La quinta puntata del reportage di Cecilia Fasciani, pubblicato sul sito di Festivaletteratura e sulla rivista “Q Code Magazine” fino alla primavera del 2023

Con Il Grande Re di Cecilia Fasciani, il lavoro inedito scelto nel 2022 dalle giurie dei pitching di Meglio di un romanzo per essere sviluppato sul sito di Festivaletteratura e sulla rivista Q Code Magazine, navigheremo lungo il corso del Po fino alla tarda primavera del 2023, attraversando quattro regioni italiane alla scoperta delle realtà che vivono oggi sugli argini del grande fiume. Sarà un viaggio in cinque puntate, dalle terre alte al delta, tra memorie d’acqua, crisi ambientali e storie di adattamento. Nel primosecondoterzo e quarto episodio ci siamo mossi dal Monviso fino alle zone di confine tra Emilia, Lombardia e Veneto; nella quinta e ultima puntata raggiungiamo la foce del Po, dove gli equilibri naturali, sociali ed economici di quest’area unica al mondo sono sempre più minacciati dalle conseguenze della crisi climatica.

LA FOCE
di Cecilia Fasciani

A Santa Giulia, nel Delta del fiume Po, ogni mattina all’alba i motori delle barche parcheggiate lungo una delle tante banchine rompono il silenzio dell’aurora per muoversi verso il mare, percorrendo quel tratto chiamato Po di Gnocca, e tuffarsi nella Sacca degli Scardovari. In questa zona le acque del grande fiume si ramificano come l’estremità di una vecchia quercia: siamo arrivati al Delta, dove finisce il nostro viaggio dopo aver percorso centinaia di chilometri. Una foce che cambia sempre, si ingrandisce e si sposta a seconda delle piene, dei detriti che il grande fiume trascina a mare e delle burrasche. Mentre i motoscafi rimbalzano sulla superficie dell’acqua, correndo veloci sui canali tra piante e uccelli che popolano questa laguna dalle acque salmastri, non si riesce a distinguere dove finisce il fiume e comincia il mare. Si scivola accanto a una serie di palafitte in legno, poggiate sul fiume, dove gli abitanti del luogo lavorano il pesce appena pescato, parcheggiano i propri motori e si salutano l’uno con l’altra al passaggio delle barche. Dei lunghi e sottili bastoni di legno sembrano galleggiare sulla superficie dell’acqua, a volte si confondono tra il verde e il giallo degli steli delle folte piante che interrompono la continuità del cobalto. Dei fenicotteri aleggiano a pelo d’acqua, come si dice qui “volano più bassi dei pesci che nuotano nel fiume più a monte”.

Nella Sacca degli Scardovari Niky Penini si reca ogni mattina, per pescare la propria quota di vongole insieme al padre e allo zio, la sua famiglia è stata la prima ad allevare le cozze in questo luogo. È un lavoro che prevede l’immersione a mezzo busto nell’acqua per diverse ore, tutti indossano una tuta da sub adatta al clima del momento. In quest’ansa del fiume, durante le prime ore della mattina il rumore dei veicoli e il vociare dei pescatori sovrastano il silenzio tipico del Delta. Ci sono motoscafi con due, tre, quattro persone, tra chi è in acqua a muovere il raschiatore e chi resta a bordo per selezionare le vongole, pulirle e pesarle, metterle nelle cassette per poi costruire dei sacchetti che andranno a formare la quota di pesca di ciascuno. Il sistema che vige in queste zone è di tipo collettivistico: si prevede una quantità fissa per ciascuna unità, che ogni sera viene stabilita con precisione per il dì successivo, a seconda delle necessità del mercato.

