Dopo il pre-Bridgertoniano e artistico La Linea del Colore, ambientato tra Italia, Regno Unito e Stati Uniti, Igiaba Scego è tornata nelle librerie con Bompiani con Cassandra a Mogadiscio, un romanzo memoir tra Italia e Somalia, tra passato e presente, guerra in-civile e diaspora somala riflessa anche nella sua storia familiare.
«Sentivo di non esser andata tanto a fondo in La mia casa è dove sono, avevo deviato dal trauma delle guerra. Non era proprio quello che volevo fare, volevo fare di più e durante la pandemia ho trovato il coraggio e il tempo per lo scavo storico. Ho applicato la regola di Alessandro Portelli nel suo bellissimo L’ordine è già stato eseguito sulle Fosse Ardeatine, su come si intervista, sul non dare per scontato la relazione familiare. Si parla di nipoti, madri, padri, una storia collettiva, sono parte in causa, e anche storica», spiega Igiaba Scego.
«Succede a molte persone di costruire relazioni con i propri fratelli e sorelle. C’è una frammentazione dei rapporti familiari. Si parla di migrazione, ma sempre di cifre, mai di persone, della loro intimità e del loro volersi bene. Volevo fare questo rovesciamento: come persone razzializzate c’è la volontà di mettere al centro qualcosa che viene sempre messo ai margini», aggiunge Scego.
La linea direttiva del romanzo e memoir si muove fortemente attraverso lo scambio tra Scego, sua madre e la nipote della autrice e l’attrice Soraya, in uno scambio intergenerazionale tra tre esperienze diverse.
La storia della Somalia, dal colonialismo italiano all’arruolamento forzato di somali nell’invasione dell’Etiopia, nel segno del “Divide et impera” del suprematismo bianco coloniale. E poi la storia della madre, dalla pastorizia nomade a Mogadiscio, e quella del padre, la cui memoria attraversa il libro: Ali Omar Scego, sindaco di Mogadiscio e governatore del Benaadir, ambasciatore e ministro delle Finanze della Somalia, fino al colpo di stato che portò alla lunga dittatura di Siad Barré nel 1969.
Si parla poi della lunga sopravvivenza di Barré sullo scacchiere geopolitico, dovuta anche a un cambiamento di alleanze da Mosca a Washington, ma anche delle storie dei fratelli rimasti e cresciuti in Somalia: politica e storie familiari e personali si intrecciano nello splendido romanzo di Scego, vivido e pulsante, nella gioia e nel dolore.
Mogadiscio, la capitale della Somalia è centrale, o forse si potrebbe dire che le diverse Mogadiscio sono centrali, insieme alla guerra degli anni Novanta.
«Mogadiscio è una città che per me ha avuto una valenza molto reale, ci ho vissuto, ci andavo tutte le estati, ma poi ha subito queste violenze, come le città tedesche durante la seconda guerra mondiale. Quella Mogadiscio che conoscevamo noi non c’è più: su quelle macerie è stata ricostruita una città nuova di zecca. Una città sovrapposta, con tante linee di classe rispetto a prima: nel libro volevo raccontare anche lo spaesamento delle persone che hanno vissuto la diaspora. Persone che sono rimaste a un arredamento, cibo etc molto legato agli anni Ottanta, portandolo con loro in diaspora. Ma la Somalia è andata avanti, il cibo è cambiato, i palazzi sono cambiati.
Ci sono oggetti quotidiani che si usavano negli anni Settanta e Ottanta e vengono venduti come souvenir, i turisti che li acquistano poi sono persone della diaspora. Questo è un libro sulla diaspora: sei kenyota, svedese, italiano, canadese, ti porti la Somalia nel cuore, ma sei anche diverso da chi vive in Somalia. Per me era importante farlo capire, per chi è dentro e chi è fuori da questa storia».
«La prima cosa che ho visto di Mogadiscio – continua Scego – era l’ adesivo della Juventus sul frigo di mia zia, che strappai. Per me è stato complesso ritornare agli anni Novanta. Avevo 16 anni, andavo a scuola, alla festa di Capodanno, ma il mio corpo entrava in un’altra dimensione. Era la fine della guerra fredda, Fukuyama aveva detto che era finita la Storia e c’era un grande entusiasmo nel Nord del mondo. Nel Sud del mondo invece cominciavano le guerre infinite: Iraq, Somalia, Algeria, ex Jugoslavia, Rwanda».
«Mentre i miei compagni vivevano ottimismo, io vivevo nella guerra. Sono dovuta tornare a un periodo storico che ci raccontano poco e ho preparato una playlist chiamata “Cassandra a Mogadiscio” per le scuole con canzoni degli anni Novanta e canzoni somale. C’è tanta musica e volevo spiegare come quel periodo storico era intriso di jirro, guerra. Le guerre sono organismi vivi, mutano, come nei film di fantascienza. La Somalia vive una “pace guerreggiata”, la pace è diventata una parola ambigua, tra l'”equilibrio sopra la follia” di Vasco Rossi e il rischio di ricadere nel baratro».
«Noi possiamo mettere dei paletti, ma dobbiamo fare i conti col jiro (“malessere” in somalo, Ndr), questo libro voleva fare i conti col dolore, ma anche sul non soccombere al dolore, in una riflessione sulle guerre. Le persone danno per scontata la propria vita, ma noi dobbiamo occuparci del mondo perché il mondo si occupa di noi. La vita può cambiare in un secondo. Cambia di tutto con la dittatura, con la guerra. Cerco di spiegare l’importanza di aver cura del nostro pianeta, del nostro spazio urbano. Tutto questo lo ho imparato perché fa parte della mia esperienza. I miei genitori hanno vissuto il momento della decolonizzazione dell’Africa negli anni Sessanta, l’orgoglio dell’Africa agli africani, della fine delle storture coloniali: ho visto il loro orgoglio, quel periodo storico mi appassiona molto e probabilmente ci tornerò. Era un momento di grande effervescenza e una cosa che mi ha sempre molto colpito».
Il romanzo di Scego, parte della dozzina iniziale del premio Strega di quest’anno, è vivido, vivo e vero, parla di guerra e delle esperienze delle persone razzializzate in Italia e altrove, parla del modo in cui le percezioni su cosa significa essere rifugiati e migranti siano spesso errate (per parafrasare un libro curato da Scego e pubblicato da Piemme, anche l’uomo più forte del mondo, ultimo figlio di Krypton, creato da Jerry Siegel e Joe Shuster, figli di migranti ebrei negli USA e in Canada, Kal-El, Superman, era un rifugiato), su come le relazioni familiari si costruiscono, a volte, anche quando si cresce e su come le voci afroitaliane sono parte del vissuto italiano: non voci migranti, non voci estranee e non corpi estranei, ma parti vive di una identità composita.