Con Il Grande Re di Cecilia Fasciani, il lavoro inedito scelto nel 2022 dalle giurie dei pitching di Meglio di un romanzo per essere sviluppato sul sito di Festivaletteratura e sulla rivista Q Code Magazine, navigheremo lungo il corso del Po fino alla tarda primavera del 2023, attraversando quattro regioni italiane alla scoperta delle realtà che vivono oggi sugli argini del grande fiume. Sarà un viaggio in cinque puntate, dalle terre alte al delta, tra memorie d’acqua, crisi ambientali e storie di adattamento. Nel primo, nel secondo e nel terzo episodio ci siamo mossi dal Monviso fino a Felonica e alle zone di confine tra Emilia e Lombardia; nella quarta puntata proseguiamo alla volta di Boretto, un piccolo comune della provincia di Reggio Emilia ben noto ai meatori del Po, gli addetti al controllo dei livelli di profondità e dei movimenti del Grande Re, che da decenni sono anche i principali testimoni delle sue precarie condizioni di salute.
SICCITÀ
di Cecilia Fasciani
Nell’Archivio Centrale di Stato il documento più antico in cui si può leggere la parola “meatore” risale al 1863: “Stabilimento e mantenimento di un meatore al porto di Primaro per segnalare ai bastimenti mercantili i punti di approdo”. Primaro, nei pressi di Ravenna, si trova poco più a sud dei rami del delta del grande fiume. Una tradizione molto antica, che trova riconoscimento nei primissimi anni della neonata Repubblica. In latino meatus significa moto, andamento, un canale ristretto e difficile. Oggi i meatori sul fiume Po esercitano la loro funzione alle dipendenze dell’AIPo, l’Agenzia Interregionale, e sono distribuiti sui nove tronconi in cui è diviso il fiume. Sono circa una ventina quelli che navigano ogni giorno le sue acque. Per chi abita nei pressi del Po rappresentano un’istituzione fluviale, ma è una tradizione poco conosciuta al di fuori di queste comunità. In passato, almeno fino alla fine degli anni Sessanta, il lavoro dei meatori era particolarmente faticoso, i mezzi e le attrezzature utilizzate erano limitati e poco tecnologici, poco conformi alla complessità delle varie mansioni svolte. A quei tempi, infatti, i meatori percorrevano il fiume a remi con una barca di legno senza copertura, continuamente esposti agli agenti atmosferici, anche in condizioni meteo sfavorevoli. La cultura fluviale che si respira nella sede dell’Agenzia, a Boretto, una cittadina di circa cinquemila abitanti in provincia di Reggio Emilia, traspira da ogni dettaglio, da ogni persona che ci lavora. Gli edifici sorgono a pochi metri dal fiume, sono di un mattone rossiccio che ricorda vecchie fabbriche con il fumo che esce lentamente dai camini.
“Questo era tutto il cantiere, le prime costruzioni sono iniziate nel 1921. C’erano tutti i reparti, ci lavoravano più di 350 persone. Adesso siamo rimasti in venti, più i ragazzi fuori sul fiume”: Rita Panisi fa parte della Direzione dell’area Navigazione interna di AIPo, il fiume è parte integrante della storia della sua famiglia. “In queste officine, oltre a fare servizio sul Po, costruivano le imbarcazioni, c’era il reparto di falegnameria, la verniciatura, la carpenteria, tutti i segnali che vedi sul fiume venivano fatti internamente, tutti gli scafi in legno erano costruiti qui. Erano lavorazioni pesanti, vedi queste rotaie: portavano il materiale da un reparto all’altro su dei carrelli. Era un gran viavai di gente insomma, era una cosa molto importante. Poi il restauro è stato pensato per ricordare questa storia”. Boretto non è molto distante da Parma, dove è stato fondato il primo nucleo del Magistrato del Po, organo di amministrazione per la programmazione, esecuzione e gestione delle opere di difesa del bacino nella sua interezza. Ma è anche baricentrico rispetto all’asse del Po: “ho dei colleghi che lavorano nel Rovigotto, arrivano quasi fino al mare, e gli altri sono oltre Isola Serafini, quindi su un po’ prima del Ticino, sono parecchi chilometri”. Al centro delle officine restaurate c’è un grande spiazzo di erba su cui poggia un’enorme draga a secchia, arrugginita dal tempo, leggermente inclinata verso le acque del fiume. È un’imbarcazione del 1933 e ha funzionato fino agli inizi anni Settanta, con una caldaia a vapore e un equipaggio di sei persone. Camminando fino al bordo dell’argine sud, si scoprono le scale di ferro che conducono alle imbarcazioni dei meatori, sulle acque del fiume.
