In questi giorni è difficile non pensare allo scarto tra ciò che accade nel mondo e l’esperienza isolante ed esclusiva della sala cinematografica. È come se, con l’ineluttabilità di un’altra guerra, l’imperversare delle notizie, le cifre delle vittime perpetuamente aggiornate, varcare la soglia di un cinema fosse un’esperienza ancora più straniante del solito, una forzata sospensione dall’attualità. Ma i film non sono solo distrazione e intrattenimento: sono anche occasioni per tornare nel mondo con un’attenzione rinnovata, dopo che le immagini ci hanno trasformati nel buio, acuendo i nostri sensi.
Le mie poesie non cambieranno il mondo, scritto e diretto da Annalena Benini e Francesco Pacifico, è un ritratto appassionato e ironico della poetessa Patrizia Cavalli, scomparsa nel 2022; in apparenza, dunque, un film che ci porta molto lontano dall’attualità.
Ma chi meglio di un poeta può insegnarci l’importanza delle parole, oggi che la guerra non è solo negli scontri sul campo, ma anche nel linguaggio che usiamo per raccontarla – disumanizzando il “nemico”, abbandonandoci a opinioni infuocate?
Benini e Pacifico hanno scelto di ritrarre la poetessa nel migliore dei modi, e cioè lasciando che sia lei stessa a raccontarsi sullo schermo. Se infatti il titolo del documentario rimanda all’omonima raccolta di poesie con cui Cavalli esordì nel 1974 per Einaudi, il flusso del racconto non segue un ordine cronologico: alle ultime interviste che la scrittrice ha rilasciato ai due registi, quando ormai versava in uno stato protratto di malattia, si mescolano interviste d’archivio, estratti da letture pubbliche e dai numerosi spettacoli teatrali. Ascoltiamo la donna ormai anziana che non ha perso un brivido della sua irriverenza, la ragazza con i grandi occhi ittici e il sorriso sempre scolpito in viso, l’autrice ormai esperta che legge le sue poesie su un palco, e in ognuno di questi frangenti l’espressione “presenza scenica” acquista un senso: davvero Patrizia Cavalli era in grado di assorbire tutto lo spazio intorno. Di volta in volta dimentichiamo di trovarci nel salotto della sua casa romana, in un teatro o una biblioteca, lasciandoci rapire dai suoi racconti, sempre snocciolati in un tono schietto e confidenziale, nel ritmo incantatorio della sua voce.
“Non è vero che si torna, non si ritorna / al ventre, si parte solamente, / si diventa singolari”. Così scrive nelle sue Poesie (1974-1992), e singolare lei lo è diventata veramente: la scrittrice che si offre alla telecamera non ha alcun bisogno di nobilitarsi né di apparire modesta, e se in questo genere di film tanti artisti o scrittori ci raccontano biografie inarrivabili, dove ogni giorno vissuto sembrerebbe la conferma di un genio o una predestinazione, Patrizia Cavalli traccia tutt’altra immagine di sé: “Non ero una bambina colta, ero una delinquente”.
Nata a Todi nel 1947, non ha trascorso l’infanzia sprofondando languidamente tra tomi classici, ma giocando a Morra con i camionisti – “li battevo sempre, ero bravissima coi numeri”. Alla letteratura riserva tutta la bellezza di un incontro casuale: “Leggevo solo fumetti e Tex Willer, poi un giorno, chissà perché, ho letto Amleto”. Il caso riveste un ruolo cruciale anche nel poker, un gioco che Cavalli ha per anni amato e sofferto proprio per la sua spietatezza, per il modo improvviso in cui la sorte può ritorcersi contro. Ma questa predilezione per il gioco pare sia dovuta, anche, a una cronica improduttività: “A me questa cosa che uno deve lavorare sodo e guadagnare i soldi non mi è mai piaciuta, a me piacciono i soldi regalati, i soldi vinti”.
Le mie poesie non cambieranno il mondo è, in fondo, un bellissimo manuale di diserzione: non riceviamo consigli sulla vita, né sentenze su cosa dovrebbe o non dovrebbe essere la letteratura, semmai solo un invito a stare nel mondo in maniera scompigliata. Ascoltiamo lo spassoso resoconto delle amicizie, degli incontri, delle donne che ha amato, quella cospirazione di intelligenze che le ha permesso di diventare la persona che è diventata – “Se ci pensi, è strano come ognuno di noi arriva alla sua vera vita”. A portare Patrizia Cavalli alla sua vera vita, ci ha pensato nientemeno che Elsa Morante, che Cavalli conobbe dopo il trasferimento a Roma. “Ma insomma, tu che fai?”, le chiese un giorno la grande romanziera. “Allora non so come mi è venuta questa perfida idea di dire, sapendo che per lei la poesia era il massimo: scrivo poesie. Lì è cominciato l’incubo. Mi ha guardato e ha detto: ah sì? beh, fammele leggere. Non perché mi interessino dal punto di vista letterario, voglio solo vedere come sei fatta”.
È un aneddoto che Patrizia Cavalli ha raccontato in altre occasioni, eppure il grado di autenticità di questi racconti non è davvero importante; in fondo, per il cinema vale quel che secondo Cavalli valeva per la letteratura.
Quando le chiedevano quanto di autobiografico ci fosse nelle sue poesie, lei rispondeva “tutto e niente. Un fatto deve esistere linguisticamente, e finché non esiste linguisticamente che importa se sia accaduto?”.
Per Patrizia Cavalli, scrivere degli amori falliti, di una strada di Roma, o degli oggetti che costellavano il suo quotidiano, non erano mosse autoreferenziali: la poesia funzionava come una speciale lente di ingrandimento, per capire cosa siamo davvero noi umani, cosa sia questo desiderio che ci anima – “a questo serve il corpo: mi tocchi o non mi tocchi, / mi abbracci o mi allontani. Il resto è per i pazzi”. C’è una scena particolarmente felice verso la metà del film, in cui la poetessa canta da sola, in casa, una delle poesie che aveva musicato insieme alla cantautrice Diana Tejera: “io non sarò mai tiepida / mi brucerò al fuoco degli altri”. Ripete più volte questi due versi, e in quel momento tutto ci sembra giusto: il suo volto anziano, scoperto dai capelli bianchi e radi, su cui risplende quello sguardo sempre vigile; la finestra luminosa e le pareti di libri sfuocate sullo sfondo; più di tutto, quella voce bassa e corposa che gli anni – e tutti quei “fuochi” che li hanno animati – sembrano aver lasciato intoccata.
È chiaro che una figura così interessante, così padrona del proprio racconto, riesce a compensare un film statico e non particolarmente inventivo sul piano dell’immagine – non a caso, Benini e Pacifico appartengono più al territorio della letteratura che a quello del cinema. Le mie poesie non cambieranno il mondo non ci resta impresso per essere un film sperimentale, ma per aver fatto qualcosa a cui Rai Cinema sembrava aver rinunciato da tempo, e cioè una sapiente opera di divulgazione, fruibile da chiunque. Più di tutto, a restarci impresso è l’eloquio pressoché perfetto di Cavalli, il suo procedere limpido e mai banale, dove ogni frase è sempre accuratamente misurata. Uscendo dalla sala, torniamo al mondo affollato di voci con la consapevolezza che un poeta sia forse questo: qualcuno che ha avuto cura di ogni singola parola, e che anzi ha vissuto per le proprie parole. Niente di più, ma assolutamente niente di meno.