Decidere di attraversare spazi fuori dai centri abitati si rivela spesso essere una pratica utile a ” leggere” luoghi altrimenti sfuggenti, non solo alla vista, ma alla nostra capacità di percezione.
Il tentativo di lettura proposto non nasce infatti dalla velleità di ricondurre ad uno studio umanistico, come la filologia, l’attrazione per posti marginali o dismessi; piuttosto, si profila come un approccio, iniziato per caso, in cui sono gli elementi ibridati, tra natura e artificio, a fare da bussola, così come nei testi antichi sono gli errori di trasmissione a fare da guida nella ricostruzione. Quello che è emerso durante camminate nell’alterato paesaggio salentino è quanto potrebbe accadere percorrendo traiettorie appartenenti ad altre geografie, in special modo fuori dai centri abitati: sfuggire ad un riconducibilità definita, che la filologia segnalerebbe con il termine di anepigrafo: cioè componimento o manoscritto privo di titolazione
Alterazioni ed errori non rendono, quindi, un sistema analizzato più complesso, piuttosto tentano di attualizzarlo. Non si tratta di sviluppare una narrazione antropologica precipua rilevandone peculiarità folkloriche, quanto di rilevare quelle alterazioni in qualità di elemento di eterno presente, come si farebbe con un manoscritto adespota, senza il nome dell’autore
Di qui, la scelta di individuare alcuni luoghi rappresentativi di questi alterazioni o, prendendo in prestito dal metodo filologico, degli errori/corruttele, che più che raccontare l’attuale condizione del paesaggio salentino, diventano un paradigma di lettura dello spazio, dei suoi pieni e dei suoi vuoti (cartina tornasole, dunque, di fenomeni non strettamente locali). Già Francesco Careri in “Walkscapes, Camminare come pratica estetica” (Einaudi, 2002) esprime la sua idea del camminare come strumento di trasformazione e percezione del paesaggio, giungendo alla conclusione che le città siano frutto di una compresenza di spazi vuoti (nomadi) che possano essere percorsi andando alla deriva e spazi pieni (sedentari). Esattamente come nei manoscritti antichi dove convivono lacune, importanti porzioni di testo andate perdute e insanabili anche dalla critica filologica, insieme con passaggi colmi di interpolazioni, riadattamenti o prosecuzione di passi incompiuti a volte talmente mimetici da essere difficili da distinguere dall’originale.
A margine dei centri abitati, poco fuori dalle periferie delle città di provincia, la crescita di insediamenti di diversa natura si somma alla presenza di edifici rurali abbandonati e fatiscenti. Progetti architettonici, non in relazione tra loro né per epoche né per destinazioni d’uso, si susseguono nello spazio in un elenco vasto: appezzamenti agricoli e capannoni, vecchi pozzi a torretta, frammenti di natura nelle crepe di cemento in grandi aree di sosta, parcheggi laterali a strade statali, viadotti di superstrade e brandelli di torri colombaie, distese di pannelli solari e pale eoliche, scheletri di antiche masserie fortificate e demolitori d’auto.
Lo spazio appare, non solo, abitato da elementi non contigui tra loro, ma consumato da due fattori: le esigenze antropiche pervasive e il tempo che favoriscono gli sviluppi della contaminazione, esattamente come nei testi antichi, dove si fondono elementi di diversa provenienza
Avanza la percezione chiara di una trasformazione costante che rompe le categorie che la descrivono, non offrendo una differenza sostanziale tra realtà e rappresentazione. Si può raccogliere con la vista una pluralità così articolata, che difficilmente la si potrebbe riportare in una narrazione unitaria o sintetica. La complessità del paesaggio contemporaneo, al di là di ogni precisa localizzazione, è ormai caratterizzata da una molteplicità di elementi irriducibili a un ordine razionale.
Se le scienze linguistiche applicate ai testi antichi cercano gli errori per ripararli, almeno fin dove il metodo è in grado di farlo, la lettura proposta non è intenta a sanare alcunché, semmai a riconoscere i processi di trasformazione. Le spoglie,i resti, gli, scarti, gli ibridi, colti nel loro moto geopolitico di ridefinizione, diventano strumenti che misurano relazioni, integrandosi con la posizione del corpo dell’osservatore, del viandante o del lettore.
E’ ciò che “sta in mezzo” a costituire il paesaggio della molteplicità che, a causa della sua indeterminatezza, diventa fertile terreno di incursioni semantiche. La periferia, la città diffusa, la “campagna” sono territori ricchissimi di presenze, di dimensioni attigue e di “ vuoto” che viene ancora osservato con l’occhio di chi vorrebbe fare ordine. Evocato comunemente, come una presenza negata o una lontananza o un sentimento di nostalgia, descritto con enfasi retorica, è forse da intendersi come un costante orizzonte che sfugge, per eludere le strutture gerarchiche del pensiero intento a racchiudere tutto in una memoria collettiva come affermazione conclusiva.Tuttavia, parlare del vuoto, come dell’assenza, risulta difficile perché necessita di una costante tensione, un’apertura verso qualcosa che non c’è o che tarda a giungere o non arriverà mai. Ed è a qualcosa di simile che questo “paesaggio”, raccontato per alterazioni ed errori, sembra farsi associare, più che ad un’idea di tempo, a quella di un modo continuativo, un gerundio. Una forma non finita del verbo, intermedia, vicina all’infinito e che indica azioni in corso di svolgimento, di cui solo dell’inizio si ha contezza, ma non del momento in cui si compirà.