Il sequestro di Pascal Sleiman e la rappresaglia dei cristiani libanesi contro i rifugiati siriani: come la storia del Libano, quarantanove anni dopo, si ripete
Anniversario insanguinato, il 13 aprile, quarantanove anni fa. Ain el-Remmaneh, 1975, un autobus di passaggio con a bordo guerriglieri del Fronte Arabo di Liberazione e rifugiati palestinesi di ritorno da un matrimonio e diretti al campo profughi di Tel al-Zaatar, crivellato dai falangisti del partito Kataeb. Tutti i ventisette passeggeri, tranne l’autista, morirono sul colpo. Poche ore prima, quattro cristiani erano stati assassinati davanti a una chiesa vicina mentre celebravano un battesimo, nel tentativo fallito di omicidio del leader falangista Pierre Gemayel. Quel giorno – una domenica – segnò l’inizio della quindicennale guerra civile libanese.
Quello che oggi, in una storia contestata, non condivisa e ancora in gran parte orale dunque faziosa, consideriamo la cesura, l’atto di inizio, il giorno infausto da maledire nel ricordare ciò che è andato distrutto – 150,000 morti -, perduto – 17,500 desaparecidos -, andato – più di un milione di sfollati -, altro non fu che casus belli per l’esplosione di tensioni settarie ed economiche preesistenti.
Le guerre, specialmente se fratricide, non scoppiano mai da un momento all’altro, né per casi episodici, eventi isolati: ma dalla sedimentazione di antiche alleanze e antipatie, palinsesto di rancori storici, crisi economiche, collisioni sociali. Casus belli – goccia simbolica per cui trabocca il vaso ricolmo di odio.
Un’altra domenica di aprile – un cinquantennio più tardi: Kharbed, distretto di Jbeil, Pascal Sleiman, coordinatore delle Forze Libanesi, stava rientrando dal funerale di un parente. Sarà un caso che tutte le date simboliche, nella storia tormentata e ferita di questo piccolo paese, abbiano a che fare con la celebrazione di un rito religioso che celebri la nascita, l’amore o la morte di qualcuno. Ucciso nel tentativo di furto della sua auto, il cadavere non sarebbe stato ritrovato prima del giorno seguente, l’8 aprile, oltreconfine: nel distretto di Homs.Le autorità libanesi hanno arrestato sette siriani sospettati di essere coinvolti nell’omicidio, tra cui quattro persone che secondo l’esercito sarebbero gli stessi rapitori. Secondo la versione ufficiale, apparterrebbero ad un gruppo specializzato in furti d’auto tra Libano e Siria, di cui fanno parte cittadini di entrambi i paesi. La risposta, tuttavia, è stata connotata etnicamente: prevedibilmente anti-siriana. I residenti libanesi in aree prevalentemente cristiane hanno tentato di imporre un coprifuoco ai siriani per costringerli ad andarsene, fissando a venerdì la data di scadenza per i minacciati sgomberi di massa, previa fuga. Pericolose reazioni intimidatorie si sono diffuse dentro e fuori Beirut, Tabarja e Byblos, dove parte della violenza è stata catturata in video ampiamente condivisi sui social media, che mostrano i rifugiati aggrediti in strade casuali o sottoposti a pubblica umiliazione da gruppi di uomini non identificati.
In the village of Tabarja in Lebanon, a Syrian refugee is subjected to a brutal assault by criminals. The Syrian refugee had returned from his work as a daily laborer, eagerly awaited by his children to bring them some gifts for Eid al-Fitr. However, he returned with his body… pic.twitter.com/9v8O9AcKsp
— Hasan Jneed (@Hasan_Jneed) April 10, 2024
L’Eid al-Fitr, la festa di fine del mese di Ramadan, per un siriano in Libano, ha voluto dire, quest’anno: nascondersi. Trasferirsi in un quartiere più sicuro, rimandare i festeggiamenti. Per raggiungere la casa di un familiare o di un amico – prendere stradine e vicoli bui, scongiurando di non imbattersi in nessuno.
C’è da domandarsi se tra qualche decennio, gli sviluppi concitati del giorno della scomparsa di Pascal Sleiman, la fotografia delle reazioni dei leader locali – nell’assenza di altro tipo di informazione, fresca, almeno nelle prime battute – assumeranno la sembianza di una pagina di storia a cui guardare quando ci chiederemo del casus belli dell’ennesimo conflitto latente esploso tra le mani di cittadini inferociti, di rifugiati impotenti, di criminali – forse – inconsapevoli. Almeno fino a prova contraria. Se al sequestro e assassinio di Pascal Sleiman finiremo per guardare come all’incidente-massacro di Ain el-Rammaneh, l’autobus del 13 aprile 1975, o al 12 luglio 2006, i razzi di Hezbollah su Zar’it e Shlomi, la cattura di Ehud Goldwasser e Eldav Regev, i due soldati israeliani tratti come ostaggi e restituiti morti. Perché non c’è modo di stabilire quale prezzo sia adeguato da pagare in guerra, e quale, invece, troppo alto. Non è questa la domanda che da osservatori non partecipanti di un’epoca dobbiamo porci.
Responsabilità, se è vero che la storia si ripete sempre uguale a sé stessa, questa volta sarà di raccontare gli effetti immediati, popolari delle grandi cesure: che la storia la scuotono, ma non la scrivono. Lo sforzo di staccare lo sguardo dalle notizie di agenzia, dai comunicati ufficiali delle forze di sicurezza, e sporgere il naso fuori dalle finestre, nei quartieri della grande e vivace Beirut, Beirut cosmopolita, segregata e settaria Beirut. Dove si sta compiendo – e non soltanto da una settimana – un pogrom. I rifugiati siriani, capro espiatorio del Libano di oggi.