Maurizio e Fabio lavorano in coppia, come da tradizione di questo lavoro. Si dice che i meatori siano persone di poche parole, più concentrate sul da farsi e sugli strumenti di navigazione. Eppure, una volta partiti sul motoscafo per il controllo giornaliero, sono molte le cose che raccontano, che indicano sulla superficie delle acque e nei pressi degli argini della rotta. “Sono circa 35 chilometri, forse qualcosa in più: partiamo da Pier di Saliceto e andiamo fino a Torricella Parmense, noi abbiamo il tronco tutto a monte. Le postazioni sono posizionate in virtù di dove sono state assunte le persone un tempo, o dove ci sono presidi un po’ più adatti per poter ormeggiare le darsene. Questo lavoro fa parte del fiume”: Fabio, alla guida dell’imbarcazione, è la persona che da più anni svolge questa mansione, da una vita il fiume fa parte delle sue giornate, per controllare il suo tratto di competenza. “Non ci si ferma se c’è il sole, vento, pioggia, neve. Si esce comunque, ogni mattina. I cartelli romboidali che vedi sulla sponda erano di legno, pesantissimi, molto ingombranti da muovere rispetto ad oggi. Al posto delle boe d’alveo si posizionavano delle bandierine di colore rosso e bianco, con delle paline di legno fissate sul fondo del fiume quando le condizioni idrometriche del Po lo permettevano.”
Mentre Fabio controlla sugli schermi i dati che passano sui vari monitor e il motoscafo rallenta, Maurizio è fuori dalla cabina, sul piccolo ponticello, chinato sul fiume sistema una boa secondo i parametri che vengono analizzati quel giorno. Il sole picchia e rimbalza sulle acque, mentre un forte vento fa svolazzare continuamente la piccola bandiera posta sopra la cabina. Degli aironi prendono il volo lungo la sponda, aleggiando radenti alla superficie del fiume. I due meatori comunicano tra loro molte cose, più a gesti che a voce, sovrastata dal rumore dei motori. Poi Maurizio prende in mano una lunga asta graduata, per inserirla a più intervalli nelle acque del fiume, mentre la barca riprende la rotta. Ancora oggi, il rilevamento dei fondali viene effettuato anche a mano: “abbiamo dei sistemi di rilevamento georeferenziato dei fondali molto efficienti, la profondità viene rilevata attraverso un ecoscandaglio che si interfaccia su una carta elettronica del fiume Po, ma bisogna sempre controllare anche in questo modo, ci dà la certezza assoluta e un riscontro immediato, per verificare i fondali e individuare il canale navigabile, il passaggio con la maggior profondità, che poi delimitiamo attraverso una particolare segnaletica di sponda e d’alveo”. I dati vengono comunicati alla sede centrale, che li usa per redigere il bollettino quotidiano della navigazione che tutti i natanti utilizzano per poter navigare sul Po. I numeri sulla profondità vengono scritti anche su un registro cartaceo presente a bordo, e si può notare che sono sempre più piccoli. “Il Po è un fiume mobile, sempre vivo, si sposta ogni giorno, e ogni giorno il letto del fiume cambia in base alle correnti. Le masse di sabbia sul fondo si spostano, e così serve rifare ogni giorno la geografia del fondale. Per dare indicazione ai natanti di dove è più sicuro passare e trovare la corrente giusta spostiamo i segnali a riva in base a come si sposta il canale navigabile”. È evidente a loro e a chi legge il bollettino in questo periodo che in molti tratti il fiume anche quest’anno non sarà navigabile. Quello che colpisce, oltre alla ridotta portata del fiume, è la bellezza del viaggio sopra queste acque, della conoscenza profonda di chi le naviga e le racconta come fossero un amico di vecchia data. “L’Italia si è dimenticata di essere una Repubblica marinara”, è la considerazione con cui rientrano a terra.