“Il mio lavoro è in realtà composto da diverse variabili e fattori. Io nasco come pescatore, sono allevatore di cozze e vongole. Mi alzo molto presto al mattino, di solito si parte all’alba. Conosciamo il giorno prima la quota prevista per noi a seconda dei quantitativi richiesti dal mercato, che è uguale pescatore per pescatore. Raggiunto il quantitativo, lo consegnamo nei centri di raccolta, che sono il punto di partenza per arrivare al centro di stabulazione, dove rimarrà almeno ventiquattro ore per essere depurato da eventuali batteri nocivi e sedimenti. Successivamente andranno nei mercati principali di Roma, Milano e all’estero”. Niky Penini è molto esperto del suo lavoro e del luogo dove è nato e cresciuto, nonostante sia molto giovane ha già parecchi anni di esperienza alle spalle. Ha la pelle abbronzata dal sole che prende ogni giorno, ricorda a memoria i nomi delle specie di pesci e uccelli che vivono nella laguna e non c’è angolo della Sacca che non conosca. “Io sono nato a Piano di Rivà, sempre nel Delta del Po, a circa 25 chilometri da qui, un territorio diverso, anche da un punto di vista culturale. È una zona più agricola, si trova lungo la strada statale Romea, è di passaggio. Mentre qui sono arrivato a nove anni, quando i miei genitori si sono separati, e poi sono cresciuto qui. Incontrando anche qualche difficoltà, perché all’epoca il sistema di pensiero era completamente diverso. Qui siamo in un territorio a parte, dove tutti fanno questo lavoro, un po’ ristretto perché naturalmente tutto il mondo gira attorno a quelle che io chiamo le ‘petrol-vongole’: le varie gerarchie e gli equilibri sociali ruotano attorno al lavoro stesso. Un po’ come in una fabbrica del secolo scorso, dove all’interno avevi l’asilo, il dopolavoro. Qui è la stessa cosa, a differenza di altre realtà più diversificate, dove la diversificazione porta emancipazione maggiore dal punto di vista culturale ma anche lavorativo”.

La grande rivoluzione in questa laguna è arrivata proprio con la pesca delle vongole e i tantissimi soldi che ha portato con sé. Improvvisamente, benessere e ricchezza hanno trasformato il tessuto sociale. “Negli anni, la socialità che prima esisteva, quando bene o male tutti avevano lo stesso stile di vita, è andata un po’ scemando, diventando prettamente una cultura di tipo individualistico. Anche se abbiamo un sistema cooperativo, c’è molta competizione fra pescatori, non solo da un punto di vista economico ma anche a livello d’immagine. Oggi viviamo molto meglio di quindici o venti anni fa, ma quando ero piccolo e veniva varata una barca nuova, era una festa. Adesso c’è la malizia del dire ‘me la devo acquistare anch’io come lui, devo prendere il motore più grosso’. Se ci spostiamo di due chilometri e andiamo a Goro, le cose sono ancora più esasperate, dove convivono redditi fino a centomila euro l’anno e uno dei tassi di descolarizzazione più alti d’Italia, perché vanno a vongole invece che a scuola”. La pesca delle vongole in queste acque si sviluppa a partire dal 1987: tra fine anni Ottanta e inizio anni Novanta la situazione è fuori controllo per la mancanza di regole definite e gli eccessivi quantitativi di prodotto pescato sono la causa di una crisi economica del settore. A quel punto, nascerà un più vigile controllo sulla gestione delle lagune piuttosto che del mercato nero. Nei pressi di Barricata, a una decina di minuti in barca dalla zona di pesca, c’è uno dei punti di raccolta. Per arrivarci si oltrepassano delle strutture in legno costruite a ponte, a cui rimangono attaccati diversi filamenti colorati, alla cui estremità si trovano grappoli di pesce mantenuti nell’acqua ad ingrassare. Sono le aree dove vengono mantenuti gli allevamenti di cozze. In una palafitta più grande delle altre, i sacchi di vongole vengono tirati su da un sistema meccanico, dove il pesce viene pesato e il bollettino rilasciato a ciascun pescatore che si reca a far controllare il proprio prodotto. È un via vai di persone e motoscafi che hanno appena terminato la propria giornata di lavoro. Al centro di stabulazione e depurazione, posizionato poco distante sulla terraferma nella zona di Scardovari, delle grandi docce pompano acqua per pulire le vongole, accatastate in enormi casse, per poi essere controllate e selezionate su dei rulli che scorrono ininterrottamente. Sono dei capannoni molto ampi in cui diverse persone si concentrano su ogni passo della lavorazione, come una catena di montaggio a cui lavorano diversi operai. Rimbombano continuamente forti rumori, molto diversi da quelli ascoltati fino a poco tempo prima a bordo della barca. Anche fuori, lungo la strada asfaltata, sembra di essere lontano molti chilometri dalla realtà vista poco prima sulle acque della laguna. Ogni tanto una macchina solitaria corre lungo la banchina, diretta chissà dove, ma non si vedono molte persone in giro.

