Sfuocano le luci sull’isola. I vaporetti ne lambiscono le spiagge, instancabili, restituendo gli spettatori alla terraferma. Tra i chioschi e i ristoranti ormai sigillati riecheggiano le ultime conversazioni, mentre nella notte le sale del Lido riacquisiscono la loro forma spettrale: scevre dall’incanto che accompagnava l’80ª edizione della Mostra del cinema, non sono che architetture squadrate, enormi scatole magiche che nei giorni scorsi hanno accolto ogni genere di proiezione e ora giacciono inermi, con la stessa malinconia dei cristalli che dopo molte fusioni tornano a una forma definita.
Molto si scrive dei film e delle personalità che animano le rassegne cinematografiche, ma quasi mai si presta attenzione ai luoghi che le ospitano; come se si trattasse di contenitori neutri, e uno valesse l’altro. Ma può davvero essere un caso che il primo festival cinematografico al mondo sia nato, nel lontano 1932, proprio su quest’isola veneziana, nell’ultima propaggine di una città che è già di per sé una sfida a qualsiasi logica urbanistica, una fantasia solidificata?
Il potere incantatorio del Lido nel tempo non è andato scemando, anzi: chi quest’anno scommetteva che lo sciopero degli attori hollywoodiani avrebbe causato seri danni in termini di presenze, ha dovuto ricredersi. I membri del sindacato Sag-Aftra chiedono un aumento delle royalty riguardo ai servizi di streaming, nonché garanzie sul fatto che la loro immagine non venga manipolata attraverso l’intelligenza artificiale, di fatto rendendo superflua la performance dell’attore ed erodendo del tutto i compensi. Un accordo con gli studios non è ancora stato raggiunto, ma nonostante la diserzione di nomi importanti e attesi sul red carpet, le presenze degli spettatori sono aumentate del 17% rispetto alla scorsa edizione della Mostra, sconfessando, ancora una volta, chi parla del cinema come di un’arte già estinta.
Poor Things di Yorgos Lanthimos, a cui la giuria presieduta da Damien Chazelle ha assegnato il Leone d’oro, riassume bene l’elegante compromesso che la Mostra del cinema ha raggiunto negli ultimi dieci anni, ossia quello di proporci un cinema raffinato e al tempo stesso aperto al grande pubblico. Alla direzione di Alberto Barbera va riconosciuto il merito di saper accogliere in una stessa rassegna Maestro di Bradley Cooper quanto una punta di diamante del cinema d’autore come Frente a Guernica di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi. Non bisogna leggere questa radicale apertura solo con cinismo, come una specie di patto luciferino con Netflix e le robuste produzioni americane (che altri festival, come Cannes, rifiutano): si tratta anche di un atto di onestà, e perché no, persino d’amore verso tutte le forme che può assumere il cinema oggi.
Chi frequenta il festival sa che il suo ricchissimo programma non va immaginato per strati, con un concorso principale in superficie e poi via via un sottosuolo di proposte sempre più di nicchia, piuttosto come un percorso per cerchi concentrici, dove sì, a generare maggior forza attrattiva sono i film in concorso, ma allontanandosi dal centro si scoprono lavori più sperimentali e imprevedibili, ma altrettanto magnetici.
Tra il margine e il centro si colloca il film di Lanthimos. Basato sull’omonimo romanzo dello scrittore scozzese Alasdair Gray, pubblicato nel 1992, Poor Things racconta di una giovane donna, Bella Baxter, deceduta in seguito a un incidente e poi resuscitata grazie alle sperimentali ricerche di uno scienziato. La giovane, incarnata dal talento multiforme e “mostruoso” – è il caso di dirlo – di Emma Stone, ritorna al mondo come una signorina ben poco educata, una affascinante Frankestein che non ha granché voglia di obbedire al suo creatore.
A ben guardare, il racconto horror, inteso più come un insieme di atmosfere che non come un genere codificato, è il vero territorio di appartenenza di Lanthimos.