“La cultura fluviale secondo me si è persa tanto, mi ricordo da piccola io facevo il bagno con mio nonno, mi portava a Po e intanto lui pescava, su queste lingue di sabbia era pieno di gente, di pescatori, di bambini che facevano il bagno o prendevano il sole con le mamme, persone che passavano con le barche, tutte le bettoline del gas. C’erano traffici legati anche ad attività commerciali di un certo spessore”. Poi nel tempo le cose sono cambiate: “Adesso non c’è più niente, non vedi quasi nessuno, rimane questo nucleo che secondo me è molto importante, perché anche i colleghi fuori hanno tantissima esperienza e prima di andare in pensione dovrebbero riuscire a trasmettere quello che sanno ai nuovi ragazzi e ragazze che verranno a fare i meatori o dragatori. Perché certe cose non te le insegna la scuola nautica, soprattutto in merito alla cultura fluviale”. Dentro gli uffici dell’Agenzia le foto d’epoca appese alle pareti mostrano diversi momenti di vita sul fiume, tra cui delle vecchie barche in legno su cui due uomini tengono in mano dei remi e un lungo bastone di metallo. Al piano terra c’è una grande sala zeppa di libri, di tesi di laurea, documenti e foto antiche, vecchie cartine, tutta letteratura legata al grande fiume. È anche un archivio, dedicato all’ingegnere idraulico Gabriele Della Luna, tra i migliori del secolo scorso, morto una ventina d’anni fa: “Gabriele veniva spesso qua a lavorare con noi. E suo figlio ci ha lasciato buona parte del suo archivio. Quindi con i suoi appunti, lettere, libri, è stata fatta una parte di inventario. Però col fatto che qui viene dentro l’acqua ogni tanto, tira su, tira giù, facciamo più fatica”. Sull’unica parete spoglia di libri si può vedere il livello dell’acqua dell’ultima inondazione: a circa un metro e mezzo da terra c’è una netta linea di pitturato, dove hanno riverniciato l’ultima volta. “Fino a una decina d’anni fa noi avevamo tanta acqua così. In primavera ma soprattutto in autunno, che è sempre stato micidiale, il Po cresce tantissimo. Dopodiché di piene così importanti non ce ne sono più state. Ogni volta portavamo tutto su, aspettavamo che l’acqua andasse via, non puoi far altro, e poi pulisci. Però qui, insomma, siamo abituati, le piene sono una cosa storica, che ci appartiene”. Guardandolo il fiume dalla finestra, si fa fatica a immaginare le piene di cui raccontano. “I miei genitori abitano a Guastalla, che è un comune poco distante da qui, in una casa a cui sono state fatte varie ristrutturazioni. Una volta è venuto giù un pezzo di muro in cortile, e sulla parete che si è scoperta abbiamo visto segnate le date con i livelli dell’acqua, dal 1700. E questo accade un po’ in tutti i paesi, anche se adesso un po’ meno, ma per chi abita vicino a elementi naturali di questo tipo, che quando vanno in emergenza generano veramente delle conseguenze che segnano il territorio, ce l’hai nel dna. Tant’è vero che quando avvenivano le grandi piene c’era la processione delle persone che andava ad assistere al fiume. Ti scambi modi di dire, le sensazioni anche: quando senti il rumore del Po che batte contro gli argini, di notte, quel rimbombo che arriva fin dove sei e dici ‘mah, speriamo che tengano..’ È un rumore che non ti dimentichi più.”
