi arrivati da ogni parte della Federazione e tutti gli hotel e gli ostelli della città sono pieni di ragazzi in età militare. «Il mio bilocale si è trasformato in un rifugio improvvisato, la scorsa settimana ho ospitato sei persone, ora sono in tre, ma altri verranno nei prossimi giorni», racconta Fedor, un artista e attivista di Mosca che lo scorso marzo ha messo poche cose essenziali in uno zaino («temevo i controlli, volevo dare l’impressione di partire per un breve periodo») e si è lasciato una vita alle spalle, senza sapere se e quando potrà rivedere la sua famiglia. «Sarei finito presto in carcere o nelle forze armate, che da noi è un modo per punire i dissidenti», spiega. Dal momento in cui Putin ha rotto il suo patto implicito con la “maggioranza silenziosa” di russi, portando la guerra nelle loro case, il ragazzo non ha fatto che dare supporto a quanti cercavano di scappare, paralizzati dal panico e incapaci di pianificare razionalmente una via di fuga: «Aiuto le persone con la logistica, li prendo per mano e li accompagno lungo l’intero processo».
Secondo i dati rilasciati da Astana, dallo scorso 21 settembre oltre duecentomila cittadini della Federazione hanno varcato la frontiera con il Kazakistan. E una parte di loro ha continuato il viaggio verso sud, giù fino a Biškek. I più fortunati sono arrivati in aereo. L’arrivo di questa moltitudine di russi rischia di rompere il delicato equilibrio che si era creato tra gli esuli della prima ondata e i locali. «Sono un po’ spaventato, condivido i timori dei miei amici kirghisi», confida Fedor. «Le persone che stanno arrivando oggi sono diverse da quelle che hanno lasciato il paese subito dopo l’invasione, in possesso di un minimo di consapevolezza del passato di questa regione e della sensibilità di questi popoli, o quanto meno di una certa apertura mentale. Il Kirghizistan ha una difesa intrinseca contro le persone con un’inclinazione imperialista, che mai deciderebbero di venire spontaneamente in un posto che non considerano degno della loro attenzione. Questo è il motivo per cui quella gente che sta creando problemi in Georgia, qui non si è mai vista. Ma ora non c’è possibilità di scelta, c’è un afflusso di russi ordinari, e non sarà semplice».
Ciò non vuol dire che i fuggitivi di queste ore siano sostenitori del regime. Si tratta in buona parte di persone depoliticizzate – un’attitudine con salde radici storiche, coltivata con cura dall’autocrazia putiniana – che da un momento all’altro hanno scoperto di non poter più andare avanti con le loro vite come se nulla fosse. O persone che, pur interessandosi a quello che accade intorno a loro, credono di non poter esercitare alcuna influenza. «Puoi essere totalmente contro il governo, contro la repressione, ma non puoi farci niente. Dopo le prime settimane di caos, Mosca era tornata esattamente com’era prima della guerra. Il messaggio era chiaro: fai le tue cose, e non ti azzardare ad alzare la testa», afferma Michail, nome di fantasia, uno degli ospiti di Fedor, che ha lasciato a casa la moglie e un bambino di tre anni ed è fuggito in un posto di cui non sapeva nulla, se non che «è un paese povero, e i kirghisi vengono a lavorare da noi perché qui non guadagnano abbastanza». Il ragazzo non ha svolto il servizio militare: i suoi genitori hanno pagato dei funzionari locali perché fosse esonerato dalla leva. Ma il problema di salute fittizio che gli è stato certificato non lo dispensa da una mobilitazione in tempo di guerra. «È vero, non ho mai protestato, e non voglio giustificare la mia debolezza, ma in Europa non tutti capiscono che cosa vuol dire vivere in uno stato di polizia. Per quanto possa suonare meschino, su di me, un ragazzo normale di Mosca, la guerra non aveva avuto finora alcun impatto».
Anche Tat’jana («puoi usare il mio vero nome, tanto in Russia non ci metto più piede») ha trovato rifugio a casa di Fedor. E neanche lei ha mai mostrato apertamente il proprio dissenso: «Ho paura della violenza fisica. Tutti sanno cosa succede a chi viene arrestato in Russia». Docente d’inglese, fin dall’inizio del conflitto fa volontariato con un’associazione che dà gratuitamente lezioni ai rifugiati ucraini, per aiutarli a inserirsi nei paesi d’arrivo. «Siamo partiti con due insegnanti e otto studenti, oggi siamo più di cinquemila». Tanja è laureata in Relazioni internazionali in una delle migliori università di Mosca. In questi istituti d’élite, spiega, è possibile frequentare un corso che fornisce una formazione militare legata al percorso di studi. Al termine delle lezioni, si riceve un foglio che esonera dal servizio di leva e si ottiene un grado militare: «Tutti gli studenti maschi seguono questi corsi perché non vogliono andare nell’esercito, dove i ragazzi vengono picchiati e possono essere stuprati». Nel suo caso, si è trattato di curiosità: «Il modulo si chiamava “Guerra psicologica”. Sembrava interessante, ma era solo propaganda». Così, la giovane è un ufficiale delle Forze armate. «Non credo che possano mandarmi a combattere, ma magari mettermi in un ufficio a scrivere le loro menzogne sui social media. Ovviamente direi di no, e finirei in prigione. Il mio viaggio è di sola andata». La cosa più dolorosa è stata dire addio a sua nonna. «Non la rivedrò più», mormora tra le lacrime, «è stata lei a crescermi».