La comunità dei pescatori segue dei ritmi naturali, è un lavoro molto condizionato dagli eventi e che porta a vivere in maniera diversa ciò che si trova attorno: “nonostante la tecnologia sia andata avanti in aiuto dei pescatori e di coloro che navigano lungo il fiume o nella laguna, il fatto di dover seguire le maree, dover guardare il meteo non sull’applicazione ma direttamente fuori dalla finestra, comporta la presenza costante, non solo mentale ma anche fisica, per il presidio del territorio. Si esce a guardare la barca se è legata bene quando c’è brutto tempo, si esce a guardare le onde quando c’è la burrasca in laguna, si esce ad osservare quello che è il nostro ambiente in maniera costante, senza mediazioni. Tra le altre cose, il fatto che in alcuni periodi, ciclicamente, ci sono delle crisi di produzione nel mondo della vongola, ha portato allo sviluppo di altri tipi di pesca. Oggi abbiamo ad esempio quella del granchio blu, una specie aliena che da una decina d’anni è presente nelle nostre lagune e ha avuto un picco negli ultimi tre o quattro anni, e fa sì che il pescatore sia continuamente stimolato ad imparare cose nuove che possano garantire una giornata migliore in termini sia economici che di lavoro”.

Carlo Salvan, Presidente di Coldiretti Rovigo, è bene a conoscenza delle peculiarità e delle trasformazioni a cui sta andando incontro questa parte terminale del grande fiume: “Fino ad ora il Delta del Po è rimasto un territorio piuttosto incontaminato, e questo è sicuramente una delle caratteristiche che lo differenzia da altre situazioni territoriali e paesaggistiche. Un’economia che è basata essenzialmente sulla presenza di fiorenti attività agricole e legate al mondo della pesca, sia in mare sia di allevamento, di molluschi, cozze e vongole. E a questo si aggiunge una novità arrivata con la pandemia, ossia quella della riscoperta del fascino del Delta in chiave turistica e ambientalista. Una zona che adesso è messa in grossa difficoltà dalle conseguenze del cambiamento climatico: essendo un territorio molto fragile, è il primo che ne risente. Proprio per le sue caratteristiche morfologiche si trova diversi metri sotto il livello del mare, fino ad arrivare a punte tra i meno tre e i meno quattro metri, che fa capire quanto sia particolare il contesto in cui ci troviamo, unico in Italia e probabilmente anche in Europa. Quindi un territorio difficile da conservare, e che sotto il profilo idraulico comporta molto impegno e molte risorse per mantenerlo in sicurezza”.

Giancarlo Mantovani, direttore del Consorzio di Bonifica del Delta del Po, è proprio tra le persone che sono costantemente a lavoro per capire quello di cui ha bisogno il territorio e conservarlo nel migliore dei modi: “Il cuneo salino non è una novità, si nota da parecchi anni, tant’è che già negli anni Ottanta era stato affrontato il problema, e tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta erano state realizzate sul Po delle barriere contro la sua risalita. Queste erano state progettate tenendo conto di una portata poco superiore ai 450 metri cubi al secondo, perché si pensava fosse impossibile che scendesse sotto questa soglia. È talmente vero che l’anno scorso siamo scesi sotto i 100 metri cubi al secondo. Quelle barriere di sale realizzate per una diversa portata sono diventate sostanzialmente trasparenti”. Il fatto che la zona del Delta sia ad un livello più basso di quello del mare e che arrivi a toccare punte di quattro metri e mezzo “innesca oggi una filtrazione di acqua salata che dal fiume va verso l’entroterra, e così la falda in campagna diventa salata. Se questo accade, si innesca un fenomeno di micro desertificazione” spiega Mantovani. “Quindi sicuramente sotto il profilo della produzione agricola ci sono stati danni pesanti sui territori immediatamente vicini, con perdite che possiamo stimare tra il cinquanta e l’ottanta per cento, con punte del cento per cento, ma si sono registrati anche in quelli più lontani dalla fascia costiera, con il cuneo salino che ha raggiunto i 40 chilometri all’interno. Ma oltre alla mancanza d’acqua irrigua bisogna considerare anche un altro aspetto, che è quello della temperatura. Perché non solo abbiamo avuto poche precipitazioni, abbiamo avuto anche temperature molto elevate, e questo ha comportato un forte stress per le piantagioni” approfondisce Salvan.