Accanto all’ufficio di Rita Panisi c’è quello dell’Ingegnere Alessio Picarelli, dirigente del settore Area Navigazione, un uomo che esprime una conoscenza storica, sociale e culturale molto profonda rispetto a tutto ciò che riguarda il grande fiume. Oggi, con i fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, la sua scommessa di una relazione diversa possibile con il Po potrebbe trasformarsi in un’operazione concreta. “Ma i progetti del PNRR non nascono da ieri, è una storia che parte da lontano”. Nel 2000 arriva la direttiva europea numero 60, secondo cui i paesi membri devono necessariamente attuare progetti per recuperare la qualità dei fiumi europei, e raggiungere un buono stato entro il 2015: “alla scadenza il Po raggiungeva il 50%. La parte relativa alla depurazione era abbastanza in linea, perché il sistema della raccolta e della depurazione degli scarichi si è consolidato, e anche di quantità ce n’era abbastanza, allora; ma il recupero morfologico e ambientale dei corsi d’acqua invece era molto carente, e lo è tutt’ora”. La direttiva 2000/60 infatti non riguardava solo lo stato chimico, ma anche quello ecologico del fiume: animali, piante, condizioni morfologiche. “Il PNRR vuole andare a sanare proprio questo: improvvisamente, in due anni, si è passati da 0 a 386 milioni”. Picarelli conosce bene come il Po è stato trasformato negli ultimi decenni, e che cosa questo abbia comportato per il suo benessere, aggravando lo stato di salute del fiume ben prima della siccità. “Durante gli anni Settanta è stato innescato un abbassamento consistente dell’alveo del fiume, per l’estrazione della sabbia, mentre sono state fatte opere di restringimento per la navigazione del fiume, o sbarramenti come quello dell’Isola Serafini. Quindi anche se la portata complessiva del fiume resta uguale, in alcuni punti diminuisce: si parla anche di cinque metri di differenza. Sono tutte aree che in questo modo si sono perse con conseguente perdita della biodiversità. Quindi le opere idrauliche per strutturare le curve di navigazione sono diventate insormontabili, i progetti del PNRR vanno ad abbassarle, e scavare zone umide”. Un concetto che sta molto a cuore all’ingegnere è quello di servizi ecosistemici, che definisce i benefici immensi forniti dagli ecosistemi al genere umano, dal supporto alla vita alla regolazione del clima e delle maree, fino ai valori culturali che portano con sé. “Sono dei servizi che non possono essere riprodotti, se non attraverso la natura, il loro valore economico è incalcolato e incalcolabile. Per il Po, ad esempio, questo valore sarebbe infinito”. In questo orizzonte nasce il fascicolo Man and the Biosphere Program dell’UNESCO, della riserva Po Grande: “è un patto da strutturare tra il fiume e le popolazioni che lo abitano, per ridare al fiume tutto quello che è suo e che gli abbiamo sottratto in questi decenni di sviluppo incontrollato. Dal Secondo dopoguerra in avanti c’è stata una vera e propria depredazione delle sue acque: l’obiettivo oggi è cercare di far tornare il Po come era prima, pescoso e balneabile”.
Partendo da una piccola comunità di comuni del parmense, la Mab è diventato un progetto lungo 150 chilometri che ha raggruppato 83 comuni, dalla provincia di Lodi fino al mantovano e anche alcuni comuni del Veneto. Questa lunga striscia di terra ha un unico comune denominatore, il fiume Po: “questa cosa ci ha permesso davvero di sviscerare molti temi, però dal punto di vista di chi il fiume lo conosce, lo ama e lo vive dall’interno, e sono fondamentalmente i fattori storico-culturali che fanno la differenza. È il fiume Po nella sua storia che unisce queste popolazioni da sempre, e ad essere determinante su tutto, dai materiali di costruzione all’orientamento degli edifici, all’agricoltura. Un’agricoltura che ovviamente ha potuto beneficiare non solo dell’acqua, ma di terreni estremamente fertili, producendo di più di quello che era il bisogno locale, creando un surplus di ricchezza e favorendo lo scambio di merci. Il Po, come tutti i grandi fiumi fino a quando non sono nate le ferrovie in Italia era l’unica via di comunicazione importante, c’era tutto un fiorire di città mercantili. Poi c’è la gastronomia: è venuto fuori che da Torino fino al Delta esiste la cosiddetta pasta ripiena, ma ha cinque, sei, sette nomi, forni e ripieni diversi, modi di cucinare diversi. Quindi di fatto c’è un comune denominatore, ma poi si ha una varietà enorme, e questa è un po’ la caratteristica del Po, che unisce ma genera delle differenze locali che fanno la ricchezza del territorio. Poi, ovviamente, fino all’unità d’Italia era un confine di Stato, significava anche dialetti molto diversificati, nonostante in linea d’aria si tratti di pochi chilometri. Anche se il principale comune denominatore per le popolazioni che lo abitano è la solidarietà nei momenti di emergenza delle piene: una delle prime cose che succede quando si incontrano persone che abitano sul Po, ma che non si sono mai viste, è evocare l’ultima piena. E diciamo che questo comune sentire rende più facile condividere un progetto come quello della Mab Unesco, per rendere sostenibile nel tempo l’interazione tra l’umano e quegli ambienti che hanno ancora un ampio margine di naturalità conservata”. Nel fiume Po, nonostante il maltrattamento subito, i livelli di biodiversità sono ancora molto elevati, diversamente dal resto della pianura dove sono stati banalizzati dall’agricoltura intensiva.
