La rotta mediterranea è stata dichiarata la più letale al mondo: ciononostante, centinaia di migranti continuano a imbarcarsi dalle coste libanesi
Non importa che sia stata dichiarata la rotta più pericolosa al mondo: il Mediterraneo, per molti, è la sola scelta possibile.
Quella che venerdì è stata soccorsa dalla Marina Militare libanese è solo una delle decine di imbarcazioni che ogni anno salpano dalle coste settentrionali del Libano per dirigersi verso Cipro, la Grecia, e l’Italia: 51, soltanto nel 2022, con 4,334 passeggeri a bordo.
Lo scarto tra l’ordine delle decine e quello delle migliaia – così come il rapporto tra le due dimensioni: quella strumentale, la barca, e quella umana, i migranti – darà forse un’idea delle durissime condizioni di viaggio. 1:84,98 – una barca ogni quasi 85 persone. E volontariamente stresso il ‘quasi’: chi, pur consapevole del pericolo, sceglie comunque di rischiare tutto e imbarcarsi, è evidente che lasci indietro qualcosa. Un paese. Una speranza. Un’ambizione, un futuro possibile. Foss’anche soltanto lo 0.02 percento di sé.
Sul barcone di venerdì, salpato dalle coste di Akkar, nel nord del Libano, c’erano 110 quasi-migranti, 108 siriani e due libanesi. I primi, già rifugiati in un paese che non ne riconosce il diritto alla sicurezza, alla casa, al lavoro – ad eccezione di pochissimi settori: edilizia, agricoltura e pulizie -, e dunque alla dignità: e che a partire dal gennaio del 2023 sono stati al centro di una violenta campagna di deportazioni forzate verso il confine del non-più-loro paese, da ormai dodici anni.
I secondi – libanesi: che se teoricamente potrebbero intraprendere altre rotte, perchè in possesso del passepartout necessario all’esistenza legale: un passaporto valido – nella realtà che non guarda in faccia né a leggi né a teorie, non possono permettersi il sostegno economico preteso. Per ottenere un visto di accesso all’Europa, lo Schengen, le ambasciate richiedono infatti un destreggiamento burocratico che documenti «sufficienti mezzi finanziari»: vale a dire, le copie originali degli estratti conto bancari con le transazioni degli ultimi tre-sei mesi, il saldo del conto e la prova di un reddito regolare. Che per un paese come il Libano, in cui più del 45% della popolazione vive sotto la soglia di povertà – cioè riceve meno di tre dollari al giorno -, e in cui le banche hanno chiuso per mancanza di liquidi, i liquidi dei cittadini, significa: respinto.
In una gara di prestigio tra carte, dunque, i soldi battono anche i documenti. E a rimetterci, tutte le volte, sono le classi subalterne – e dentro di esse, senza distinzione che non sia svilente, i perseguitati, i profughi, gli esiliati: che invece che proteggere, il mondo penalizza per l’audacia di essere sopravvissuti all’ennesimo sfollamento, all’ennesima guerra, a un’altra, disastrosa crisi economica – e cioè all’ulteriore fame, all’ulteriore freddo.
Il 2022, secondo i dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM), è stato l’anno più letale per i transitanti nel mare nostrum dal 2017: e delle 3,789 quasi-persone morte nel Mediterraneo orientale, centrale e meridionale – tutte dirette dal Medio Oriente e dal Nord Africa, con o senza lo 0.02 percento di speranza, ambizione o futuro – senza contare le 2,406 scomparse lungo la rotta – circa un decimo proveniva dalle coste libanesi.
E se di queste vogliamo ancora sezionare, ripartire, categorizzare, secondo l’UNHCR, della totalità dei quasi-migranti nel 2022 – in inglese dicono ‘would-be migrants’, che avrebbero voluto, ma non ce l’hanno fatta – il 66% erano siriani, il 24% libanesi, e il 10% palestinesi.
Quasi partenze
Salim ha trentadue anni, è siriano, di Aleppo, e da dodici anni non vede la sua famiglia. «Tante volte, in sogno, ma quello non conta» mi dice, scacciando via il pensiero emotivo, ed evitando di distrarsi dai dati che mi ha promesso di raccontare. «Era il 2021, non avevo un soldo, e di tutti i trafficanti che mi è capitato di incontrare, uno di loro, uno soltanto, ha avuto quel briciolo di umanità per ricordarsi di me, quando l’occasione si è presentata». Ci tiene a ripeterlo: non erano amici, con persone così spietate non è contemplabile costruire un rapporto che non sia di lavoro. «Quando si tratta di soldi, non c’è niente che possa ostacolare il loro percorso. Niente, neppure i loro stessi figli». Salim, che nella preveggenza del suo arabo significa ‘colui che è al sicuro’, mi parla in una piazza del centro di Tripoli, nel Libano settentrionale: senza temere che i passanti comprendano il nostro inglese. Ce ne stiamo seduti su un marciapiede a bere caffè al cardamomo, salvi, parecchio lontani dal confine meridionale sotto costante bombardamento israeliano, e abbastanza da quello settentrionale affacciato sulla Siria, in cui, se venisse catturato, per lui significherebbe morte: e la profezia del suo nome verrebbe smentita.