Nonostante a prima vista possa sembrare un piccolo angolo di paradiso, Niky non è convinto che sia solo una fortuna vivere in un sistema lavorativo come questo: è il motivo per cui da diversi anni porta avanti un’altra attività che lo spinge a vivere il proprio territorio in maniera diversa: “Per me come esseri umani e come esseri sociali ci evolviamo quando riceviamo degli input diversi rispetto alla vita che viviamo, tant’è che porto avanti un’attività di turismo lento non perché ne abbia prettamente bisogno dal punto di vista economico, ma proprio perché ne ho fortemente bisogno dal punto di vista mentale, ho bisogno di essere stimolato, cosa che il mondo della vongola non riesce più a darmi. Da quando ho diciotto anni, ogni anno in maniera un po’ più importante, ho iniziato ad accompagnare le persone a visitare il Delta. Ho una passione anche per il birdwatching e per la fotografia naturalistica, oltre che chiaramente per l’habitat in cui vivo. Cerco di condividere i miei pensieri e quello che vedo con le persone, portandole a conoscere questo territorio. Quando ho iniziato alcuni mi prendevano in giro, mi dicevano ‘ah ma tanto qui non c’è niente. Non siamo mica a Rimini e Riccione!’ Ma in realtà è tutta un’altra cosa”. Il Delta del Po è la zona con la più alta biodiversità d’Italia, ed è la seconda in Europa dopo il delta del Danubio: sono presenti 380 specie di uccelli e 1000 specie di piante. “Ci sono ambienti che cambiano completamente nel giro di pochi chilometri, luci e colori che sono diversi da un giorno all’altro in ogni stagione. Un territorio che si forma e si modifica continuamente con l’apporto di detriti o con l’apporto delle mareggiate. E questo fa sì che pur trovandomi nello stesso posto, tutti i giorni è una cosa diversa. Pullula di vita, i quantitativi che produciamo di cozze e vongole nella Sacca degli Scardovari rappresentano una miniera tra le più produttive al mondo, con 35.000 quintali di cozze e oltre 100.000 di vongole all’anno”. Sono numeri incredibili, che portano queste lagune anche ad essere la più grande realtà di molluschicoltori presenti in Europa. “Ma non si tratta solo del nostro lavoro, le lagune costiere e mediterranee, come produzioni di biodiversità, vengono dopo la barriera corallina e la foresta amazzonica. Se noi prendessimo tutti gli esseri viventi del Delta e li pesassimo, vedremmo che ogni anno c’è un incremento, e questo è dovuto alle peculiari condizioni ambientali e climatiche. La vita stessa sulla Terra nasce nelle pozzanghere. E se posso dire a un turista cos’è per me Delta del Po, è la festa della vita, il fatto di vedere tutte queste cose che crescono, che convivono, che non sono in competizione ma in armonia tra di loro, rappresenta l’essenza fondamentale di questo territorio. E questo mondo che mi circonda, ma che non si accorge nemmeno della mia presenza nonostante il passaggio con la barca, mi crea soddisfazione e mi dà pace”.