“La scommessa della Mab Unesco è questa, di conciliare le cose. La vera questione è come fare a rendere sostenibile l’esistenza di queste popolazioni rispetto al fiume, non viceversa. Neanche a farlo apposta, con il nuovo progetto del PNRR arrivano in modo insperato dei finanziamenti che vanno proprio a ricostruire quegli habitat che si sono persi negli ultimi anni, e che ridaranno ancora maggior valore a quella che è la quota di biodiversità che è già presente nel fiume. Mentre una volta questi progetti potevano sembrare calati dall’alto, oggi la comunità rivierasca te lo chiede, li vorrebbe, perché sopravvive il ricordo di un fiume che poi si è perso. Gli obiettivi della Mab devono essere condivisi in modo che tutti i cittadini ci si riconoscano, altrimenti tutto questo diventa solo un esercizio”. C’è molto da lavorare, ne sono ben consapevoli negli uffici di AIPo, confrontandosi spesso su come riuscire a raggiungere le comunità: “soprattutto con le persone di una certa età, come possono essere i miei genitori, ma non solo. Insomma, loro sono vissuti sul Po, ma non sanno cos’è la Mab però sanno benissimo cos’è il fiume. Mio padre anche se ha quasi 80 anni prende la barca, e il suo obiettivo estivo è di andare fino al mare, passare dal Veneto, da Ferrara, perché riconosce persone come lui, con questa passione, come se fosse un gemellaggio di anime. Questo che genera è la cosa più profonda. L’obiettivo della Mab è quello di autotutelare il territorio”.
Venti chilometri a sud-ovest di Boretto si trova un grande palazzo, strutturato su più piani, che risente ancora in maniera evidente dell’impostazione razionalista dell’architettura del Ventennio, nonostante sia stato ricostruito dopo la Seconda Guerra Mondiale: il cantiere, avviato nel 1947, fu ultimato nel 1956, e lì si insediò il neonato Magistrato per il Po, preposto al coordinamento idraulico del bacino padano. È stato chiamato, il Palazzo delle Acque, e si trova a Parma, dove un tempo vi erano mura e bastioni a difesa della città. Oggi ospita le Agenzie a cui compete la governance del Grande fiume e del bacino padano. In questi mesi, in ogni piano del palazzo è stata allestita una sezione diversa della mostra “Le forze delle acque. Governare il Grande fiume: mito, identità, strumenti”. Un percorso molto lungo tra strumentazioni antiche, documenti, foto d’epoca, e collezioni di cartografie, distribuite tra gli uffici delle Agenzie, dove curiosi cittadini si mescolano agli impiegati e ai dirigenti. Al centro dell’esibizione è evidente il rapporto costitutivo che questa zona del Paese ha con l’acqua del fiume Po, e si rimane incantati dalla portata della cultura che è cresciuta intorno al grande re. È in questi corridoi che ha sede anche l’Autorità di Bacino distrettuale del fiume Po, che ormai da tempo ha all’ordine del giorno il tema siccità. “L’Autorità di bacino nasce con la legge 183 del 1989: una legge partorita in uno spazio temporale abbastanza importante, perché è figlia delle grandi alluvioni del Polesine del 1951, poi di Firenze negli anni Settanta. E proprio queste grandi alluvioni che hanno interessato l’Italia nel primo dopoguerra avevano evidenziato la necessità di una gestione delle acque diversa, con un ente che riuscisse a mettere insieme le politiche nazionali con le politiche regionali”: Andrea Colombo, Dirigente del settore tecnico tra le persone che lavorano a stretto contatto con il segretario generale, è tra i massimi esperti della situazione del fiume. “Forse nel panorama italiano il nostro è l’unico ente misto Stato-Regioni, la nostra conferenza istituzionale è presieduta dal ministero dell’Ambiente e dai presidenti delle Regioni, gli atti che delibera l’Autorità di bacino sono atti deliberati dal ministro e dai presidenti delle Regioni. È nata con un po’ di ritardo, se si considera che la piena operatività è arrivata nel 2017”. Le tematiche delle quali si occupa il Distretto vanno dalla gestione del rischio idraulico e idrogeologico, alla gestione della risorsa idrica e la sua qualità. Su questi tre argomenti l’Autorità di bacino ha compiti di pianificazione, a cui si lega il tema cruciale dell’aggiornamento delle conoscenze: “Una componente essenziale del nostro lavoro è infatti quello dell’aggiornamento del quadro conoscitivo. Poi si realizzano anche interventi, opere. Il tema dei cambiamenti climatici è chiaramente centrale in tutto questo, abbiamo a che fare con un clima che è cambiato e che cambierà anche in futuro. Ma in merito alle tempistiche bisogna prima di tutto costruire un piano di lungo periodo, perché altrimenti si rischia di correre dietro l’emergenza, e costruire opere più distruttive che proficue. Anche sul tempo reale, legato alla scarsità della risorsa, l’Autorità di bacino ha un ruolo importante perché coordina l’Osservatorio permanente sulle crisi idriche”.