Il fidanzato di Tanja, anche lui fuggito da Mosca, si trova ora in Tagikistan: «Prima non avrebbe nemmeno saputo indicarlo su una cartina, era sicuro che Taškent [la capitale dell’Uzbekistan, ndr] si trovasse lì». Nulla di sorprendente per Sofia, studentessa originaria di Sachalin ma cresciuta tra Mosca e gli USA: «Non si tratta di ignoranza. Il problema è che non riconosciamo alcuna dignità a quei paesi che facevano parte dell’Unione sovietica, li vediamo come delle aggiunte alla “grande Russia”, come se ci appartenessero e non fossero in grado di esistere senza di noi». La ragazza divide un piccolo appartamento nella capitale kirghisa con il fidanzato Maks e tre loro amici: «Erano venuti a trovarci per una settimana, erano qui quando Putin ha fatto il suo discorso. Ovviamente non hanno preso il volo di ritorno».
Ivan e Maša, nomi di fantasia, arrivati a Biškek da Mosca dopo un viaggio in macchina durato tre giorni, sedici ore trascorse alla frontiera con il Kazakistan, sono ospiti di Sergej e Aiza. E anche Ivan ha frequentato una di quelle università che danno la possibilità di sottrarsi alla leva. Laureato in Traduzione e interpretariato, teme che all’esercito possa servire la sua specializzazione. «Dicono che bisogna avere esperienza di combattimento, ma in realtà chiunque può essere arruolato». Entrambi fermamente contrari alla guerra, avevano già pensato di lasciare la Russia, ma non volevano separarsi dalle loro famiglie.
Storie simili a tante altre, che incontrano la solidarietà della maggioranza dei kirghisi, impegnati in un enorme sforzo di accoglienza nonostante le ricadute sociali di questi arrivi siano già evidenti. I prezzi degli affitti sono sensibilmente aumentati e i media locali riportano le testimonianze di persone sfrattate per fare posto a chi è pronto a pagare anche il doppio del canone precedente. C’è poi apprensione per il potenziale impatto sul mercato del lavoro e ancora di più per la mentalità imperialista e sciovinista che si teme sia radicata in parte di questi ragazzi. Memori del trattamento ricevuto nella Federazione, alcuni utenti kirghisi riversano sui social il loro rancore verso chi li chiamava čurki (un appellativo razzista di etimologia incerta) e pubblicava annunci immobiliari “solo per slavi”. «Oggi piangono, domani torneranno con i carri armati perché non li abbiamo serviti con perfetto accento russo», commenta con sarcasmo un residente di Oš, la seconda città del paese.
«Siamo stati cresciuti in un ambiente peculiare: ci è stato insegnato che la Russia è la migliore e tutti gli altri sono nemici o schiavi», racconta Yulia, un’attivista di lunga data, che fino all’ultimo è scesa in strada con un cartello in cui era scritto che l’invasione non aveva il supporto dei cittadini («anche se a essere sincera non ne ero così sicura»). All’inizio di marzo, ha deciso di andare via: «Non dormivo più, avevano cominciato a fare irruzione all’alba negli appartamenti dei nostri amici e avevamo paura di essere i prossimi». Originaria di San Pietroburgo, a Biškek ha affittato una grande casa con giardino in cui, oltre a vivere con il marito Il’ja e la figlia di sette anni, organizza numerose iniziative di carattere sociale («è una casa comune»). Si chiama Krasnaja Kryša, “tetto rosso”, ed è popolarissima tanto tra i locali, quanto tra gli esuli. Nelle settimane successive all’avvio della mobilitazione, la struttura si è trasformata in un campo di accoglienza: decine di giovani scappati dalla chiamata alle armi vi hanno trovato rifugio. Per facilitare l’inserimento dei nuovi arrivati e prevenire l’emergere di tensioni, Yulia ha ideato alcuni incontri insieme a ricercatori, attivisti e artisti kirghisi, con l’obiettivo di «decostruire il pensiero coloniale, analizzare in modo critico il passato sovietico e creare un dialogo su nuove basi».
Costantemente in bilico tra opposte spinte autoritarie e democratiche, il Kirghizistan ha una cultura politica e una libertà di parola impensabili nel resto dell’Asia centrale. Una società civile strutturata, i cui membri si vantano di essere sempre pronti alla rivoluzione (tre, dal 1991). Il dibattito sui temi di cui si discute durante gli eventi di Krasnaja Kryša è vigoroso nel paese, che sta ancora metabolizzando la propria storia di subalternità. Ma l’occasione di un confronto in condizioni di parità con tanti russi ordinari è un fatto inedito. Germi di speranza, in un momento così buio per quella parte martoriata di mondo che chiamiamo spazio post-sovietico.