Se in Dogtooth, Alps o Il sacrificio del cervo sacro l’orrore si manifestava nella sfera famigliare, e spesso nella forma di un delirio condiviso o di una serie di circostanze ineluttabili, assimilabili al fato delle antiche tragedie, con La favorita Lanthimos si è votato al grottesco. I “caratteri” dei suoi primi film sono diventati personaggi, con una psicologia complessa e crudele di cui lo spazio, spesso deformato da lenti grandangolari, non è che un riverbero.
Di horror si tinge anche El Conde di Pablo Larraín, una cupissima commedia in cui il dittatore Augusto Pinochet è un vampiro ultracentenario che vive ritirato in Patagonia, e si trova alle prese con una relazione che risveglia in lui gli ultimi residui di umanità. Non stupisce che proprio a questo racconto, trasposto in un deciso bianco e nero, sia stato assegnato il premio per la miglior sceneggiatura: un genere tanto malleabile come l’horror è perfetto per dar forma al “rimosso” politico di un paese, a tutti i mostri che non abbiamo davvero sconfitto.
Nel sovrannaturale sfuma anche, in alcuni momenti, Io Capitano di Matteo Garrone, insignito del Leone d’argento per la miglior regia: il viaggio di due sedicenni del Dakar, Seydou e Moussa, che attraversano il deserto e i centri di detenzione in Libia per raggiungere l’Europa, sconfina a tratti nella fiaba, pur non risparmiando atrocità – più alluse che mostrate. Di migrazioni ci parla anche Zielona granica (Green Border) di Agnieszka Holland, premio speciale della giuria, concentrandosi sulla vischiosa foresta al confine tra Bielorussia e Polonia, dove si intrecciano, con un realismo senza sconti, le storie di una attivista, di una guardia di frontiera e di una famiglia siriana. Sono due film molto diversi quelli di Garrone e di Holland, eppure entrambi ci liberano dall’infausta discussione su chi ha il diritto di raccontare cosa, dimostrandoci che è come si racconta un soggetto a importare davvero, e che l’immaginazione è spesso l’approccio più rispettoso.
Immaginazione, appunto. Durante la conferenza stampa del suo film Origin, ispirato alla vita e ai libri di Isabel Wilkirson, premio Pulitzer nel 1994, Ava DuVernay ha commentato così il fatto di essere la prima regista nera in concorso a Venezia: «Il festival ha finalmente riconosciuto che nella sua storia c’era stata un’assenza. Bisogna ignorare i pregiudizi e fare le cose». Riconoscere un’assenza, accettando che finora abbiamo guardato soltanto una parte dell’immagine: la discussione contro la quale troppo spesso si levano le accuse di una di fatto inesistente “cancel culture”, è tutta qui.
Su questo punto, sulla capacità collettiva di riconoscere che l’inclusione non è una moda, ma la lotta con cui autori e soprattutto autrici finora ai margini chiedono di esistere e farsi ascoltare, si gioca non un futuro ideale, ma la vita presente.
Proprio per questo, la scarsa presenza di registe tra i ventitré nomi del concorso principale (oltre a Holland e DuVernay, solo Sofia Coppola con Priscilla e Małgorzata Szumowska con Kobieta Z), nonché la totale assenza di registe italiane, sono stati i veri punti dolenti di questa rassegna. I nomi di spessore certo non mancano, ma si scontrano con un circuito di distribuzione che li considera ancora mere voci fuori campo. Proprio facendoci prendere coscienza di questi limiti, i festival di cinema si rivelano tanto preziosi.
Si fatica a crederci, però è successo: c’è stato un momento nella storia in cui abbiamo deciso che ogni anno abiteremo un’isola per pochi giorni, e in quei giorni daremo sfogo al nostro immaginario, studiando i nostri volti vividi eppure imprendibili oltre la soglia di uno schermo. Respireremo la polvere scintillante tra i fasci di luce sottili, e per un po’ quello spazio buio sarà la nostra casa, un’arena in cui il passato e il futuro si mescoleranno in forme impreviste, e il mondo avrà sembianze simili eppure diverse da come lo conosciamo. Il ronzio sommesso delle barche ci attenderà poco distante, alla fine del rito, ma per quanto quei traghettatori canuti ricordino Caronte, siamo a Venezia: una sola moneta non basterà a pagarci il viaggio.