Come tanti giovani siriani fuggiti alla guerra, Salim aveva preso parte alle rivoluzioni del 2011: avendo rifiutato di arruolarsi nell’esercito del regime che opponeva, è diventato dissidente, dunque ricercato – ed è fuggito, una notte del 2012, varcando il primo confine che l’ha reso, da cittadino che era, irrimediabilmente, fatalmente profugo.
In Libano, dove a seconda del clima politico ha vissuto per anni un po’ nascosto, un po’ allo scoperto – sempre cauto nel non raccontare troppo di sé: «la Siria ti insegna a non fidarti di nessuno» -, dopo essere stato arrestato per un permesso di residenza scaduto, privato del passaporto, e rimpiazzato da un foglio di carta stropicciato che vale tutta la sua identità, ha tentato, più di una volta, di fuggire. Ed escluse per ovvie ragioni le vie legali, gli restava il Mediterraneo. «Allora avevo due problemi: che non avevo soldi, e che non sapevo nuotare». Al secondo non badi, perché a salvarti, se deve, ci pensa Dio. Rispetto al primo, invece, se sei abbastanza fortunato da conoscere – pur senza esserne amico – l’unico trafficante con quel briciolo di umanità da ricordarsi di te, quando si presenta l’occasione di un capitano a cui manca l’assistente, anche se tu il mare aperto non l’hai mai visto, e che ti propone un viaggio gratis, al solo prezzo di quella responsabilità, è fatta. Anche in questo caso, sembra, ci ha pensato Dio. Ilhamdulillah.
«Conosco persone che hanno venduto tutto, la macchina, i gioielli, pur di potersi permettere il viaggio. Almeno 5,000 dollari a persona per Cipro, fino a 7,000 per la Grecia e per l’Italia», mi racconta, confessando di essersi sentito un impostore, per quel solo stratagemma che gli avrebbe reso la partenza possibile. «Ma non avevo niente, solo il cellulare, qualche certificazione, un paio di libri, dei vestiti per un clima di cui non avevo idea, e non osavo controllare, per paura che non mi bastassero».
Allora, Salim non partì: una chiamata dell’ultimo momento, un amico in difficoltà che non poteva lasciare indietro – «I could not, I just could not» -, la sostituzione dell’ultimo minuto del suo ruolo di assistente di guida, il prezzo irripetibile del suo biglietto, la sua occasionale possibilità di salvezza. Tutto svanito. Forse così voleva Dio.
Gli domando, allora, dello 0.02 percento. Della parte di sé che avrebbe abbandonato, o che gli è stata strappata con la forza. Se l’abbia o meno ritrovata, tornando indietro verso il luogo che non gli è concesso chiamare casa; o se sia invece andata persa per sempre. Di quello che stava lasciando indietro, che scelse di non mettere nella sola valigia permessa a bordo.
Sembra stranito, ma accetta di seguire l’ingenuo ragionare di una ragazza nata dall’altro lato dello stesso mare, che si costringe ad ascoltare decine di storie come questa, per provare a comprendere, eppure non capisce, non vuole accettare. Non posso, semplicemente, non posso.
«Non era la prima volta che varcavo un confine: quando lasciai la Siria, dentro di me sapevo che non sarei tornato. Allora persi gran parte dei miei affetti, delle mie speranze, i miei amici, i sogni della rivoluzione. Ero terrorizzato, e quando hai così paura ma sei costretto ad affrontarla, necessariamente perdi qualcosa. Ma questa volta, nel provare a lasciare il Libano, non mi importava di niente. I miei vent’anni mi avevano già abituato all’assenza di identità». Che vuol dire: di dignità. Si capisce, che gli fa intimamente male. Più del non poter vedere la sua famiglia, di aver perso un paese e i sogni di rivoluzione, più delle decine di amici assassinati nella guerra. «Io, praticamente, non esisto»: e quando non esisti, è facile – anzi, è irrilevante – correre rischi, andare incontro alla morte. Il viaggio di Salim, ad oggi, è unicamente rimandato. Così, anche l’avverarsi della profezia del suo nome: postponed.