Il “Synthesis Report” (AR6) pubblicato il 20 marzo 2023 dall’IPCC, il panel intergovernativo di scienziati ed esperti di tutto il mondo istituito nel 1988 per studiare il clima e informare scientificamente le decisioni politiche internazionali sul cambiamento climatico, raccoglie i passaggi chiave di tutti i lavori precedenti. Considerato che il prossimo rapporto dell’IPCC non arriverà prima del 2030, l’AR6 è di fatto la guida scientifica che dovrà guidare la transizione energetica in questo decennio, cruciale per tutta la comunità internazionale e il pianeta. Nel rapporto viene dimostrata ancora una volta la devastazione che è già stata inflitta a vaste aree del mondo, e le condizioni meteorologiche estreme causate dai cambiamenti climatici. Anche il Distretto del fiume Po è stato incluso nelle aree europee continentali che subiranno un incremento dei fenomeni idrometeorologici estremi, con un mutamento del regime piovoso e un alto grado di incertezza previsionale, e una conseguente incapacità di determinare gli sviluppi futuri del clima.
“Noi siamo stati in criticità rossa nei mesi estivi, la scorsa estate, mentre da metà settembre 2022 siamo passati in criticità media, arancione, lo siamo stati per tutto l’inverno e lo siamo tutt’ora, proprio perché quel deficit idrico rispetto alle piogge cadute, alla portata dei fiumi, all’invaso nei laghi idroelettrici alpini e soprattutto nei grandi laghi, dal Lago Maggiore al lago di Como, Iseo, Idro e Garda, che hanno sempre rivestito un ruolo fondamentale per il sostegno alle magre durante le stagioni estive, e ad oggi purtroppo abbiamo delle percentuali di riempimento dei grandi Laghi attorno al 20-30%. Lo scorso anno sul Lago Maggiore e sul lago di Como siamo arrivati a zero, nel senso che il livello di regolazione del lago era al limite, tanto che sono stati chiusi e in questo momento passa solo la quota riservata al deflusso ecologico, proprio per cercare di riempirli il più possibile, cosa che però non è facile. Quindi la situazione è critica in relazione soprattutto a questo deficit che accumuliamo dallo scorso anno in termini di precipitazione, di riempimento dei laghi e di acque sotterranee. E questo è un dato molto importante, perché lo scorso anno, per sopperire alle carenze di acqua superficiale, abbiamo prelevato di più, e la falda ha bisogno di tempi più lunghi per ricaricarsi. Quindi anche i monitoraggi delle Arpa in merito sono abbastanza preoccupanti”. A Pontelagoscuro c’è la sezione del Distretto dove si monitorano da più di 200 anni tutti i dati di portata del Po: a luglio dello scorso anno è stata raggiunta una portata di poco più di 100 metri cubi al secondo, contro una portata obiettivo, per garantire gli utilizzi anche irrigui e idropotabili, di 450 metri cubi al secondo: non era mai successo prima. “Anche adesso è a meno di un quarto della portata obiettivo, siamo a dei livelli che lo scorso anno vennero toccati a giugno. Questo ha provocato la risalita dell’acqua salata nei rami del Delta fino a circa 40 chilometri, e anche questo mai successo, con danni ambientali legati all’impossibilità di prelievo per l’agricoltura, ma anche per l’idropotabile”.