Il Delta del Po idrografico, cioè quello che attualmente è diviso in rami, è stato prodotto artificialmente da un grande intervento da parte della Repubblica della Serenissima: di fronte alla crescita dell’apporto sedimentario del Po che minacciava di provocare l’interrimento delle bocche meridionali della laguna, i tecnici veneziani decisero di realizzare tra il 1600 e il 1604 una deviazione chiamata “Taglio di Porto Viro”. In soli quattro anni crearono un canale artificiale che aveva lo scopo di allontanare i detriti da Venezia. Le ultime bonifiche, poi, vennero fatte negli anni Venti, durante il periodo fascista, coinvolgendo le zone più vicine al mare per creare nuovi terreni da coltivare. “Ora noi ci troviamo in una condizione nella quale i cambiamenti climatici esistono e sono evidenti, lo dice la scienza. E naturalmente l’essere umano ha accelerato questo processo, soprattutto distruggendo diversi habitat. Ma la grande problematica legata alla siccità e alla mancanza di acqua, non è tanto la pioggia che è diminuita, ma soprattutto la cattiva gestione delle acque. Abbiamo ancora questa idea positivistica per cui noi dobbiamo fare quello che vogliamo, quando lo vogliamo. Il motivo per il quale ci troviamo sulle nostre tavole le fragole d’inverno. In agricoltura la piantumazione del mais, pianta che richiede un’irrigazione di almeno cinque volte in più all’anno, non è sostenibile per il sistema idrico che abbiamo, eppure è ovunque. La Pianura Padana stessa è sempre stata dedita alla coltivazione degli invernicoli: parliamo di grano, avena, orzo, con il Polesine che ha rappresentato per decenni il granaio d’Italia. Ora non è più così, il grano arriva da altri paesi per motivi commerciali, da dove possono essere utilizzati prodotti come grano OGM o glifosato, mentre qui gli allevamenti intensivi di animali saranno decuplicati in vent’anni. Abbiamo implementato i bacini idroelettrici per la trattenuta dell’acqua a monte, che vengono utilizzati tante volte come delle grandi batterie. E poi ci permettiamo anche il lusso di utilizzare le acque a scopo di innevamento artificiale. Tutto questo ha fatto sì che negli ultimi quindici anni la portata di acqua che arriva alla fine del percorso del Po, nel Delta, sia diminuita di cinque volte. Questo comporta un grave sbalzo dal punto di vista ambientale e problematiche legate anche alla pesca di cozze e vongole: non arrivando più acqua dolce non arrivano più i nutrienti. Quello che un tempo era una laguna salmastra attualmente è una laguna di acqua salata, e in questo preciso momento noi abbiamo dei seri e gravi problemi per quanto riguarda la pesca e l’attività produttiva dell’agricoltura, ma anche per quanto riguarda la distruzione di biodiversità. Gli animali, come le piante, si adattano, si spostano, ma se la velocità di cambiamento dell’habitat è troppo elevato, gli animali e le piante non riescono più ad adattarsi, soccombono e prevalgono specie che sono più adatte a l’antropizzazione”.

Guardando alla storia di questo territorio, per Carlo Salvan “non si è abituati alla penuria d’acqua, ma piuttosto all’eccesso. È un territorio che ha vissuto tra le più significative alluvioni degli ultimi settant’anni di storia di questo Paese. Quindi non siamo soliti all’idea di avere poca acqua a disposizione, almeno fino a qualche anno fa. Adesso invece dobbiamo fare i conti con la possibilità di conoscere non solo la penuria, ma anche l’estremizzazione degli eventi atmosferici, come stiamo vedendo in queste settimane in cui nell’arco di due, tre giorni, possono verificarsi precipitazioni che solitamente avvenivano in tre, quattro, sette mesi” Dopo un lungo periodo di grande siccità, in Emilia Romagna nelle ultime tre settimane si sono scatenate delle piogge torrenziali, che in pochissimi giorni hanno portato sul terreno una quantità d’acqua pari a quella di tre mesi, e poi di sette mesi. Hanno causato quindici vittime e più di ventimila sfollati, ventitré i fiumi esondati e oltre quaranta i comuni coinvolti. Le stime dei danni sono ancora in corso, ma si parla nell’ordine dei miliardi. Dopo il periodo di prolungata siccità, le falde non erano assolutamente in grado di assorbire l’acqua: un altro evento impensabile, che non si credeva potesse accadere con una tale potenza in un tempo così ristretto. Eppure, ancora una volta, l’impensabile si è manifestato. In molti si sono ostinati a parlare di “maltempo”, incapaci di vedere quello che sta accadendo davanti ai nostri occhi in maniera ormai inesorabile. Allo stesso tempo, sempre più persone parlano di riscaldamento globale, di crisi climatica in maniera aperta, cercando di spingere le istituzioni a prendere delle iniziative per opporsi e adattarsi a questa situazione, senza le quali saremo sempre più vulnerabili di fronte all’estremizzazione dei fenomeni atmosferici. “E questo comporta necessariamente un ripensamento delle nostre strutture idrauliche, della nostra capacità di intervento che non può essere frammentata tra una serie innumerevoli di enti ed istituzioni, altrimenti si rischia di creare quella che viene definita la guerra tra poveri. E alla fine ci rimettiamo tutti, e soprattutto ci rimette chi come noi si trova alla fine del percorso dei fiumi, e quindi ovviamente si deve accontentare di quello che gli altri lasciano”. Giancarlo Mantovani racconta che proprio qualche settimana fa il Consorzio di Bonifica ha ricevuto il finanziamento da parte del Ministero delle Infrastrutture per la progettazione di una grande barriera antisale: “ma questi soldi non arrivano per caso, c’è tutto un lavoro dietro. Già da diversi anni, dal 2012 per la precisione, abbiamo cominciato a pensare a delle soluzioni alternative. E abbiamo pianificato la realizzazione di un’unica grande barriera antisale tecnologicamente avanzata, che dovrebbe risolvere molti dei problemi di gran parte del territorio del Delta. Ma non possiamo concentrarci solo su un unico grande progetto. In questi anni abbiamo realizzato molti invasi, e ci siamo concentrati sulle azioni per il risparmio dell’acqua anche nel campo agricolo. Sono opere che richiedono molto tempo, mentre la crisi climatica prende velocità in maniera esponenziale. Bisogna quindi agire su più fronti contemporaneamente ”.