Secondo Picarelli, il problema della mala gestione delle acque da parte della produzione agricola è centrale: “il fatto che il territorio lombardo soprattutto abbia avuto questa abbondanza di acqua dovuta all’idroelettrico che stoccava l’acqua in montagna, e ai grandi laghi che la regolavano, ha fatto sì che anziché introdurre politiche di parsimonia, ha prevalso l’utilizzo dell’acqua senza troppa attenzione. Oggi, la siccità ci pone davanti a quello che sembra un muro insormontabile, ma la direzione non può essere quella di continuare a creare protesi lungo il fiume, ovunque ci venga in mente. Questi 360 milioni pongono una questione importante, ossia che li devi utilizzare per mantenere il fiume com’è, e migliorarlo. Non lo vai a bacinizzare, perché altrimenti quei soldi non te li danno: se ti finanziano per riqualificare morfologicamente un fiume, e poi lo sbarri con altre dighe, è inutile che io ti dia dei soldi se poi dopo gli fai le protesi. O fai la fisioterapia o fai le protesi, che rendono magari vana la riabilitazione. Siamo a un bivio, o si svolta da una parte, o dall’altra. Adesso noi abbiamo intrapreso una strada coraggiosa che è quella della riqualificazione del fiume”. È sempre una questione della scala dimensionale con cui si valutano gli effetti di un’azione: tutte le volte che si trattiene l’acqua da qualche parte si genera un problema a valle: “l’acqua del Po non finisce in Lombardia, e nemmeno al Delta, ma va nel mare Adriatico, che non è trascurabile dal punto di vista ambientale, ma ha delle caratteristiche particolari che dipendono fondamentalmente dal basso tenore di salinità, che dipende dal fatto che un mare fondamentalmente semichiuso, e il Po è il maggiore tributario di acqua dolce che va al mare, insieme a tutta una serie di nutrienti. Se tu dovessi separare il fiume, probabilmente faresti la felicità di alcune aree agricole del Po, ma metti anche in discussione l’habitat del mare Adriatico, che non è un mare italiano, è un mare europeo”. Quali sono quindi le azioni possibili? Anche secondo Colombo, “il risparmio dell’acqua. Anche in agricoltura, bisogna andare verso colture meno idroesigenti, con una diversa consapevolezza dell’utilizzo in un clima che cambia. E cercare di garantire un equilibrio a scala di distretti, perché chiaramente ci sono conflitti tra i diversi usi, irriguo, idroelettrico, idropotabile, ma anche tra i diversi territori di Monte e di Valle che noi dobbiamo governare. E poi il riutilizzo delle acque dei depuratori che vanno in buona parte perse, potenziare gli invasi e riparare anche le reti di colabrodo. Ma ci serve una visione di lungo periodo, non possiamo pensare di correre dietro l’emergenza ogni volta. C’è bisogno di un grande progetto di adattamento”. A tal proposito, guardando al modello Emiliano, Picarelli evidenzia come “la stessa agricoltura la fai con un decimo dell’acqua che usi per quella lombarda: i volumi sono undici volte quelli che l’Emilia Romagna utilizza, e la produzione agricola dal punto di vista del valore economico è pari. Questo vuol dire che per fortuna noi abbiamo ancora un grande margine di manovra, prima di issare bandiera bianca e arrenderci alla siccità. Però questa cosa qua richiede ovviamente degli investimenti e degli sforzi importanti. E anche un principio di solidarietà: chi ha tanta acqua deve cominciare a metterla a disposizione anche a chi ne ha di meno”.
Nella prima parte del romanzo di José Saramago, Cecità, scritto nel 1995, l’autore mostra i diversi modi in cui la cecità viene accolta, quando si manifesta, dalla sventura alla punizione divina, all’inevitabilità del destino. Nel dipingere i suoi personaggi e mostrando così le sfumature psicologiche e sociali che li contraddistinguono, uno dei temi fondamentali che emerge dal romanzo è quello dell’indifferenza, già presente prima del dilagare della cecità, ma che la malattia rende evidente. Anche lo scrittore indiano Amitav Ghosh attraverso il suo saggio “La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile” nomina e rende palese l’incapacità di un vedere reale della nostra cultura. “Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi che, pur vedendo, non vedono”, dice così la moglie del medico di Saramago. Alcune persone che abitano lungo il Po hanno invece occhi ben aperti, e sanno da dove si può ripartire, da una cultura fluviale ricca di memoria, che può aiutare la società a capire come relazionarsi in maniera diversa con le acque del fiume, ricordandosi di quelle persone su delle barche di legno, con i mano i remi e i bollettini da compilare, che è un po’ come se non fossero mai scese.