“Io sono personalmente preoccupato per i cambiamenti climatici perché non vedo un approccio scientifico a quelle che sono le tematiche di questo territorio così delicato: si fa tutto per ideologia e non per scienza. Io ho comprato una casa, ma non so se quando finirò di pagare il mutuo sarà ancora fuori dall’acqua. Le previsioni sono già che il mare si alzerà e se lo Stato non farà interventi al riguardo, se la siccità continuerà in maniera sempre più cronica e non farà sviluppare economicamente questo territorio, credo che ad un certo punto come collettività si rinuncerà a lavorare qui, il Delta verrà abbandonato e si renderà fruibile solo da un punto di vista turistico”. Rientrando dalla consegna delle vongole, costeggiando la parte ad Ovest della Sacca degli Scardovari, si incontrano tanti altri pescatori e allevatori solitari che lavorano nelle proprie zone di competenza. Niky a volte ferma la propria barca per parlare con loro, tutti si conoscono. “Forse la vita dell’essere umano è troppo breve per capire realmente i cambiamenti climatici in atto. C’è un motivo psicologico, un motivo culturale, ci sono un sacco di cose. Non ci si rende conto che il mare e il mondo stanno cambiando. Io me ne sto rendendo conto adesso, ma la generazione prima di me non vede che il livello delle acque sta aumentando, perché non è tangibile, e fino a quando la propria casa non viene allagata non ci si pensa. Quando invece tu vedi queste cose e le tocchi con mano, irreversibilmente, la domanda è: a cosa siamo disposti a rinunciare? Perché tutto non lo possiamo avere. Io credo che ci troviamo ad un bivio, culturale, economico, gestionale. Se continuiamo a ragionare sulla base dei numeri, questo territorio andrà perso. Se invece ragioniamo in base a una visione più ampia, allora secondo me verrà salvata, protetta e salvaguardata”. Tornando nel Po di Gnocca si entra in un triangolo di laguna particolare, chiamato Modello Bacucco: ci si avvicina lentamente ad un vecchio scheletro di mattoni che esce dall’acqua come un grande elefante dalle gambe sottili e la pancia gonfia, un magazzino del riso abbandonato da tempo che sembra nascondere vecchie anime del posto. È lungo la via che porta verso il mare, e ad ogni metro percorso il paesaggio diventa ancora più suggestivo, finché la barca non si ferma e si scende con i piedi sulla spiaggia, a guardare le onde che ripetutamente si gettano con forza contro la sabbia. “Camminando la linea d’orizzonte ti dice sempre che tu sei disperso in un punto qualsiasi sulla linea della terra, come le cose che si vedono in distanza. Bisogna cercare un altro punto con cui fare asse, e immaginare che ci si arriverà una volta o l’altra. Bisogna sempre riuscire a immaginare quello che c’è là fuori, altrimenti non si potrebbe fare un solo passo”. Anche lì, al termine di questo viaggio lungo 653 chilometri, cercare un punto con cui fare asse è tremendamente difficile, mentre quella linea d’orizzonte è sempre più lontana. Con la mente si torna alla neve delle Alpi, a tutte le persone incontrate lungo il cammino fino a questo angolo di mondo che si nasconde sotto il mare. E l’esigenza di cercare una comprensione più profonda è ancora più urgente di quando si è partiti.